di Nicola Lagioia
straniero53.jpg[Questo intervento dell’autore di Occidente per principianti è stato pubblicato su Lo Straniero, la rivista diretta da Goffredo Fofi, della quale invitiamo caldamente non soltanto a visitare il sito, su cui si segnala peraltro una splendida lettera di Kurt Vonnegut, ma di acquistare e compitare l’edizione cartacea, il cui ultimo indice è qui leggibile]

lagioia.jpgVecchie istantanee
L’ultima immagine che ho di Mantova, prima di tornarci in questo autunno del 2004, risale alla quinta edizione del Festivaletteratura. Ero nel Cortile della Cavallerizza di Palazzo Ducale, le dieci di sera, lo spazio gremito dalla folla e il mio bagaglio gettato sul manto erboso oltre le file delle sedie tutte occupate. Avevo appena perso il passaggio che avrebbe dovuto riportarmi a Roma, ma non me fregava niente. Gore Vidal, spalleggiato da un Alberto Arbasino in grande spolvero sbucato inaspettatamente dal grumo colorato degli spettatori, stava polemizzando con due ragazzoni vestiti come i sicari di un film tratto da un romanzo di Philip K. Dick.

I due (gessato, camicia nera, auricolare, un’impercettibile ricrescita lungo le teste rasate) erano scattati rabbiosamente in piedi dalle prime file all’ennesima battuta di Vidal contro l’amministrazione Bush. Rimproveravano allo scrittore di mescolare politica e letteratura: “You’re a writer, not a politician!”. L’autore dell’“Età dell’oro” si era guardato intorno percorrendo con aria incredula le architetture volute dai Gonzaga prima di ritornare sul microfono e sussurrare come tra sé e sé: “Republican party is everywhere…” I replicanti, sommersi dalle risate della folla, si erano arrabbiati ancora di più. A quel punto era intervenuto Arbasino, che dopo aver lanciato con perfida costernazione un colpo di spugna sull’ascendenza dei contestatari (coordinatori di Forza Italia giovani, o qualcosa del genere), aveva dato vita a un memorabile duetto con il proprio collega, mettendo alla berlina la politica estera degli Stati Uniti e la demenzialità senza fondo dei governanti italiani, sinistra inclusa. A ricordare la data di quell’incontro (8 settembre del 2001), qualche brivido scorre ancora lungo la schiena. Il Festival di Mantova era — e riesce ancora a essere — soprattutto questo: incontri traboccanti di spettatori, scrittori e lettori a confronto, discussioni anche accese, imprevisti molto spesso felici.

Verso Mantova
Trovare un albergo a Mantova nei giorni del festival è un’impresa disperata. Ho incassato per telefono una trentina di “mi dispiace, tutto occupato”, prima di rassegnarmi a soggiornare a Canneto sull’Oglio, ultima stanza disponibile, quaranta chilometri a ovest dalla città. Sei anni di scintillante precariato nel mondo dell’editoria mi hanno insegnato l’arte di sopravvivere a scrocco: non sono pochi gli editori e gli organizzatori di eventi che mi devono dei soldi ma centinaia — credo — le cene che sono riuscito a farmi offrire dai miei futuri creditori. Trovo un passaggio fino a Bologna. Ne scrocco un altro fino alle porte di Modena. Qui, approfitto della gentilezza di Carlo Lucarelli (l’ho conosciuto poche ore prima), e passo la notte a casa sua. Il giorno dopo, altri due passaggi: a Canneto e quindi a Mantova. Per un pugliese trapiantato a Roma, il paesaggio padano — con i suoi fumi e la sua disperata vastità — trasfonde la calma nella monotonia e quest’ultima in una lieve forma d’ansia. Ma l’ansia si rapprende nel sospetto a pochi chilometri dal mio albergo quando, oltre il parabrezza della Fiat Punto che curva da qualche ora tra cascinali e centrali petrolchimiche, riesco a leggere: “Benvenuti a Canneto sull’Oglio — Repubblica Padana”. Nei giorni successivi incrocierò un senegalese che mi illuminerà sulle molteplici forme di ostruzionismo con le quali è possibile compromettere il rinnovo di un permesso di soggiorno. Lui e i suoi connazionali, racconta, vengono apostrofati da molti abitanti della zona con il dispregiativo di: “napoletani”. A una manciata di chilometri si sta intanto discutendo di identità e alterità, integrazione, fondamentalismo, società multietnica — perfino Ken Follet, la cui moglie fa la parlamentare del partito laburista, confesserà che la sua opinione sull’intervento in Iraq “è parecchio cambiata”. A Mantova mi sembrerà così di vivere (sempre Philip K. Dick) in una strana ucronia: una città rinascimentale minacciata oltre le mura dagli echi pesanti dell’età del ferro. Tutto questo durante il festival. E dopo?, non posso fare a meno di chiedermi.

