di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

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In occasione della sentenza di Cassazione che ha definitivamente prosciolto Giulio Andreotti dall’accusa di connivenze mafiose (ma solo a far data dal 1980), riproponiamo un commento apparso su Hortus Musicus n. 17 (gennaio-marzo 2004), immediatamente dopo l’analoga sentenza della Corte d’Appello di Palermo.

Vassene il tempo e l’uom non se n’avvede. Chi l’avrebbe detto che fossero già trascorsi più di ventidue anni e mesi sei da quella primavera del 1980? E pensare che la Giustizia ce l’aveva quasi fatta: il ritardo infatti — qui ci permettiamo di dissentire dalla sentenza della corte d’Appello di Palermo — non pare affatto «ampiamente superiore» ai termini della prescrizione, che ha estinto il delitto di associazione per delinquere del senatore a vita. Pazienza, i giudici ce l’avevano messa tutta: quando si dice la sfortuna! Del resto forse è meglio così: da troppo tempo il senatore a vita fa parte del panorama romano e della nostra vita per confinarlo nell’uno o l’altro sito oltre il Tevere. E poi, bisogna ammetterlo, anche nelle deplorevoli circostanze criminose definite dalla sentenza ha saputo conservare il suo stile garbatamente prelatizio, l’aplomb che lo ha sempre distinto in un parterre politico piuttosto sguaiato.

