di Wu Ming 1

oscuraimmensita.jpgHo divorato in poco più di due ore l’ultimo romanzo di Massimo Carlotto, L’oscura immensità della morte (E/O, Roma 2004).
Qualche anno fa presentai a Bologna Arrivederci amore ciao, che aveva come protagonista Giorgio Pellegrini, “pentito” della lotta armata il cui percorso di formazione criminale iniziava proprio con la scelta del “pentimento” e terminava nella completa abiezione e disumanità.
In quell’occasione dissi che Arrivederci amore ciao restituiva all’espressione “noir” il suo significato letterale: dopo tanta letteratura beige, marroncina, “fumo di londra” e color cacarella, finalmente un romanzo italiano nerissimo, in cui non vi era redenzione, o meglio: vi era la “riabilitazione” dell’ex-compagno agli occhi della società borghese che aveva “tradito”. Dal mio punto di vista, il contrario della redenzione.

Dissi che l’approccio di Carlotto era molto più interessante e utile della reiterazione di clichés come lo sbirro buono e onesto, tanto diffusi nella narrativa di genere dello Stivale. Di recente siamo arrivati alla pornografia pura e semplice, con certi libri scritti da sbirri, dei quali sospetto vengano pubblicati soltanto perché scritti da sbirri (si veda il caso di Michele Giuttari, tanto per non fare nomi).
Dicevo, è molto più interessante un autore che t’infila la merda dritta nelle narici, che ti costringe a identificarti (perché l’io narrante serve a questo) con un personaggio respingente e accompagnarlo nella sua scalata sociale in un ambiente codino e perbenista, attraversando con lui un Nord-Est corrotto e carente d’ossigeno.
L’oscura immensità della morte si spinge addirittura oltre. Sempre sullo sfondo di un Veneto invigliacchito ed esausto di vivere, Carlotto indaga quella che Giorgio Bocca nel suo libro sul 7 Aprile definiva: “la pietosa, comprensibile faziosità delle vittime e dei parenti”.
Mi piace considerare questo libro un contributo anticipato al dibattito su memoria, colpa e pena scatenato dalla richiesta di estradizione in Italia di Cesare Battisti. A dire il vero non si tratta di un dibattito, visto che i media ospitano solo le certezze, le ignoranze e le “male fedi” del partito giustizialista e dei pasdaran della “vendetta infinita” (“opinionisti” affini al Presotto che compare nel romanzo), occultando qualunque parere critico.
Il rapinatore Raffaello Beggiato sta scontando l’ergastolo per avere perso la testa e ucciso due ostaggi presi durante una fuga, in seguito a una rapina andata male. Gli ostaggi erano un bambino di otto anni e sua madre.
Dopo quindici anni di prigione, Beggiato non è più la stessa persona, pur restando fedele a ciò che rimane del codice d’onore della malavita. Ignorando le offerte di sconti di pena, non ha mai rivelato il nome del suo complice mai catturato. E’ colpevole di un crimine odioso, ripugnante, eppure ha una sua personale integrità.
Quando a Beggiato viene diagnosticato un cancro, il suo avvocato presenta un’istanza di grazia e – in subordine – una richiesta di sospensione della pena per malattia.
Per la grazia è necessaria l’approvazione dei parenti delle vittime, cosa assai discutibile e reminiscente di un ordinamento giuridico tribale. La vittima, la più lontana dai requisiti di distacco e lucidità necessari a somministrare la giustizia, è chiamata a decidere il destino del suo carnefice di un tempo. In questo modo è costretta a rivangare e rimuginare, e la sorte di una persona dipende dal risultato dei rimuginamenti.
Il parere viene chiesto a Silvano Contin, marito e padre delle due vittime, nel frattempo sprofondato in un pozzo senza fondo di rancore e desiderio di vendetta. Della moglie e del figlio, Contin tiene in casa solo le foto dell’autopsia, perché “il dolore mi [aiuta] a orientarmi nell’oscura immensità della morte”.
Parte da qui la catena di eventi che porta la vittima di un tempo a improvvisarsi giustiziere e divenire a sua volta carnefice, e il carnefice di un tempo a divenire prima vittima e poi, con un colpo di scena, redentore che offre all’altro la “seconda possibilità”, quella che a lui è stata negata.
In cosa consiste la “seconda possibilità”, e in che misura cambierà l’ex-vittima e neo-carnefice? Per saperlo dovete leggere il libro, a cui la mia descrizione scritta a caldo non rende giustizia (oops!).
Si tratta senz’ombra di dubbio di un romanzo “a tesi”. Nelle interviste, l’autore non sembra farne mistero. Tuttavia è molto meno didascalico di quanto si possa pensare e, tesi o no, se ne avvertiva la necessità, in un momento di massima strumentalizzazione del dolore dei “parenti delle vittime”. Mica di tutte, s’intenda: è presentabile, notiziabile e “spendibile” soltanto il dolore di alcuni e non di altri. I parenti delle vittime del “terrorismo rosso” vanno benissimo; i parenti delle vittime delle stragi di stato sono già meno telegenici; i parenti delle vittime della repressione poliziesca (le centinaia di “morti da Legge Reale”), beh, quelli è meglio lasciarli stare, potrebbero mettersi in testa di sfruttare l’occasione per “fare politica”.
Oggi le etichette “noir” e “thriller” vengono appiccicate a due romanzi su tre, gli editori italioti non si preoccupano se il genere s’inflaziona e lo scoppio della bolla è ormai imminente: a loro interessa l’uovo oggi, chi se ne fotte della gallina di domani? Dopodomani, torturati dai crampi della fame, compreranno polli di batteria importati da chissà dove, a rischio d’influenza aviaria. Purtroppo, a differenza degli allevatori giapponesi, nessun editore farà seppuku per la vergogna e il disonore.
Comunque vada, noi ci teniamo ben stretto Carlotto e i suoi romanzi nerissimi.