In città
Il Festivaletteratura scoppia di salute. Te ne accorgi non appena inizi a passeggiare nel centro storico di Mantova: una fiumana di gente scorre per le strade principali, si ingrossa a Piazza delle Erbe e a Piazza Leon Battista Alberti, si disperde con sorprendente rapidità lungo i vicoli e le stradine per correre a sentire Toni Morrison, Alice Sebold, Michel Faber. E poi giornalisti televisivi rimasti senza cameraman, autori smarriti in cerca del proprio ufficio stampa, uffici stampa rimproverati di mancata ubiquità dai propri superiori, vecchi critici letterari che si godono questo controllatissimo carnevale letterario nascosti in un angolo di un bar, il tutto sotto lo sguardo benevolo del giovanissimo esercito di volontari (ben 600!) che in maglietta rigorosamente blu si mettono a disposizione di chiunque abbia perso la bussola e non riesca più a capire verso quale degli oltre duecento eventi — tra dibattiti, reading e concerti — condurre le proprie strematissime gambe. Quello di Mantova, nel nostro paese, non è naturalmente l’unico festival letterario degno di nota. A Roma, per esempio, nella cornice della Basilica di Massenzio si sono succeduti nelle ultime estati, davanti a un pubblico sempre molto numeroso, scrittori del calibro di J.M. Coetzee, Don DeLillo, Gunter Grass, Abraham Yeoshua. Si tratta di uno dei tanti appuntamenti dell’estate romana a cui si può decidere di andare all’ultimo momento, come alternativa a un concerto o a una pizza con gli amici nel vicino rione Monti. A Mantova invece, ogni anno, migliaia di lettori accorrono da tutta Italia in treno, in macchina, scroccando passaggi, rinunciando a un week end con la famiglia, mettendo spesso qualche centinaia di chilometri tra casa loro e il luogo in cui si trovano appositamente per vedere il proprio scrittore preferito, per sentire Mark Haddon e rimanerne magari delusi, per constatare ammirati la prodigiosa assenza di sentimentalismo di Doris Lessing e la forza oratoria di Toni Morrison, per domandarsi abbastanza legittimamente: “per quale motivo mi trovo qui, a sentire Andrea De Carlo che suona la chitarra, se fra dieci minuti a Piazza Castello inizia il concerto di Patty Smith?”

Il pubblico
Negli ultimi anni, con gran dispendio di energie, ho partecipato a circa un centinaio di presentazioni librarie — in qualità di spettatore, autore, presentatore di altri autori, allestitore di stand, portatore di casse cariche di libri. In certi casi è andata bene: una cinquantina gli intervenuti, molto attenti durante la presentazione e soprattutto pertinenti nelle domande. In altri casi invece ho incontrato i miei lettori e dopo, tutti e tre, ci siamo andati a fare una birra; sono stato l’unico spettatore tra decine di sedie vuote oppure ho visto sedicenti poeti sbucare tra la folla e iniziare a declamare i propri versi interrompendo lo scrittore che avrebbe dovuto parlare delle sue ultime fatiche — sproloqui sul Sessantotto durante convegni sul romanzo di fantascienza, accuse di intimismo a chi, per circa un’ora, aveva parlato solo di mafia, globalizzazione e fine delle età industriali. A Mantova contrattempi del genere sono impensabili. Gli incontri — quasi tutti a pagamento — non si svolgono mai davanti a meno di cento spettatori. Questi ultimi sono persone che molto spesso hanno letto il libro di cui si parla, sanno chi è l’autore, sono capaci di gratificarlo o di metterlo in difficoltà con cognizione di causa e così, quando nel portico di Palazzo S. Sebastiano cinquecento persone scattano in piedi per salutare con un applauso fragoroso l’ingresso claudicante sulla scena di Edward Bunker non significa che l’hanno scambiato per una star di Hollywood — “Reservoir Dogs” a parte — , ma stanno omaggiando proprio lui, l’autore di “Come una bestia feroce”, di cui hanno letto i romanzi e dalla cui agiografia sono rimasti evidentemente affascinati. Tutto questo in una qualunque Feltrinelli non sarebbe successo. Merito degli organizzatori del festival, che hanno saputo creare un’alchimia quasi perfetta fatta di dedizione, buone idee e un’ineffabile principio attivo che nessuno sarebbe in grado di vagliare. È importante però che il meccanismo non diventi troppo perfetto. Nelle prime edizioni del Festivaletteratura l’apparato logistico aveva le ganasce più allentate, i vuoti organizzativi si trasformavano in momenti d’improvvisazione, gli uffici stampa non presidiavano militarescamente i propri autori, e così era più facile incontrare ad esempio Salman Rushdie (non a firmare autografi al termine della sua lettura, ma intento a sorseggiare solitario un tè al bar di Piazza Erbe) e fargli i complimenti per i “Bambini della mezzanotte” o, in alternativa, rimproverargli la scellerata collaborazione con Bono Vox degli U2. Se la squadra che vince non si cambia, insomma, il modulo di gioco ha sempre bisogno di essere rinnovato. E così, giunto al culmine del suo successo, il Festival di Mantova nei prossimi anni dovrà inventarsi qualcosa per evitare di trasformarsi in una semplice vetrina.

