di Valerio Evangelisti

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Alla vigilia dell’udienza che discuterà dell’estradizione, richiesta dal governo italiano, di Cesare Battisti, ripubblichiamo in un’unica soluzione – e non più in quattro puntate – le nostre ormai notissime FAQ. Confidiamo che il lettore non prevenuto, leggendole tutte di seguito, capirà l’enorme truffa in cui il nostro governo, e il 95% dei media giornalistici e televisivi italiani (ma non solo italiani), hanno cercato di intrappolarlo.
Una versione francese delle FAQ è reperibile sui siti Bellaciao e Vialibre5.

Perché Cesare Battisti fu arrestato, nel 1979?

Fu arrestato nell’ambito delle retate che colpirono il Collettivo Autonomo della Barona (un quartiere di Milano), dopo che, il 16 febbraio 1979, venne ucciso il gioielliere Luigi Pietro Torregiani.

Perché il gioielliere Torregiani fu assassinato?

Perché, il 22 gennaio 1979, assieme a un conoscente anche lui armato, aveva ucciso Orazio Daidone: uno dei due rapinatori che avevano preso d’assalto il ristorante Il Transatlantico in cui cenava in folta compagnia. Un cliente, Vincenzo Consoli, morì nella sparatoria, un altro rimase ferito. Chi uccise Torregiani intendeva colpire quanti, in quel periodo, tendevano a “farsi giustizia da soli”.


Cesare Battisti partecipò all’assalto al Transatlantico?

No. Nessuno ha mai asserito questo. Si trattò di un episodio di delinquenza comune.

Cesare Battisti partecipò all’uccisione di Torregiani?

No. Anche questa circostanza — affermata in un primo tempo — venne poi totalmente esclusa. Altrimenti sarebbe stato impossibile coinvolgerlo, come poi avvenne, nell’uccisione del macellaio Lino Sabbadin, avvenuta in provincia di Udine lo stesso 16 febbraio 1979, quasi alla stessa ora.

Eppure è stato fatto capire che Cesare Battisti abbia ferito uno dei figli adottivi di Torregiani, Alberto, rimasto poi paraplegico.

E’ assodato che Alberto Torregiani fu ferito per errore dal padre, nello scontro a fuoco con gli attentatori.

Perché dunque Cesare Battisti viene collegato all’omicidio Torregiani?

Perché, per sua stessa ammissione, faceva parte del gruppo che rivendicò l’attentato, i Proletari Armati per il Comunismo. Lo stesso gruppo che rivendicò l’attentato Sabbadin.

Cos’erano i Proletari Armati per il Comunismo (PAC)?

Uno dei molti gruppi armati scaturiti, verso la fine degli anni ’70, dal movimento detto dell’Autonomia Operaia, e dediti a quella che chiamavano “illegalità diffusa”: dagli “espropri” (banche, supermercati) alle rappresaglie contro le aziende che organizzavano lavoro nero, fino, più raramente, a ferimenti e omicidi.

I PAC somigliavano alle Brigate Rosse?

No. Come tutti i gruppi autonomi non puntavano né alla costruzione di un nuovo partito comunista, né a un rovesciamento immediato del potere. Cercavano piuttosto di assumere il controllo del territorio, spostandovi i rapporti di forza a favore delle classi subalterne, e in particolare delle loro componenti giovanili. Questo progetto, comunque lo si giudichi (certamente non ha funzionato), non collimava con quello delle BR.

Il magistrato Spataro, tra i PM del processo Torregiani, ha detto di recente che gli aderenti ai PAC non superavano la trentina.

Ha cattiva memoria. Gli indagati per appartenenza ai PAC furono almeno 60. La componente maggiore era rappresentata da giovani operai. Seguivano disoccupati e insegnanti. Gli studenti erano tre soltanto.

30 o 60 fa poca differenza.

Ne fa, invece. Cambiano le probabilità di partecipazione alle scelte generali dell’organizzazione, e anche alle azioni da questa progettate. Teniamo presente che, se le rapine attribuite ai PAC sono decine, gli omicidi sono quattro. La partecipazione diretta a uno di questi diviene molto meno probabile, se si raddoppia il numero degli effettivi.

