Variando il titolo di un suo libro: intervista sui fatti “scantosi” nella vita del celebre scrittore siciliano.

di As Chianese

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La memoria aduna fantasmi
e più su di essi si sofferma
più li rende immaginarii.

Franz Brentano*

Non c’è collana più adatta, non c’è nome più appropriato o tentativo di incasellamento più riuscito, se non quella della serie de La Memoria dell’editore Sellerio, per meglio contenere alcuni romanzi di Andrea Camilleri. Me ne rendo conto nella mattinata del 11 novembre di quest’anno, quando all’improvviso un numero col tipico prefisso romano mi appare, misteriosamente, sul display del telefono di casa.


A monte di una mia lettera speditagli una settimana prima, mi arriva la telefonata di Andrea Camilleri per un intervista, si: il “grande vecchio”, lo scrittore che nell’ultimo decennio della letteratura italiana ha restituito il dialetto siciliano alla carta stampata, ha regalato al giallo, al genere letterario tendenzialmente più amato, un commissario umano e geniale come Salvo Montalbano e, in special modo con i suoi primi libri, ha tentato di ricostruire la memoria felice o più antica e dolente della sua Sicilia, discostandosi da quella che stava per diventare una consuetudine letteral — giornalistica: rimescolare i fatti di una mafia troppo pubblicizzata.
Andrea Camilleri con un inconfondibile voce, interrotta da un po’ di tosse, mi racconta dei suoi momenti di panico in una piccola intervista fatta un giorno prima del massacro di Nassirya, un intervista sulla paura, questo sentimento umani così antico e dominante, fatta prima che lo stesso Camilleri chiedesse, dalle colonne di un giornale, di ritirare le nostre truppe in Iraq.

Chianese: Chiariamo innanzitutto un punto, come si pone Andrea Camilleri davanti alla paura?

Camilleri: La paura in me è un sentimento talmente irrazionale da non essere subitaneo. Mi è sempre capitato di avvertirla dopo gli eventi… mai prima.

Chianese: Si è scontrato spesso con questo sentimento?

Camilleri: Abbastanza. Come tutte le persone della mia generazione che hanno fatto i conti con una guerra.

Chianese: Ebbe paura, da giovane, dopo lo sbarco in Sicilia degli alleati?

Camilleri: Si, ovviamente… ma sempre dopo che era passato qualche giorno, mai prima o all’istante.

Chianese: E’ coraggioso?

Camilleri: Credo di si tutto sommato. Nella mia vita ho dato a volte prova di coraggio. Ma forse questo coraggio era dato sempre da quel “non avvertimento” della paura. Quasi che questa si sia sempre accompagnata alla ragione, riflettendo sui singoli accaduti.

Chianese: Vorrei che mi parlasse del suo incontro con Luigi Pirandello, so che fu un evento cruciale e alquanto strano nella sua infanzia.

Camilleri: Successe parecchio tempo fa, quando ero bambino. Un giorno in estate, mentre tutta la mia famiglia a Porto Empedocle era in casa, mi si parò davanti l’alta figura di un uomo in divisa. Ai miei occhi sembrava gigantesco, vestito come un ammiraglio della marina militare: agghindato con alamari e greche, come voleva la divisa di Accademico d’Italia, quale in realtà lui era. Lui era Luigi Pirandello, venuto in Sicilia per inaugurare un epitaffio dedicato a una scuola che recava sul marmo alcune parole del suo I Vecchi e I Giovani. Chiese di mia nonna, che io molto più tardi seppi essergli parente.

Chianese: Perché si spaventò?

Camilleri: Ero un bambino… mi impressionò la sua divisa che subito associai all’esercito. In quel periodo non era bello avere a che fare con l’esercito. Ma mi spaventai anche perché a casa mia si venne a creare una certa agitazione e siccome nessuno mi spiegava chi era quell’uomo e perché era venuto da noi, credetti di aver innescato qualcosa di irreparabile, pensai che forse avrei dovuto non dare retta o scappare davanti a quello che mi sembrò un ammiraglio.
Altri particolari sono contenuti nel mio libro Il Gioco della Mosca (Sellerio).

Chianese: Veniva spesso Pirandello in Sicilia?

Camilleri: Si, seppi che appena poteva, anche per una sciocchezza, ritornava subito nella sua terra natia.

Chianese: Che parentela c’era tra sua nonna e Pirandello?

Camilleri: Erano cugini. Appartenevano entrambi a una famiglia che da sempre aveva avuto a che fare col commercio di carbone e zolfanelli.

Chianese: So che lei pochi anni fa, durante un suo ritorno a Porto Empedocle, fu coinvolto in una strage di mafia, cosa ricorda di quel giorno?

Camilleri: Ricordo che era una giornata strana: faceva caldo, un caldo particolare, poi venne a piovere e poi tornò il sole. Io ero in un bar a bere del whisky. Ne avevo bevuto abbastanza e stavo per pagare quando nel bar sentii una voce alle mie spalle che mi disse: “Lei oggi mi ha tradito!”, era il proprietario di un altro bar che frequentavo abitualmente. Mi volle offrire anche lui del whisky, io accettai. Poi appena uscito dal locale, nel giro di pochi attimi, alcuni clienti seduti ai tavolini furono falciati da raffiche di armi da fuoco, io mi salvai trovando rifugio dietro un tavolino. Ero caduto a terra.

Chianese: A chi era indirizzato quell’attentato?

Camilleri: All’uomo che mi aveva offerto del whisky, il proprietario dell’altro bar… quello che io avevo “tradito”.

Chianese: In quel momento provò paura?

Camilleri: No, neanche in quel momento così atroce mi spaventai. Ricordo che avevo sotto gli occhi l’asfalto bagnato di sangue e i corpi delle vittime, ma provai un solo grande sentimento: l’impotenza, una impotenza talmente esasperata da portarmi alle lacrime. Dopo arrivò la paura, arrivarono i brividi, per l’assurdità e la ferocia di quella situazione.
La ringrazio, per non avermi fatto domande sul Commissario Montalbano.

* La frase apre il libro di Camilleri Il Gioco della Mosca edito da Sellerio (N.d.R.)