Gli addetti ai lavori
Riesco a vedere pochissimi eventi. Ogni volta che sto per raggiungere la Casa del Mantegna, Campo Canoa, Cortile Frattini, vengo contrastato da una forza di segno opposto che, sotto le spoglie di un giornalista, un editor, un libraio, un giovane scrittore, mi trascina in un bar davanti a una fila di martini. Il festival è anche un’occasione d’incontro per gli operatori del settore. C’è il piccolo editore che gira tra la folla per capire com’è cambiata la percezione del mondo esterno rispetto al suo lavoro: “se i sorrisi a denti stretti dell’anno scorso si trasformano in piaggeria, vuol dire che stiamo andando bene”. C’è lo scrittore strapazzato da un critico nelle terze pagine di qualche mese prima che — gli occhi cerchiati di sangue — va a caccia di chi l’ha stroncato per sfidarlo a duello; lo incontra finalmente, lo trova purtroppo simpatico e non riuscendo ad aggredirlo come aveva progettato se lo porta a cena, nel corso della quale il critico trasformerà la propria recensione derisoria in una puntuale, ragionata, educatissima disamina del libro velata solo da rilievi insignificanti (“lo sai che in fondo ti stimo…”), e lo scrittore — incredulo ma compiaciuto — seppellirà solo a metà l’ascia di guerra (“stima stima, figlio di puttana”, penserà, “che prima o poi ti faccio il culo”). Ci sono gli editor di due case editrici concorrenti che si stringono cordialmente la mano, occultando con la sinistra i contratti con i quali sono riusciti a strapparsi l’un l’altro almeno un paio di autori. E insomma, il gran balletto delle lettere italiane che nel corso dell’anno ha volteggiato piuttosto inconsistente nelle pagine dei giornali, per radio, via fax, via telefono, via posta elettronica, trova a Mantova una buona occasione per dare un volto e quindi una maggiore consistenza e dignità a polemiche, litigi, incomprensioni, nevrosi, salvo poi dimenticarsene non appena si ritorna tutti a casa.

Per finire
Mezzanotte e mezza di sabato undici settembre. Dopo avere visto gli edifici del XIII secolo rischiarati dallo spettacolo dei fuochi d’artificio, mi sono rifugiato dalle parti della stazione, in una galleria di arte contemporanea prestata all’Einaudi per la festa di Stile Libero. Passo il tempo a bere, a chiacchierare e a riconoscere visi più o meno noti (ecco Vinicio Capossela, ecco l’editore di Canongate, riecco Lucarelli, ecco una bionda di un metro e novanta da tutti ricordata come: “la moglie di Paul Auster”). Per risparmiare sull’albergo ho deciso di passare la notte in treno. Ma il prossimo Eurostar per Roma parte alle sei del mattino, e così prego con tutte le mie forze che questa festa duri il più a lungo possibile, prima di farmi ritrovare solo, in una città fantasma, ad aspettare l’alba.

Alle due del mattino il colpo di scena. Gli uffici stampa Einaudi, impietositi da questo loro imminente autore male in arnese, sono riusciti a trovarmi all’ultimo momento una stanza pagata dalla casa editrice “nel miglior albergo di Mantova, a poche stanze dalla suite di Ken Follett”. Così, otto ore dopo, anziché “un risveglio triste / in un treno all’alba”, come dice il poeta, riprendo conoscenza tra i rasi e gli specchi dell’Hotel S. Lorenzo. Da qualche parte, qui vicino, riposa un uomo da molti milioni di sterline. Che cosa può aver sognato per tutta la notte, mi chiedo con cinismo e un pizzico di invidia, se non le versioni cinematografiche dei propri romanzi?

Quando sto per lasciare l’albergo scopro che proprio lui, mr. Best Seller, prima di soggiornare nel luogo in cui mi trovo per grazia ricevuta, ha preteso di visionare da Londra le foto e la piantina della stanza dove lo avrebbero messo, e ha inoltre dato disposizioni sulle decorazioni floreali che avrebbe dovuto trovare al suo arrivo. Quando si è accorto che le gardenie erano fasciate di azzurro anziché di blu, ha rispedito i fiori alla reception. Il mio moralismo torna all’umiltà di Guido Ceronetti nell’edizione del 1997, all’elegante sobrietà del premio Nobel Saramago dell’anno dopo, e mi dice quali strade percorrere e quali trappole evitare perché il festival di Mantova non venga fagocitato dalla propria splendida fortuna.