Cesare Battisti era il capo dei PAC, o uno dei capi?

No. Questa è una pura invenzione giornalistica, creata negli ultimi mesi. Né gli atti del processo, né altri elementi inducono a considerarlo uno dei capi. Del resto, non aveva un passato tale da permettergli di ricoprire un ruolo del genere. Era un militante tra i tanti.

In sede processuale Battisti fu però giudicato tra gli “organizzatori” dell’omicidio Torregiani.

In via deduttiva. Avrebbe partecipato a riunioni in cui si era discusso del possibile attentato, senza esprimere parere contrario. Solo con l’entrata in scena del pentito Mutti — dopo che Battisti, condannato a dodici anni e mezzo, era evaso dal carcere e fuggito in Messico — l’accusa si precisò, ma ancora una volta per via deduttiva. Poiché Battisti era accusato da Mutti di avere svolto ruoli di copertura nell’omicidio Sabbadin, e poiché gli attentati Torregiani e Sabbadin erano chiaramente ispirati a una stessa strategia (colpire i negozianti che uccidevano i rapinatori), ecco che Battisti doveva essere per forza di cose tra gli “organizzatori” dell’agguato a Torregiani, pur senza avervi partecipato di persona.

Eppure, di tutti i crimini attribuiti a Battisti, quello cui si dà più rilievo è proprio il caso Torregiani.

Forse si prestava più degli altri a un uso “spettacolare” (si veda l’impiego ricorrente di Alberto Torregiani, non sempre pronto, per motivi anche comprensibili, a rivelare chi lo ferì). O forse — viste certe proposte recenti del ministro Castelli, in tema di autodifesa da parte dei negozianti — era l’episodio meglio capace di fare vibrare certe corde nell’elettorato di riferimento.

Comunque, chi difende Battisti ha spesso giocato la carta della “simultaneità” tra il delitto Torregiani e quello Sabbadin, mentre Battisti è stato accusato di avere “organizzato” il primo ed “eseguito” il secondo.

Ciò si deve all’ambiguità stessa della prima richiesta di estradizione di Battisti (1991), alle informazioni contraddittorie fornite dai giornali (numero e qualità dei delitti variavano da testata a testata), al silenzio di chi sapeva. Non dimentichiamo che Armando Spataro ha cominciato a fornire dettagli — per meglio dire, un certo numero di dettagli — solo quando ha visto che la campagna a favore di Cesare Battisti rischiava di rimettere in discussione il modo in cui lui e gli altri magistrati coinvolti (Corrado Carnevali, Pietro Forno, ecc.) avevano condotto istruttoria e processo. Non dimentichiamo nemmeno che il governo italiano ha ritenuto di sottoporre ai magistrati francesi, alla vigilia della seduta che doveva decidere della nuova domanda di estradizione di Cesare Battisti, 800 pagine di documenti. E’ facile arguire che giudicava lacunosa la documentazione prodotta fino a quel momento. A maggior ragione, essa presentava lacune per chi intendeva impedire che Battisti fosse estradato.

In tutti i casi, quello a Cesare Battisti e agli altri accusati del delitto Torregiani fu un processo regolare.

No, non lo fu, e dimostrarlo è piuttosto semplice.

Perché il processo Torregiani, poi allargato all’intera vicenda dei PAC, non fu regolare?

Precisiamo: non fu regolare se non nel quadro delle distorsioni della legalità introdotte dalla cosiddetta “emergenza”. Sotto il profilo del diritto generale, il processo fu viziato da almeno tre elementi: il ricorso alla tortura per estorcere confessioni in fase istruttoria, l’uso di testimoni minorenni o con turbe mentali, la moltiplicazione dei capi d’accusa in base alle dichiarazioni di un pentito di incerta attendibilità. Più altri elementi minori.

I magistrati torturarono gli arrestati?

No. Fu la polizia a torturarli. Vi furono ben tredici denunce: otto provenienti da imputati, cinque da loro parenti. Non un fatto inedito, ma certo fino a quel momento insolito, in un’istruttoria di quel tipo. I magistrati si limitarono a ricevere le denunce, per poi archiviarle.

