mereu.jpga cura di Wu Ming 1

“Egli mi offre un luogo di rifugio / nel giorno della sventura. / Mi nasconde nel segreto della sua dimora, / mi solleva sulla rupe.
Salmi, 26-5

Corri forte ragazzo corri / la gente dice sei stato tu / prendi tutto non ti fermare / il fuoco brucia la tua virtù / alza il pugno senza tremare / guarda in viso la tua realtà / guarda avanti non ci pensare / la storia viaggia insieme a te
Area, L’elefante bianco, 1975

Un riflesso condizionato – diffuso anche tra persone che si definiscono “laiche” e “progressiste” – porta a interpretare la fuga di un accusato come una sorta di “prova morale” della sua colpevolezza, benché la storia, la cronaca e l’arte offrano innumerevoli esempi di innocenti che scappano. Ennesima riprova del persistere, in Italia, di una mentalità da Inquisizione. Fu infatti il Sant’Uffizio, rompendo con la tradizione del diritto romano codificata nel Digesto, a trasformare fuga e contumacia in elementi di “lievitazione del sospetto”, sospetto che in realtà equivaleva già a una condanna.

In una società ove prevalga una visione laica della vita e della convivenza (questa laicità che a parole son tutti pronti a difendere dai “barbari” d’Oriente, come se la barbarie fosse soltanto “allogena” ed estranea alle nostre comunità), lo Stato non ha di per sé ragione e la fuga non è (o almeno non dovrebbe essere) prova di alcunché, da commentarsi come fosse una confessione.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le riflessioni (filosofiche, giuridiche, antropologiche) sulla fuga, sul “diritto alla fuga” (che si parli di migranti, di dissidenti, di vittime di persecuzioni o abusi, di persone che non hanno avuto diritto a un equo processo etc.) e sulla fuga come opzione esistenziale (fondamentale il saggio Elogio della fuga di Henri Laborit, Mondadori 1990). Ma a ben vedere, lo stesso Thomas Hobbes (1588-1679), teorico del Leviatano e dello Stato assoluto, scavalcò “a sinistra” i nostrani commentatori mentecatti quando riconobbe: “Ciascuno è portato a desiderare ciò che per lui è bene e a fuggire ciò che per lui è male e soprattutto a fuggire il maggiore di tutti i mali naturali che è la morte; e ciò con una necessità di natura non minore di quella con cui la pietra è portata verso il basso”. Nel 2004, in Italia, c’è chi tenta di negare persino questa banalità di base, in nome di non si sa bene quale etica sacrificale e di un “dover essere” subalterno alla Ragion di Stato. Costoro che biasimano chi all’ergastolo preferisce la libertà meriterebbero d’essere, un giorno, costretti a ponderare le medesime due opzioni. Come dice un comico televisivo: “Son tutti finocchi col culo degli altri”. [Absit iniuria, ovviamente]
In fin dei conti, il “diritto d’asilo” si è evoluto proprio perchè si è dato riconoscimento alla fuga come opzione necessaria o comunque praticabile. Qualora l’asilo concesso da uno stato a un fuggitivo venisse ritrattato, una nuova fuga sarebbe non solo moralmente legittima ma doppiamente giustificata.

Riportiamo qui sotto alcuni estratti dal saggio del giurista Italo Mereu Storia dell’intolleranza in Europa (1979), pietra miliare del garantismo e della difesa delle libertà civili, interamente basato sull’evidente parallelo tra la procedura penale del Sant’Uffizio e quella introdotta in Italia dalle leggi speciali anti-terrorismo alla fine degli anni Settanta.

Pagg. 254-258 della IIIa ed., 1988 [Ia ed. “I Grandi tascabili” Bompiani 1995]:

“Si può lasciare l’Inquisizione senza essere arsi, ma non senza esserne scottati”.
Bisogna partire dall’analisi della complessa realtà esistenziale che l’aforisma esprime per intendere, in modo forse più vicino al reale, il dato normativo espresso con la legislazione sui contumaci.
Da una parte esiste la moltitudine di persone sempre e comunque sospettabili, e dall’altra quella super-polizia che è l’Inquisizione; con i suoi informatori disseminati dovunque, ligia agli ordini che vengono dall’alto e sempre pronta a imprigionare e a torturare al minimo sospetto.
Era convinzione comune che una volta che il “sospetto” dell’autorità si fosse concentrato su una persona, sarebbe stato impossibile, per questa, uscirne indenne. […] Per evitare di trovarsi in questa posizione esistenziale difficile, in linea di massima non c’era che da attenersi al conformismo più grigio, all’ipocrisia più plateale, all’ossequio più lezioso verso chi (comunque) rappresentava l’istituzione. Ma anche ciò, a volte, poteva non bastare. Si poteva ugualmente venire “in sospetto dell’autorità” ed essere chiamati a rispondere de fide. Ed era l’inizio della fine. Per questo il primo impulso era di non presentarsi e fuggire. Come farà Bernardo Ochino – predicatore tra i più seguiti all’epoca di Paolo III, generale dei cappuccini dal 1538 al ’42 -, una personalità religiosa affascinante e nuova, predicatore e scrittore che sente l’esigenza della riforma cattolica in senso diverso da quello “burocratico” – il quale, “chiamato” dal Sant’Uffizio, non si presenta e fugge in Svizzera […]
L’ipotesi legislativa formulata nella decretale Cum contumacia è molto dura, ma è anche la più conseguente alla logica del sospetto in fatto d’eresia: se il sospettato, chiamato per rispondere de fide, non si presenta, dà una prova della sua colpevolezza e pertanto verrà scomunicato. Se per un anno intero, con animo pertinace, sosterrà la scomunica, il sospetto si aggraverà ulteriormente ed egli sarà condannato (a morte) “come se fosse eretico”.

[Fuga e contumacia nel diritto romano]

[…] Non si condanni l’assente (“ne absens damnetur“): questo era stato uno dei criteri direttivi del processo romano, in armonia con il principio di presunzione d’innocenza e del contraddittorio tra le parti (“neque enim inaudita causa quemquam damnari aequitatis ratio patitur“), da cui doveva partire il giudice […] La non presentazione era considerata un “contemnere” il giudice, cioè un atto di disprezzo verso l’amministrazione della giustizia, simile in questo alla figura del “disprezzo della corte” nel diritto inglese. Tale disprezzo poteva essere sanato qualora l’imputato avesse dimostrato d’esser malato e di non essersi presentato per cause di forza maggiore.
[…] Nelle cause penali gli imputati che, più volte citati, non si fossero presentati (“saepius admoniti per contumaciam desint“), potevano essere puniti con pene leggere per tale “disprezzo del giudice”, ma non potevano essere condannati alle pene forti per la presunzione d’innocenza di cui abbiamo parlato […]
Concludendo potremmo dire che per i romani l’assenza è uno stato di fatto, che deve essere giuridicamente accertato, e che, se prolungato oltre un certo limite prestabilito dal giudice, oppure non giustificato, produce la contumacia, che è uno stato di diritto. Quest’ultima però… non ha virtù “germinative” e non produce “automaticamente” determinate conseguenze a danno dell’imputato. Al contrario, in rapporto al principio del contraddittorio e alla presunzione d’innocenza, essa ha il potere di sospendere il giudizio finale, lasciando indiscusso l’oggetto della causa.
E’ un livello di civiltà giuridica che oggi ancora non abbiamo raggiunto (in Italia).

[l’Inquisizione trasforma fuga e contumacia in prove di colpevolezza]

[…] l’assenza e la fuga non sono stati di fatto di cui bisogna prendere atto, ma prove di colpevolezza che vanno messe a carico dell’imputato; anzi sono le uniche prove (o l’unica prova) che l’autorità giudicante potrà portare… contro il sospettato, presentandole come testimonianza certa di pertinacia nell’errore […] Uno si assenta o fugge quando vuole evitare il giudizio; quando cioè non ha nessun interesse che si chiarisca la propria posizione in rapporto alla fede. E ciò non può che essere un grave peccato, un segno di disprezzo verso l’Inquisizione, una prima prova di colpevolezza, dato che il giudizio viene instaurato solo nell’interesse del sospettato e solo pensando alla salvezza dell’anima sua.
[…] Tutto ciò è in perfetto accordo con l’ideologia del sospetto. Un fedele che dinanzi alle citazioni dell’inquisitore si nasconde o fugge, non può che essere un deviante o un infetto, che non vuol farsi curare e che vuol diffondere la sua lebbra nel gregge dei fedeli.

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