Una volta decisa, per ragioni che qui non è il caso di discutere, «una autentica, stabile ed amichevole disponibilità» verso la mafia, chiunque altro al posto suo avrebbe scelto, già che c’era, i mafiosi cattivi, gli estremisti; lui no, non ha perso la misura, ha scelto la «c.d. ala moderata di Cosa Nostra», ai sensi di legge nemmeno una banda armata, capace invero di possedere «stabilmente delle armi, debitamente occultate» e di effettuare con esse «per la commissione dei singoli reati […] spostamenti da luogo a luogo», ma non di scorrere «in armi le campagne e le pubbliche vie col proposito di realizzare le condotte criminose che si riveleranno possibili, con correlate azioni di depredazione, grassazione e soverchierie». Non dovremmo essere grati ancora una volta alla ben nota moderazione e saggezza del senatore per aver scelto il male minore, invece di lasciarsi andare a disdicevoli e aggravanti scorrerie con mafiosi estremisti?
Questo devono aver pensato anche i giudici di corte d’Appello, i quali, stabilita la prescrizione del reato, nella sentenza hanno potuto liberamente indulgere a considerazioni del tutto platoniche sul reato stesso, sulle attenuanti e sulla titolarità del giudizio. Il reato — «una vera e propria partecipazione alla associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo» — ci fu, senza dubbio, un po’ in ragione di «un autentico interesse personale» dell’imputato, un po’ — secondo il commento dei giudici, non sapremmo dire se indulgente o severo — in ragione di «una effettiva sottovalutazione del fenomeno mafioso, dipendente da una inadeguata comprensione — solo tardivamente intervenuta — della pericolosità di esso per le stesse istituzioni pubbliche e i loro rappresentanti». Di qui, nell’ambito dei «rapporti di scambio» conseguenti, «il solerte attivarsi dei mafiosi per soddisfare […] possibili esigenze […] dell’imputato e di amici del medesimo». Esigenze, fanno notare opportunamente i giudici, «di per sé, non sempre di contenuto illecito», il che conferma la lodevole moderazione dell’imputato; e se poi per soddisfarle — lecito o illecito che ne fosse il contenuto — i mafiosi, nella loro esuberanza, si attivarono «ricorrendo ai loro metodi, talora anche cruenti», che poteva saperne l’imputato, che in quel tempo sottovalutava ancora il fenomeno? Ci fu poi l’«interazione dell’imputato con i mafiosi nella vicenda Mattarella», il presidente della Regione siciliana assassinato dalle amichevoli relazioni dell’imputato, nonostante i suggerimenti di lui in contrario. Dire peraltro, come nella sentenza, che in questa circostanza l’imputato non si mosse «secondo logiche istituzionali» — in parole povere: che non telefonasse in tempo utile, o almeno dopo, al 112 — francamente sembra un eufemismo. Probabilmente nel vocabolario e nel codice ci sono altre espressioni per qualificare un tale silenzio e forse i giudici le avrebbero usate se non si fosse trattato di personaggio dalla «lunga carriera politica, densa di onori e di riconoscimenti». Fatto sta che — vuoi per il fascino del personaggio vuoi per il carattere ormai platonico del discorso — la sentenza, una volta affermate la sussistenza, la gravità e l’estinzione del reato, cede alla tentazione di prendere il largo verso lidi piuttosto metafisici, adducendo che «di questi fatti, comunque si opini sulla configurabilità del reato, il sen. Andreotti risponde, in ogni caso, dinanzi alla Storia». Ora accade che se si sciolgono le vele al vento metafisico poi bisogna governare la barca dell’equità perché non sconfini in acque non sue, rischiando di confondere il rigore dell’apprezzamento giuridico. Senza attendere il giudizio della Storia la sentenza infatti include tra le attenuanti concesse al senatore «i rilevantissimi servizi prestati al Paese nel corso della sua lunga carriera politica»: che sembra proprio questione di giudizio storico — e nemmeno tanto pacifico — introdotta abusivamente nella valutazione del reato, giacché potrebbe darsi il caso, chi può dirlo?, che a chiamare in causa la Storia i «rilevantissimi servizi prestati» diventassero delle aggravanti. Così pure è questione di non pacifico giudizio storico che nella primavera del 1980 fosse «ancora agli albori l’attacco violento ai rappresentanti delle istituzioni ed il ricorso ai metodi sanguinari», come scrive la corte d’Appello per giustificare la sottovalutazione del fenomeno mafioso da parte del senatore. Con sforzi non immani di memoria sono evocabili dati significativi in proposito, relativi agli anni dal 1947 — diciamo a partire da Portella della Ginestra? — sino alla primavera del 1980, che la Storia potrebbe giudicare difficilmente ignorabili o sottovalutabili da chi in quel periodo fu pressocché ininterrottamente al governo del Paese. Questi dati ricordano anche ciò che invece le conclusioni della sentenza non giudicano degno di menzione e che però sembra avere un certo interesse non solo storico: che i «metodi cruenti» della mafia rivestono una qualche gravità anche quando non abbiano di mira in senso stretto «le pubbliche istituzioni e i loro rappresentanti», ma si accontentino di investire tragicamente in lungo e in largo la vita quotidiana della popolazione non istituzionalmente qualificata e nemmeno tanto tutelata. Anche questo era un fenomeno «agli albori» nella primavera del 1980?
A parte però le opinabili digressioni storiografiche della sentenza, l’appello alla Storia pone una serie di questioni generali senza dubbio interessanti. Innanzi tutto i giudici fanno giustamente riferimento alla Storia e non agli storici, come di solito incautamente si fa. Gli storici, si sa, volentieri raccontano storie, sono capaci di dire che il Santo Uffizio dell’Inquisizione era una istituzione garantista. La Storia no, intesa come Clio è cosa seria. Ma quand’è che un reato di associazione per delinquere, prescritto o no, può essere demandato alla Storia? Quanto autorevole deve essere il reo? Secondo Machiavelli, che da storico e da esteta le ammazzatine mafiose come quella di Vitellozzo Vitelli e soci le apprezzava assai, bisognava essere almeno duchi. Ma in democrazia e per eventuali associazioni a delinquere non necessariamente così cruente, qual è il terminus a quo per appellarsi alla Storia? Il senatore a vita, sette volte presidente del consiglio, sembra a posto. Ma eventualmente andrebbe bene anche un ministro, un assessore regionale, un sindaco? A quo?
Questo è un primo problema. Un secondo problema è che gli storici sono sempre tempestivi, sempre disponibili a richiesta; la Storia no, arriva comunque troppo tardi. Il che secondo i casi può anche andar bene. Infatti il senatore a vita lo sa e nella sua saggezza si è espresso con un «amen» che chiude effettivamente la questione, nel senso che all’opinato di associazione a delinquere della Storia non gliene cale proprio.
Un terzo e a quanto ci pare ultimo problema è se i giudici tra Prescrizione e Storia non abbiano dimenticato qualcosa. E se da questa dimenticanza non derivino in effetti i due problemi precedenti. Prescrizione o no, Storia o no, che un esponente altamente rappresentativo dello Stato colluda con la mafia, impegnando la propria figura istituzionale in un’alleanza «apprezzabilmente protrattasi nel tempo», è questione che prima di essere rinviata alle calende di Clio dovrebbe essere restituita ai cittadini. Diciamo restituita perché al tempo della sentenziata collusione, quando cominciò il conto alla rovescia della Prescrizione, erano in molti e da molto tempo ad avere dubbi di inquinamento della natura dello Stato — e di amichevoli relazioni siciliane e di venerabili confraternite aretine e di servizi ahimè deviati e di «persone serie» stragiste — e i loro dubbi dichiaravano pubblicamente, in un modo o nell’altro, finché l’ordine sociale e le certezze politiche non furono ristabiliti: come sempre si ristabiliscono da noi ordine e certezze, con divieti appositi ed estrose invenzioni istituzionali, e Annibale alle porte e compromessi storici. E mai una pulitina ai vetri, perché si possa vedere dentro. Insomma, tra verdetto dei giudici e giudizio della Storia la sentenza ha dimenticato la Politica, non la politica delle amichevoli relazioni dei politici, ma il rapporto dei cittadini con lo Stato, che difficilmente può dirsi di fiducia, sicché magari proprio per questo la sentenza dimentica il problema. A credere ci si esorta autorevolmente e assiduamente, ma non è facile. Per esempio vorremmo credere nella sentenza sul senatore a vita, ma come si può se anche il presidente del Consiglio ha dubbi, magari non gli stessi, se ci assicura che i giudici — e in particolare quelli del senatore — sono matti? Non è un buffo modo di dire, come quando Zavattini diceva che i poveri sono matti. E non è solo una colorita espressione di solidarietà tra presidenti del consiglio di oggi e di ieri, ché non si sa mai. È proprio una diagnosi: «Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana». Sembra il discorso di un matto e invece è il capo dell’Esecutivo, espressione del Legislativo, che dà del matto al Giudiziario. Se c’è metodo in questa follia vorremmo esserne informati da storici, filosofi, padri della patria e altri pubblici intrattenitori, invece di esserne quotidianamente imboniti e ammoniti a credere quia absurdum. Ma non sarà che questo Stato, checché ne dicano tutti loro, è maturo per la Storia?

