emidioclementi.jpgRecensione di Tommaso De Lorenzis

Trovare un racconto di vita, potente perturbante di rottura, è stata, negli ultimi anni, un’impresa ardua. Vagando tra gli scaffali delle librerie, continuando a fissare, con autistica cocciutaggine, il grande schermo, la sensazione pareva diventare certezza: dopo i fasti tondelliani degli Ottanta, le Storie scontavano un italico ergastolo negli ombelichi di scrittori e registi sottomessi alla gamma completa degli stereotipi generazionali.
A porre fine alla ricerca ci ha pensato Emidio Clementi, già cantante, paroliere e bassista dei Massimo Volume. Aveva cominciato tre anni fa, con un romanzo di vertigine all’altezza del selciato di una strada “di schiavi e di puttane”, affresco psichedelico di un milieu corsaro conficcato nel centro di Bologna. La Notte del Pratello (Fazi Editore, 2001) è stato un’inequivocabile testimonianza di come anche gli eventi più intimi, minuti, quotidiani, possano assurgere al livello dell’epica, senza dover sprofondare per necessità nelle crisi di trentenni depressi o nelle ipocrite scoperte di adolescenti fin troppo scafati.

Con L’ultimo dio Clementi fa ritorno al passato remoto: agli anni di un’infanzia consumata tra Ascoli e San Benedetto, alla deriva attraverso l’Europa, alla salvifica scoperta della scrittura, della musica, delle parole.
In principio c’è il consumarsi della tragedia familiare, l’improvvisa rivelazione della povertà, la perdita dello status. Soprattutto, il definitivo incrinarsi di qualcosa. Dentro.
Un incipit classico, quasi un pedaggio, di cui rende conto una delle citazioni iniziali: “Per disperato che possa sembrare, non abbiamo altra scelta: dobbiamo ritornare all’inizio” (W. C. Williams).
Ed ecco, allora, la rottura dovuta, l’indispensabile, doloroso, spiraglio da cui sprizza il fiume in piena della memoria. Eppure, nel momento in cui la lingua si leva come un machete, di classico, dovuto e indispensabile non rimane più niente: “tutto quello che i parenti hanno fatto è stato mettere un bel pezzo di esplosivo al plastico in culo alla famiglia, accendere la miccia, allontanarsi di qualche metro e godersi lo spettacolo”.
Dopo l’ultima detonazione, c’è la fuga, il peregrinare per il continente: da Bilefeld a Falun, da Oslo a Göteborg, da Londra a Milano. E ci sono gli incontri, alla dogana del sogno, con personaggi avvolti dalla tremolante luce di una distorsione perenne… Elsy, trovata e abbracciata tra centinaia di persone, mentre la voce di Johnny Thunders scandisce: “Non provarci, non provarci, non puoi stringere le tue braccia attorno a un ricordo”; Pino De Fulgentis, che dice di trafficare in Rolex e carati, di avere le donne che vuole e un giorno scompare; Giulia, e una vita irregolare fatta di levatacce prima dell’alba e di intrusioni discrete. Uomini e donne in carne e ossa oppure fantasmi di notti insonni, sui quali la forza dell’immaginazione prende una consistenza particolare, trasformandoli nei sapienti adepti di una setta del Travestimento. Ed è a questo punto che il problema della Verità si rivela come la più oziosa e superflua delle questioni: “Che senso ha che io dica la verità se le mie storie sembrano vere?”. In quel “sembrare” risuona una dichiarazione di poetica, anticipata dall’esergo di Katherine Mansfield: “La nuda verità, come solo un bugiardo può dirla”.
Nel medesimo specchio in cui finzione e realtà si sorprendono simili, l’Europa de L’ultimo dio si specchia nell’Atlantico, scorge l’America, ritrova, tutto, il tema del viaggio on the road. Ma al posto del selvaggio Dean Moriarty c’è l’indefinibile Emanuel Carnevali, poeta maudit di un secolo addietro, autore de Il primo dio, maschera dai cento volti, uomo dai tanti mestieri che rompono la schiena, proscritto girovago in cerca delle parole. Semplicemente: il gemello anteriore di Emidio Clementi. O così ci piace pensare.
In un turbinante gioco di corrispondenze, le due biografie vanno intrecciandosi, fondando un dialogo straordinario per la concretezza di situazioni impossibili, mentre la narrazione si duplica, si scompone e si scioglie in un discorso che rimbomba nelle stanze del tempo. L’esito – di cui non è lecito dire – ha dell’inimmaginabile, laddove il culto dell’incontro, della casualità e dell’imponderabile concatenarsi degli eventi celebra la più nobile delle sue liturgie.
Ad un tratto, un trip scende e ne inizia un altro. Quando i chilometri sono ormai troppi, il cammino finisce e comincia un nuovo sentiero, fatto di note paraboliche sulle linee di un pentagramma. La città è Bologna. Il logo recita: Massimo Volume. Sono gli anni della fondazione del gruppo insieme a Egle e Vittoria, gli anni dei concerti in giro per l’Italia. Di nuovo sulla strada. Un’altra America, però, quella delle band, del pubblico e delle canzoni. Ma per Carnevali il tempo sta finendo: prima il fallimento nell’indifferenza e poi il letargo eterno. Con la morte del cantore bohémien, arriva puntuale, nella schizofrenia parallela dell’intreccio, il “non ce la faccio più”, la fine di una scommessa durata dieci anni. Le parole trovate senza timori, come fosse un tiro con l’arco per centrare il senso esatto dell’espressione, scivolano nel silenzio. Il mondo è muto.
In realtà, per riprendere a parlare basta un istante, occorre solo evitare la retorica delle pantomime. E raccontare un’altra storia è come cambiarsi d’abito con la stessa noncurante disinvoltura del vecchio Rigoni, cinica Musa felsinea, o come giocare con i soldatini, fingendo che nel piombo delle miniature scorra sangue e palpiti un cuore: “credo che con le storie sia la stessa cosa, Mimì. Tutto deve sembrare vero”.

Emidio Clementi, L’ultimo dio, Roma, Fazi Editore, 2004, p. 169