Forse le archiviarono perché non si era trattato di vere torture, ma di semplici pressioni un po’ forti sugli imputati.

Uno dei casi denunciati più di frequente fu quello dell’obbligo di ingurgitare acqua versata nella gola dell’interrogato, a tutta pressione, tramite un tubo, mentre un agente lo colpiva a ginocchiate nello stomaco. Tutti denunciarono poi di essere stati fatti spogliare, avvolti in coperte perché non rimanessero segni e poi percossi a pugni o con bastoni. Talora legati a un tavolo o a una panca.

Se i magistrati non diedero seguito alle denunce, forse fu perché non c’erano prove che tutto ciò fosse realmente accaduto.

Infatti il sostituto procuratore Alfonso Marra, incaricato di riferire al giudice istruttore Maurizio Grigo, dopo avere derubricato i reati commessi dagli agenti della Digos da “lesioni” a “percosse” per assenza di segni permanenti sul corpo (in Italia non esisteva il reato di tortura, e non esiste nemmeno ora, grazie al ministro Castelli e al suo partito), concludeva che la stessa imputazione di percosse non poteva avere seguito, visto che gli agenti, unici testimoni, non confermavano. Dal canto proprio il PM Corrado Carnevali, titolare del processo Torregiani, insinuò che le denunce di torture fossero un sistema adottato dagli accusati per delegittimare l’intera inchiesta.

Nulla ci dice che il PM Carnevali avesse torto.

Almeno un episodio non collima con la sua tesi. Il 25 febbraio 1979 l’imputato Sisinio Bitti denunciò al sostituto procuratore Armando Spataro le torture subite e ritrattò le confessioni rese durante l’interrogatorio. Tra l’altro, raccontò che un poliziotto, nel percuoterlo con un bastone, lo aveva incitato a denunciare un certo Angelo; al che lui aveva denunciato l’unico Angelo che conosceva, tale Angelo Franco. La ritrattazione di Bitti non fu creduta, e Angelo Franco, un operaio, fu arrestato quale partecipante all’attentato Torregiani. Solo che pochi giorni dopo lo si dovette rilasciare: non poteva in alcun modo avere preso parte all’agguato. Dunque la ritrattazione di Bitti era sincera, e dunque, con ogni probabilità, anche le violenze con cui la falsa confessione gli era stata estorta.

Anche ammesso il ricorso alle sevizie in fase istruttoria, ciò non assolve Cesare Battisti.

No, però dà l’idea del tipo di processo in cui fu implicato. Definirlo “regolare” è a dir poco discutibile. Tra i testi a carico di alcuni imputati figurarono anche una ragazzina di quindici anni, Rita Vitrani, indotta a deporre contro lo zio; finché le contraddizioni e le ingenuità in cui incorse non fecero capire che era psicolabile (“ai limiti dell’imbecillità”, dichiararono i periti). Figurò anche un altro teste, Walter Andreatta, che presto cadde in stato confusionale e fu definito “squilibrato” e vittima di crisi depressive gravi dagli stessi periti del tribunale.

Pur ammettendo il quadro precario dell’inchiesta, c’è da considerare che Cesare Battisti rinunciò a difendersi. Quasi un’ammissione di colpevolezza, anche se, prima di tacere, si proclamò innocente.

Può sembrare così oggi, ma non allora. Anzi, è vero il contrario. A quel tempo, i militanti dei gruppi armati catturati si proclamavano prigionieri politici, e rinunciavano alla difesa perché non riconoscevano la “giustizia borghese”. Battisti vi rinunciò perché disse di dubitare dell’equità del processo.

Tralasciate violenze e testimonianze poco attendibili in fase istruttoria, il processo fu però condotto a conclusione con equità.

Non proprio. Accusati minori furono colpiti con pene spropositate. Il già citato Bitti, riconosciuto innocente di ogni delitto, fu ugualmente condannato a tre anni e mezzo di prigione per essere stato udito approvare, in luogo pubblico, l’attentato a Torregiani. Era scattato il cosiddetto “concorso morale” in omicidio, direttamente ispirato alle procedure dell’Inquisizione. Il già citato Angelo Franco, pochi giorni dopo il rilascio, fu arrestato nuovamente, questa volta per associazione sovversiva, e condannato a cinque anni. Ciò in assenza di altri reati, solo perché era un frequentatore del collettivo autonomo.

