di Francesco Lato

Zafon.jpgCarlos Ruiz Zafón, L’ombra del vento, Mondadori, 2004, pp. 438, € 18,00

Ripercorriamo molto sommariamente la storia del romanzo, le sue origini, dalla narrazione in poesia dell’epoca classica a quella in prosa dell’epoca moderna, e arriviamo alla grande divisione verificatasi tra Sette e Ottocento, così ben esemplificata nei canoni della letteratura inglese, tra novel e romance. Poi guardiamo all’inizio del Novecento, con il romanzo della crisi dell’Occidente, quello di Proust, Joyce e Kafka, fino all’implicazione ultima della morte del romanzo stesso. Infine prendiamo quest’ultimo periodo e cancelliamolo con un tratto di penna. È quanto fa Carlos Ruiz Zafón ne L’ombra del vento, riallacciandosi direttamente alla grande tradizione del romanzo gotico.


Non si tratta però, come potrebbe apparire a un esame superficiale, di un adattamento di stilemi anglosassoni a un romanzo spagnolo. Zafón compie un’operazione di riappropriazione di temi che sono patrimonio comune europeo. Nella letteratura inglese dell’Ottocento ci sono tanti fantasmi in castelli scozzesi, ma anche tanti mostri mitteleuropei e balcanici. Cosa impedisce dunque a Barcellona, in fondo una città nordica, i cui inverni piovosi e nebbiosi nulla hanno da invidiare a quelli londinesi, di fare da sfondo a una storia di spettri? non per niente l’azione si svolge in prevalenza nel Barrio Gotico.
Vero è che sono presenti nel libro tutti i clichés del gotico classico, dai luoghi (antiche case disabitate in rovina con tanto di torri piene di misteri, ospizi fetidi popolati da esseri mostruosi) ai personaggi (l’ispettore Fumero è l’Inquisitore, Julián lo scrittore maledetto), alle atmosfere esplicitamente da feuilleton.
Ma è parimenti vero che ci sono almeno due elementi che introducono nel tessuto del gotico classico caratteri che fanno parte della tradizione letteraria spagnola. Il primo è il personaggio di Fermín Romero, protagonista di dialoghi al vetriolo, iconoclasti e pirotecnici, che sono tra le parti migliori del libro. Con la sua rivendicazione di una morale superiore a quella della società dominante, seppure dopo una vita sempre vissuta ai margini, questi reincarna l’ispanicissima figura del pícaro, avventuriero ma idealista, macho ma gentiluomo, vagabondo ma coltissimo. Il secondo elemento, tipico del dopoguerra (ma attenzione: il dopoguerra in Spagna è dopo il 1939) è l’incombenza cupa, opprimente e disperata della dittatura, tanto più pervasiva quanto in apparenza pantofolaia, tanto più violenta quanto ostentatamente a difesa dei valori religiosi. Non mancano, in questo caso, precisi riferimenti alle acquiescenze, per non dire complicità, della Chiesa durante il franchismo. Il tutto a ricordarci che non sempre gli spettri vengono a noi dal mondo del sovrannaturale.
Non contento, Zafón non si fa scrupolo di alludere a reminescenze borgesiane (il Cimitero dei Libri Dimenticati, dove ha inizio l’azione, ricorda la Biblioteca di Babele) e del romanzo di formazione, altra grande tradizione europea. Così, per tutta la prima parte il punto di vista è del protagonista Daniel bambino, con quanto di fiabesco comporta questo tipo di narrazione. Mentre un altro tema ricorrente, l’amore per i libri, ha una matrice chiaramente autobiografica.
A volte l’artificio rischia di essere palese, di diventare, paradossalmente, troppo romanzesco. Ma nel complesso il libro tiene, e bene, mostrando abilità nel tirare le fila dopo aver messo tanta carne al fuoco.
Stampato in poche migliaia di copie e giunto a venderne, grazie al tam-tam dei lettori, oltre un milione in Europa, L’ombra del vento è il primo romanzo di Zafón, il quale non è comunque di primo pelo, avendo già al suo attivo altri due best-seller, nel campo della letteratura per ragazzi, nonché un’esperienza di sceneggiatore a Hollywood.