di Giuseppe Genna

battistilibero.gifQuanto sta succedendo in queste ore, in questi giorni a Cesare Battisti è, e lo è con esattezza scientifica, quanto sta accadendo in questi anni all’Italia e all’Europa: la minaccia realizzata della violazione del diritto in nome di una dottrina superindividuale e astratta, elettorale e ipocrita, che mostra il suo vero volto quando si attiva per maciullare idee e corpi. A rischio di apparire generalista e massimalista, affermo: c’è una continuità – che nemmeno più è inquietante – tra il caso Battisti, la deriva del Vecchio Continente e l’orrore perpetrato in Afghanistan e Iraq. Si tratta di un medesimo ente saturnino, vòlto con sistematica predeterminazione a divorare non i figli suoi, ma i figli dell’uomo. La nonchalance con cui oggi, in Europa, si censurano le idee in tv e sui giornali, si sistemano i conti in un ok corral indecente e amorale, si scatenano conflitti preventivi e si compiono alla luce del sole crimini patenti – questo è il paesaggio che chi si ritiene ancora umano è chiamato oggi a modificare con forza e fatica. I nodi vengono al pettine: e sono nodi di capelli di un cuoio strappato a viva forza dai crani di chi pensa, di chi tenta di ricordare e di ridiscutere il passato per aprire il futuro. Sono enormi le conseguenze implicite che sprigionano dalla scelta del governo italiano di domandare l’estradizione di Battisti: costringono tutti noi a verificare con mano chi sono le persone che si schierano – non, questa volta, per una battaglia armata, ma per una battaglia di idee. Battaglia che, come si nota in questi ultimi anni, non è che comporti meno sangue delle precedenti. Il prezzo della lotta per il pacifismo, i diritti dell’uomo e la libertà, che sia condotta con la potenza delle idee e dei sentimenti oppure con altri supporti, è un prezzo amaro e pesante. Eppure ciò non toglie che lo tsunami di speranza in Movimento che si sta scatenando finisca per travolgere chi vi si oppone: dimostra la storia dell’uomo che quando si spalanca una crepa ideale, una frattura da cui il bene può scaturire, per una legge superfisica il bene emerge. Da anni, questo è il punto, si sta rifacendo la Rivoluzione Francese: ed è una Rivoluzione Francese planetaria. Sorprenderebbe se fosse la Francia la prima nazione a sfilarsi da una simile Rivoluzione Francese.

Per quanto concerne l’Italia, è necessario superare il disgusto emetico che provoca la condotta di un governo cieco e reazionario come l’attuale. Il comportamento di Berlusconi e dei suoi è, una volta ancora, di una leggerezza che sa di tragico, e fa parte di una precisa strategia di innalzamento delle quote di conflitto e di ansia collettiva interne al Paese. La soluzioncina, che soltanto un ragiunatt brianteo poteva trovare geniale, di riaprire in questo modo una falla devastante nell’autocoscienza di una nazione, è una trovata degna di uno Scaramacai quale in effetti è il coboldo governativo. Non si toccano in questo modo immorale i meccanismi di elaborazione storica, faticosissima per l’Italia, di un decennio tragico come i Settanta: un periodo che si vorrebbe decontestualizzare dal periodo stesso, una guerra civile autentica che si vorrebbe fare passare per scaramuccia tra serial killer splatter – come a tutti gli effetti è stato dipinto dai media nazionali Cesare Battisti, in questo caso vittima emblematica di un meccanismo di stritolamento memoriale e politico.