Secondo Luciano Violante, una certa “durezza” era indispensabile a spegnere il terrorismo. E Armando Spataro sostiene che, a questo fine, l’aggravante delle “finalità terroristiche”, che raddoppiava le pene, si rivelò un’arma decisiva.

Spezzò anche le vite di molti giovani, arrestati con imputazioni destinate ad aggravarsi in maniera esponenziale nel corso della detenzione, pur in assenza di fatti di sangue.

Ciò non vale per Cesare Battisti, condannato all’ergastolo per avere partecipato a due omicidi ed eseguito altri due.

Al termine del processo di primo grado Battisti, arrestato in origine per imputazioni minori, si trovò condannato a dodici anni e mezzo di prigione. Le condanne all’ergastolo giunsero cinque anni dopo la sua evasione dal carcere. Ma qui è tempo di parlare dei “pentiti” e, soprattutto, dell’unico pentito che lo accusò. Per poi entrare nel merito degli altri tre delitti.

Vediamo di capire che cos’è un “pentito”.

Se ci riferiamo ai gruppi di estrema sinistra, vengono così chiamati quei detenuti per reati connessi ad associazioni armate che, in cambio di consistenti sconti di pena, rinnegano la loro esperienza e accettano di denunciare i compagni, contribuendo al loro arresto e allo smantellamento dell’organizzazione. Di fatto una figura del genere esisteva già alla fine degli anni ’70, ma entra stabilmente nell’ordinamento giuridico prima con la “legge Cossiga” 6.2.1980 n. 15, poi con la “legge sui pentiti” 29.5.1982 n. 304. Manifesta i pericoli insiti nel suo meccanismo sia prima che dopo questa data.

Quali sarebbero i “pericoli”?

La logica della norma faceva sì che il “pentito” potesse contare su riduzioni di pena tanto più elevate quante più persone denunciava; per cui, esaurita la riserva delle informazioni in suo possesso, era spinto ad attingere alle presunzioni e alle voci raccolte qui e là. Per di più, la retroattività della legge incitava a delazioni indiscriminate anche a distanza di molti anni dai fatti, quando ormai erano impossibili riscontri materiali.

Esistono esempi di questi effetti perversi?

Il caso più clamoroso fu quello di Carlo Fioroni, che, minacciato di ergastolo per il sequestro a fini di riscatto di un amico, deceduto nel corso del rapimento, accusò di complicità Toni Negri, Oreste Scalzone e altre personalità dell’organizzazione Potere Operaio, sgravandosi della condanna. Ma anche altri pentiti, quali Marco Barbone (oggi collaboratore di quotidiani di destra), Antonio Savasta, Pietro Mutti ecc. seguitarono per anni a spremere la memoria e a distillare nomi. Ogni denuncia era seguita da arresti, tanto che la detenzione diventò arma di pressione per ottenere ulteriori pentimenti. Purtroppo ciò destò scandalo solo in un secondo tempo, quando la logica del pentitismo, applicata al campo della criminalità comune, provocò il caso Tortora e altri meno noti.

Pietro Mutti fu l’accusatore principale di Cesare Battisti. Chi era?

Figurò tra gli imputati del processo Torregiani, sebbene latitante, e l’accusa chiese per lui otto anni di prigione. Fu catturato nel 1982 (dopo che Battisti era già evaso), a seguito della fuga dal carcere di Rovigo, il 4 gennaio di quell’anno, di alcuni militanti di Prima Linea. Mutti fu accusato di essere tra gli organizzatori dell’evasione.

Di quali delitti Mutti, una volta pentito, accusò Battisti?

Tralasciando reati minori, per tre omicidi. Battisti (con una complice) avrebbe direttamente assassinato, il 6 giugno 1978, il maresciallo degli agenti di custodia del carcere di Udine Antonio Santoro, che i PAC accusavano di maltrattamenti ai detenuti. Avrebbe direttamente assassinato a Milano, il 19 aprile 1979, l’agente della Digos Andrea Campagna, che aveva partecipato ai primi arresti legati al caso Torregiani. Tra i due delitti avrebbe partecipato, senza sparare direttamente ma comunque con ruoli di copertura, al già citato omicidio del macellaio Lino Sabbadin di Santa Maria di Sala.

