di Daniela Bandini

Raymond1.jpgLa casa editrice Meridiano Zero ha tanti meriti nei confronti del lettore intelligente. Tra questi la proposta in Italia dell’opera di Derek Raymond (pseudonimo di Robin Cook, 1931-1994, adottato obbligatoriamente dopo che un autore omonimo americano di mediocri bestseller vinse una causa a suon di dollari). Raymond è stato sicuramente, con Hammett e Manchette e più di Ellroy, il maggiore autore di noir del secolo appena trascorso. Meridiano Zero ne propone ora, in nuova veste e traduzioni più accurate, il ciclo detto della Factory. Poiché pare diventato di moda, in certi ambienti intellettuali (Cfr. fra i tanti G. Bonura, in Stilos-La Sicilia del 26 agosto 2003), mettere in discussione il genere noir fino a denigrarlo, l’operazione appare salutare. Forse, leggendo Raymond, questi critici si renderanno conto della loro insipienza. E magari impareranno anche a scrivere meglio. (VE)

C’è il genere “nero”, quello appassionante, quello intrigante, quello risaputo, e poi c’è Derek Raymond. Il noir. Raffinato, colto e sobrio. Quando Raymond racconta con dovizia di particolari il lavoro del taxista quel lavoro te lo senti sulla pelle. Senti il sudore che permea i tessuti consunti del vecchio carrozzone, la stanchezza, la frustrazione del lavoro a cottimo, e persino il ticchettio delle monetine introdotte nella fessura di una slot machine immaginaria che quantifica il guadagno di una giornata, di ogni chilometro percorso: per pagare l’affitto, le bollette scadute, l’assegno di mantenimento…


Lo senti. Forse perché Derek Raymond ha svolto ogni possibile tipo di lavoro e in ogni parte del mondo, ma capisci subito che non è una descrizione quella che leggi. E’ vissuto. E morì a occhi aperti (Meridiano Zero, pp. 258, € 13,50) è il più bel noir che abbia mai letto, detto molto sinteticamente. Anzi, che ho letto e riletto, almeno tre volte.
Detta così la trama è pure banale: si tratta della storia di un poliziotto di una squadra secondaria di Scotland Yard – la Factory – che indaga su un omicidio del quale probabilmente nessuno reclamerà la soluzione, e nemmeno pretenderà il ritrovamento del corpo. La figura del detective è squisitamente cinematografica, assolutamente affascinante e talmente piena di certezze esistenziali che viene voglia di invocarlo al di qua delle pagine stampate, perché ci sostenga un poco col suo rigore morale, col suo modello comportamentale, col suo credo.
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Il detective non rispecchia le sembianze annoiate del poliziotto stipendiato che conta le settimane che gli mancano alla pensione, egli vive il delitto. Lo vive sino all’identificazione con lo scorrere del tempo cadenzato del cadavere, vive l’ingiustizia dell’omicidio fino a credere che i colpevoli saranno puniti. E non ridacchi nessuno, per cortesia, nel leggere queste parole.
Il morto, tale Staniland , Charles Locksley Alwin Staniland, è stato conciato troppo male per archiviare il caso come un banale omicidio a sfondo di rapina. Sembra una vendetta. Di più: un accanimento. Staniland, con un feroce amore impotente nei confronti della vita e di una donna spietata, amava registrare le sue intolleranze ai ritmi dell’assurdo quotidiano su alcune audiocassette, che il detective ascolta a riascolta, arrivando a vivere le stesse impressioni del defunto, a condividere le inquadrature psicologiche dei conoscenti, amando e odiando gli stessi personaggi. Odiando i suoi assassini, amando i suoi assassini. Associando la poesia e la disperazione ad ambienti tipicamente degradati, inquadrando, attraverso il filtro biondastro di un liquore di ultima qualità, la vita parallela della vittima e il suo scorrere con la determinazione di un riscatto. Il detective, infatti, nel ripercorrere le tracce della vittima ha un’arma in più: conosce il prologo dei fatti.
Il primo attributo che ci aspetteremmo di trovare nei sentimenti di un detective della Omicidi nei confronti delle sue vittime è, ammettiamolo, il disprezzo. Te la sei cercata, te la sei voluta, è questo il gergo che ci attendiamo da lui. E invece qui no. C’è l’amore. Sul serio. Dal diario orale di Staniland: “Quasi tutti vivono a occhi chiusi, ma io ho intenzione di morire a occhi aperti. Tentiamo tutti di renderci la morte meno difficile. Personalmente io uso due metodi. Innanzi tutto bevo. Bevo per arrivare all’oblio, e allora basterebbe una caduta o un urto qualsiasi, giunto ormai oltre coscienza e raziocinio. Così morirei a occhi chiusi. L’altro metodo è quello di razionalizzare la mia esperienza. Purtroppo, per quanto si cerchi di seguire la logica, presto ci si ingarbuglia. L’esistenza è cieca, né a tuo favore né contro. Questa imparzialità contraddice ogni esperienza umana: non c’è amore né odio, dolcezza o violenza, quando affronti la quotidianità…”
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Staniland, raggelato dal percorso esistenziale, tiranneggiato per le sue debolezze da una donna troppo forte per lui, in bilico tra il disprezzo e la derisione, vive l’umiliazione quotidiana come un purgatorio, come l’espiazione della propria fragilità. Vorrei dirvi che l’omicida della nostra povera vittima è un sadico violento succube di una madre che gli impone di andare di corpo con assoluta regolarità tutti i giorni, tenendo i “vasini” con gli escrementi dell’intera settimana allineati nella linda cameretta, e vorrei parlarvi della femme fatale, odiosa creatura indomabile, frigida e consapevole del potere del sesso, ma vittima anch’essa di abbandoni, violenze e anche di luoghi comuni. Vorrei descrivervi gli ambienti del detective: le periferie inglesi, gli accenti che si mescolano, gli adolescenti, i nuovi immigrati, la disperazione e lo squallore del clima freddo e umido, che unito alla povertà sembra non lasciare alcuna speranza di riscatto. Ma lo vivrete meglio leggendolo.
Bellissima la prefazione di Niccolò Ammaniti.