Si badi bene: non è qui questione della colpevolezza vera o presunta (nel caso di Battisti, ben meno che presunta, se gli sono accollati due omicidi, uno a Milano e uno a Venezia, avvenuti nello spazio di mezz’ora…). Qui è in gioco una questione enorme, che non è mai slittata fuori dal consorzio civile italiano. La stagione di piombo non ha schiacciato o segnato una generazione soltanto: in realtà non ha mai smesso di condizionare la vita nazionale. Se pensiamo allo spauracchio rosso, agitato nel perenne periodo pre-elettorale che Berlusconi ha imposto alla vita politica del Paese, osserviamo come il proprietario di Mediaset abbia preordinatamente evocato, più che i rigori russi dello stalinismo, il brivido eversivo che fece tremare la borghesia italiana. Una borghesia, tra l’altro, che rientra negli obbiettivi dell’attuale governo italiano impoverire fino alla cancellazione. La presenza dei rifugiati a Parigi è sempre stata avvertita come minaccia memoriale costante, come spada di Damocle sulla testa di ogni coalizione politica. Sopita al di là delle Alpi, questa minaccia non cessava di allarmare i sonni dei potenti transeunti del Belpaese. A nulla è valso l’obnubilamento degli Ottanta, quando si è cercato di fare bere più di una città agli italiani. A niente ha condotto la stagione del giustizialismo che ha figliato, come ogni parto giustizialista, un reazionariato che biascica dialetto lombardo.
Scrivo quanto segue assumendomi ogni responsabilità di ciò che dico, senza trasmetterla alla redazione e alla direzione di Carmilla.
Io penso che la questione dei postumi del terrorismo e della rivolta di massa italiana sia un fenomeno unico in Europa e che non sia stata risolta; penso che non tocchi semplicemente una componente ideologica di sinistra, ma anche personaggi di destra, il che non significa che spero in una soluzione a base di tarallucci Mulino Bianco e vino all’etanolo; penso che si sia tentata oltre ogni limite una politica di imposizione dei processi di rimozione collettiva, cosa che presupporrebbe una condizionabilità del mondo e della storia e dell’uomo, il che è opera non soltanto impossibile, ma criminale; penso che questo tentativo di imporre la rimozione a un’intera collettività sia stata effettuata attraverso strategie consapevoli di condizionamento psichico, attraverso l’inoculazione di un virus sottoculturale che ha il suo apice nel berlusconismo di massa; penso che pochissimi ma spettacolari elementi umani della generazione che fece i Settanta dovrebbero vergognarsi, non semplicemente per l’abiura compiuta verso una prospettiva storica che praticarono, ma per l’incredibile e strenua opera di conversione al potere costituito da nessuno, che li ha incoronati re per un giorno e piazzati su troni di cartapesta e cartastampata; penso che costoro, ben lungi dall’essere memoria storica di un passato che non passa anche senza di loro, costituiscano un ostacolo di abnorme entità sulla strada della rielaborazione di ciò che fu e ciò che non fu; penso che l’attuale classe dirigente sia emersa non dalla reazione ai fatti recenti di una bufala rivoluzionaria condotta nelle aule di tribunale, bensì dall’impossibilità di affrontare criticamente lo spettro degli anni Settanta; e penso che le nuove generazioni si siano rotte i coglioni di osservare inermi questa incredibile messa in abisso di una questione che non è sovrastorica, ma storica, e che come tale è naturale che sia metabolizzata.
Per l’appunto, io faccio parte della generazione che, ai tempi, giocava a pallone ai giardinetti. La stessa generazione che però ricorda bene il volto impietrito della madre quando fu ritrovato il cadavere di Moro e ascoltò le parole disanimate: “Qui finisce un decennio, adesso arriveranno i carrarmati per strada”. La madre che non inutiva che i carrarmati non sarebbero giunti in strada, ma nell’etere, è uno dei legami più veri e vivi che gli attuali trentenni mantengono con una stagione che vissero non da adulti – ma da bambini, con il portato di un’innocenza scevra da croste ideologiche, capace di osservare le storie di sangue con un terrore lontano da ogni aspettativa, per quello che erano: storie di sangue.
Penso che quell’innocenza bambina, non disgiunta dalla vita della storia che si fece e che continua a farsi, sia oggi la premessa necessaria per arrivare presto a quanto arriveremo: sciogliere il nodo, non tagliarlo. E’ la medesima premessa che mi fa vergognare di essere italiano quando l’Italia fa in modo che si vada a prelevare Cesare Battisti e lo si traduca in carcere, per un’attesa kafkiana che riguarda non soltanto il suo destino, ma quello di tutti noi – e poiché il destino è soltanto il presente, si intende qui che quell’incubo in cui hanno gettato Battisti è l’incubo del mio e del nostro presente.