L’omicidio Sabbadin è quello di cui più si è parlato. In un’intervista al gruppo di estrema destra francese Bloc Identitaire, il figlio di Lino Sabbadin, Adriano, ha dichiarato che gli assassini del padre sarebbero stati i complici del rapinatore da questi ucciso.

O la sua risposta è stata male interpretata, o ha dichiarato cosa che non risulta da alcun atto. Meglio tralasciare le dichiarazioni dei congiunti delle vittime, la cui funzione, nel corso degli ultimi due mesi, è stata essenzialmente spettacolare.

Cesare Battisti è colpevole o innocente dei tre omicidi di cui lo accusò Mutti?

Lui si dice innocente, anche se si fa carico della scelta sbagliata in direzione della violenza che, in quegli anni, coinvolse lui e tanti altri giovani. Qui però non è questione di stabilire l’innocenza o meno di Battisti. E’ invece questione di vedere se la sua colpevolezza fu mai veramente provata, nonché di verificare, a tal fine, se l’iter processuale che condusse alla sua condanna possa essere giudicato corretto. In caso contrario, non si spiegherebbe l’accanimento con cui il governo italiano, con il sostegno anche di nomi illustri dell’opposizione, cerca di farsi riconsegnare Battisti dalla Francia.

A parte le denunce di Mutti, emersero altre prove a carico di Battisti, per i delitti Santoro, Sabbadin (sia pure in ruolo di copertura) e Campagna?

No. Quando oggi i magistrati parlano di “prove”, si riferiscono all’incrocio da loro effettuato tra le dichiarazioni di un pentito (nel nostro caso Mutti) e gli indizi indirettamente forniti dai “dissociati”.

Cosa si intende per “dissociato”?

Chi prenda le distanze dall’organizzazione armata cui apparteneva e confessi reati e circostanze che lo riguardino, senza però accusare altri. Ciò comporta uno sconto di pena, anche se ovviamente inferiore a quello di un pentito.

In che senso un dissociato può fornire indirettamente indizi?

Per esempio se afferma di non avere partecipato a una riunione perché contrario a una certa azione che lì veniva progettata, pur senza dire chi c’era. Se nel frattempo un pentito ha detto che X partecipò a quella riunione, ecco che X figura automaticamente tra gli organizzatori.

Cosa c’è che non va, in questa logica?

C’è che sia la denuncia diretta del pentito, che l’indizio fornito dal dissociato, provengono da soggetti allettati dalla promessa di un alleggerimento della propria detenzione. La loro lettura congiunta, se mancano i riscontri, è effettuata dal magistrato che la sceglie tra varie possibili. Inoltre è comunque il pentito, cioè colui che ha incentivi maggiori, a essere determinante. Tutto ciò in altri paesi (non totalitari) sarebbe ammesso in fase istruttoria, e in fase dibattimentale per il confronto con l’accusato. Non sarebbe mai accettato con valore probatorio in fase di giudizio. In Italia sì.

Nel caso di Battisti mancano altri riscontri?

Vi sono solo dei riconoscimenti di testi che lo stesso magistrato Armando Spataro ha definito poco significativi.

Ma il pentito Pietro Mutti non può essere ritenuto credibile? Vi sono motivi per asserire che sia mai caduto nel meccanismo “Quanto più confesso, tanto meno resto in prigione”?

Sì. Le denunce di Pietro Mutti non riguardarono solo Battisti e i PAC, ma furono a 360 gradi, e si indirizzarono nelle direzioni più svariate. La più clamorosa riguardò l’OLP di Yasser Arafat, che avrebbe rifornito di armi le Brigate Rosse. In particolare, elencò Mutti, “tre fucili AK47, 20 granate a mano, due mitragliatrici FAL, tre revolver, una carabina per cecchini, 30 chilogrammi di esplosivo e 10.000 detonatori” (mica tanto, a ben vedere, a parte il numero incongruo dei detonatori; mancava solo che Arafat consegnasse una pistola ad aria compressa). Il procuratore Carlo Mastelloni poté, sulla base di questa preziosa rivelazione, aggiungere un fascicolo alla sua “inchiesta veneta” sui rapporti tra terroristi italiani e palestinesi, e chiamò persino in giudizio Yasser Arafat. Poi dovette archiviare il tutto, perché Arafat non venne e il resto si sgonfiò.