P.s. All’ultim’ora si viene a sapere che contro la sentenza dei giudici di Palermo il senatore a vita ha deciso di fare ricorso in Cassazione. Insomma, questa Giustizia non piace a nessuno, nemmeno agli assolti. Ma si può?

P.p.s. A proposito di senatori a vita. Nel novembre scorso il senatore a vita Emilio Colombo ha dichiarato spontaneamente ai magistrati di fare uso abituale di cocaina, peraltro da «non più di un anno, un anno e mezzo». Poiché la nomina a senatore a vita è avvenuta nel gennaio 2003, qualche malevolo ha visto una relazione tra i due eventi. Da lungo tempo sappiamo però che l’argomento post hoc, ergo propter hoc non ha fondamento filosofico e infatti ogni malignità è chiaramente smentita dalla motivazione della nomina: «per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale».

P.p.p.s. Invece di malignare i maligni farebbero bene a preoccuparsi. Con le sue dichiarazioni rese subito pubbliche in merito all’assunzione di droga, il senatore a vita Emilio Colombo ha scoraggiato sul nascere ogni ipotesi di prescrizione, scegliendo di passare alla Storia senza il parere della magistratura. In effetti c’è di che preoccuparsi: così si esautorano i magistrati e si aggrava il lavoro della Storia. Non si potrebbe chiedere ai senatori a vita di seguire la normale procedura?

P.p.p.p.s. Il presidente della Camera giustamente si preoccupa e a modo suo dà l’allarme: «Il senso del ridicolo è in agguato ed è la cosa peggiore». No, presidente, il senso del ridicolo è una virtù. È il ridicolo che uccide.