Ciò ha a che vedere con le armi, provenienti dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, mercanteggiate nel 1979 da tale Maurizio Follini, che Armando Spataro dice essere stato militante dei PAC?

Questo Follini era mercante d’armi e, secondo alcuni, spia sovietica. Fu tirato in ballo da Mutti, ma in relazione ad altri gruppi. Meglio stendere un velo pietoso. Dopo avere notato, però, quanto le rivelazioni di Mutti tendessero al delirio.

Mutti non sarà attendibile per altre inchieste, ma nulla ci garantisce che, almeno sui PAC, non dicesse la verità.

Nulla ce lo dice, infatti, se non un dettaglio. Nel 1993, la Cassazione ha mandato assolta una coimputata di Battisti, anche lei denunciata da Mutti. Parlo del 1993. Per dieci anni la magistratura aveva creduto, a suo riguardo, alle accuse del pentito. Ciò dovrebbe commentarsi da solo.

Anche ammesso che il processo che ha portato alla condanna di Cesare Battisti sia stato viziato su irregolarità e imperniato sulle deposizioni di un pentito poco credibile, è certo che Battisti ha potuto difendersi nei successivi gradi di giudizio.

Non è così, almeno per quanto riguarda il processo d’appello del 1986, che modificò la sentenza di primo grado e lo condannò all’ergastolo. Battisti era allora in Messico e ignaro di ciò che avveniva a suo danno in Italia.

Il magistrato Armando Spataro ha detto che, per quanto sfuggito di sua iniziativa alla giustizia italiana, Battisti poté difendersi in tutti i gradi di processo attraverso il legale da lui nominato.

Ciò è vero solo per il periodo in cui Battisti si trovava ormai in Francia, e dunque vale essenzialmente per il processo di Cassazione che ebbe luogo nel 1991. Non vale per il processo del 1986, che sfociò nella sentenza della Corte d’Appello di Milano del 24 giugno di quell’anno. A quel tempo Battisti non aveva contatti né col legale, pagato dai familiari, né con i familiari stessi.

Questo lo dice lui.

Be’, lo dice anche l’avvocato Giuseppe Pelazza di Milano, che si assunse la difesa, e lo dicono i familiari. Ma certamente si tratta di testimonianze di parte. Resta il fatto che Battisti non ebbe alcun confronto con il pentito Mutti che lo accusava. Si era sottratto al carcere, d’accordo; però il dato oggettivo è che non poté intervenire in un procedimento che commutava la sua condanna da dodici anni di prigione in due ergastoli, e gli attribuiva l’esecuzione di due omicidi, la partecipazione a svariato titolo ad altri due, alcuni ferimenti e una sessantina di rapine (cioè l’intera attività dei PAC). Questo era ed è ammissibile per la legge italiana, ma non per la legislazione di altri paesi che, pur prevedendo la condanna in contumacia, impone la ripetizione del processo qualora il contumace sia catturato.

Riferisce Armando Spataro che la Corte dei Diritti umani di Strasburgo ha giudicato garantito l’imputato nella prassi italiana del processo in contumacia.

Vero. Ma il magistrato Spataro si riferisce a una sola sentenza, e dimentica tutte quelle in cui la stessa Corte ha raccomandato all’Italia di adeguarsi alle norme vigenti nel resto d’Europa in tema di contumacia. D’altra parte è giurisprudenza costante della Corte dei Diritti umani ritenere legittimo il processo in contumacia solo se l’imputato è stato portato a conoscenza del procedimento a suo carico. Ciò nel caso di Cesare Battisti non è dimostrabile. E non basta nemmeno che il suo avvocato sia stato avvisato. Secondo l’art. 42 del codice di deontologia della Corte di Strasburgo, l’avvocato rappresenta effettivamente il cliente solo se 1) il primo si conforma alle decisioni del secondo circa le finalità del mandato a rappresentarlo; 2) l’avvocato si consulta col cliente circa i modi per perseguire tali finalità. Il punto 2), per quanto riguarda il processo d’appello del 1986, non è sicuramente stato applicato, e anche il punto 1) è dubbio. Nulla dimostra che Battisti abbia avuto notizia del processo che lo riguardava, e gli elementi esistenti tendono a provare il contrario.

Questi sono cavilli che non dimostrano nulla, e che dimenticano la sostanza della questione seppellendola sotto forme giuridiche.

Ma Battisti non è tenuto a provare nulla! L’onere della prova spetta a chi lo accusa. Quanto alla sostanza della questione, vediamo di ricapitolarla: 1) un’istruttoria che nasce da confessioni estorte con metodi violenti; 2) una serie di testimonianze di elementi incapaci per età o facoltà mentali; 3) una sentenza esageratamente severa; 4) un aggravio della stessa sentenza dovuta all’apparizione tardiva di un “pentito” che snocciola accuse via via più gravi e generalizzate. Il tutto nel quadro di una normativa inasprita e finalizzata al rapido soffocamento di un sommovimento sociale di largo respiro, più ampio delle singole posizioni.

Ma tutto ciò non può interessare la giustizia francese, chiamata a decidere sull’estradabilità di Cesare Battisti.

Infatti non la interessa. I temi in discussione in Francia sono altri: quello generale del rispetto della cosiddetta “dottrina Mitterrand”, che concedeva diritto d’asilo ai rifugiati italiani ricercati per terrorismo purché rinunciassero a ogni velleità eversiva; quello, peculiare nel caso Battisti, della liceità per una Corte francese di riformare una decisione di diniego dell’estradizione già pronunciata; quello di ordine morale sulla consegna alle carceri italiane di persone, tra cui Battisti, che per tredici anni si sono fidate delle promesse ricevute e hanno completamente cambiato vita.

Ma la “dottrina Mitterrand” non escludeva dall’asilo politico gli autori di fatti di sangue?

Così hanno sostenuto il solito Spataro, altri magistrati e vari giornalisti, tra cui la francese Marcelle Padovani. E’ un errore grossolano. Tutti costoro si basano sull’originale colloquio tra Mitterrand e Craxi che fondò la “dottrina” (in realtà non un dispetto della Francia all’Italia, bensì una mano tesa per aiutarla a uscire dagli “anni di piombo”), ma dimenticano come tale “dottrina” si precisò successivamente. Anzitutto con un intervento dello stesso Mitterrand al 65° congresso della Lega dei Diritti dell’Uomo, nel 1985, in cui ribadì la concessione dell’ospitalità ai circa 300 rifugiati politici italiani in Francia, ricercati per reati anteriori al 1981, senza distinguere tra “delitti di sangue” e altri. Poi — anzi, in parallelo — con l’istituzione di un gruppo di lavoro composto da consiglieri dell’Eliseo e del governo, alti ufficiali di polizia, magistrati e avvocati, incaricati di dare corpo alle indicazioni del presidente della Repubblica francese. In un’intervista apparsa su Libération il 6 aprile scorso, uno dei componenti la commissione, l’avvocato Jean-Pierre Mignard, ha testimoniato che non si operò alcuna distinzione circa il tipo di crimine, anche perché i fascicoli giunti dall’Italia erano inquinati da procedure lacunose, contraddizioni e prevenzioni ideologiche da parte dei magistrati. Ciò fu anche alla base del rigetto della prima domanda di estradizione di Battisti, nel 1991.

Armando Spataro afferma invece che il rigetto fu di natura tecnica. I magistrati francesi respinsero la richiesta italiana di estradizione di Battisti sulla base degli atti istruttori (ciò in relazione all’istruttoria “del processo Torregiani” iniziata dal sostituto procuratore Forno nel 1979), mentre si riservarono una pronuncia definitiva nel momento in cui le sentenze fossero divenute definitive.

Il magistrato Spataro ha ammesso (dialogando per iscritto con suoi colleghi del Movimento per la Giustizia) di avere cercato una soluzione al fatto che la magistratura francese fosse chiamata a pronunciarsi una seconda volta su uno stessa richiesta di estradizione; e, dopo avere vagliato varie soluzioni (sembra di capire), di essersi attestato su questa. Se così è, si tratta di un comportamento piuttosto insolito, per chi si voglia spassionato ricercatore della verità. A parte questo, la tesi di Spataro non si evince né dal testo della sentenza emessa nel 1991 dai magistrati francesi, né dai ricordi di chi partecipò alla seduta. Non dimentichiamo, poi, che alla fine del 2003 il Procuratore Generale della Corte d’Appello di Parigi notificò al guardasigilli francese che non si era ritenuto di dare corso all’ennesima domanda di estradizione di Battisti pervenuta dal governo italiano. Evidentemente non riteneva che, rispetto al 1991, qualcosa fosse mutato. Il caso Battisti si è riaperto solo perché l’esecutivo francese, su pressione italiana, ha proceduto all’arresto dello scrittore.

Il ministro italiano Castelli, secondo Armando Spataro (ma anche secondo l’ex magistrato Luciano Violante), non ha fatto che il suo dovere, premendo per l’arresto di Battisti e di altri rifugiati in Francia.

L’impressione è che la volontà di giustizia del ministro Castelli sia, per così dire, selettiva. L’accanimento che mostra nei confronti di militanti di estrema sinistra a riposo da decenni non è pari a quello esercitato nei confronti degli ex militanti di estrema destra in latitanza. Del resto ciò non può stupire, visto lo slittamento ideologico del partito cui Castelli appartiene, la Lega Nord. Un partito che oggi affida la propria scuola quadri ad Alain De Benoist, che consacra pagine del proprio organo a Davide Beretta (ex appartenente alle Squadre d’Azione Mussolini, responsabili di circa 80 attentati), che cerca di sedurre gli aderenti ad Alleanza Nazionale in nome di una “continuità” che Fini avrebbe tradito, che manifesta solidarietà al partito razzista belga Vlaam Blok, che riempie di riferimenti a Julius Evola le colonne culturali dei propri organi giovanili. Per non parlare delle recenti prese di posizione sul diritto all’autodifesa e sulla tortura. Luciano Violante non sembra scorgere una continuità tra simili prese di posizione e la caccia accanita all’ “estremista rosso” che da vent’anni vivacchia in altre parti del mondo. Peccato per lui. Non sa distinguere la giustizia dalla vendetta.

Ciò non toglie che gran parte della sinistra sia compatta nel sostegno a un magistrato come Armando Spataro.

Questo è un problema della sinistra, appunto. C’è da chiedersi se sia a conoscenza di ciò che non il solo Spataro, ma altri magistrati che come lui furono tra i protagonisti della repressione dei movimenti degli anni ’70 e dei primi anni ’80, pensano dei casi di Adriano Sofri o di Silvia Baraldini. Immagino — o forse spero — che non pochi esponenti della “sinistra” (chiamiamola così) ne resterebbero un po’ scossi.

Inutile menare il can per l’aia. Cesare Battisti non ha mai manifestato pentimento.

Il diritto moderno — l’ho già detto – reprime i comportamenti illeciti e ignora le coscienze individuali. Reclamare un pentimento qualsiasi era tipico di Torquemada o di Vishinskij.
Ha persino esultato quando è stato liberato.
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Non è un comportamento così bizzarro. Nella foto che correda questo articolo (a fianco), Battisti esulta. Stava forse inneggiando alla giustizia proletaria e ai tribunali del popolo? No, stava semplicemente uscendo da un’osteria. Figurarsi come può esultare all’uscita da una prigione, e per il rinvio di una trasferta forzata verso il carcere a vita. Ne sa qualcosa Paolo Persichetti, che da quando è stato estradato viene sbattuto da un penitenziario all’altro, e si è visto persino negare gli strumenti per scrivere.

Non si può liquidare così, in una battuta, un problema più complesso.

Esatto. Non si può liquidare così il problema più generale dell’uscita, una buona volta, dal regime dell’emergenza, con le aberrazioni giuridiche che ha introdotto nell’ordinamento italiano. Ma ciò può essere oggetto di altre FAQ, che prescindano dal caso specifico fin qui trattato.