venderelaguerra.gifE’ appena uscito in traduzione italiana uno dei lavori di controinformazione che ha più choccato il mondo anglosassone. Si tratta di Vendere la guerra La propaganda come arma d’inganno di massa (Nuovi Mondi Media, 16 euro), e gli autori sono Sheldon Rampton e John Stauber. Quest’ultimo (di cui avevamo già scritto in Carmilla) è uno dei più rigorosi studiosi del fenomeno della distorsione informativa, essendo il fondatore e il direttore del Center for Media & Democracy, l’istituto che analizza la propaganda condotta dalle multinazionali e dai governi. Lui e Sheldon Rampton pubblicano su PR Watch, l’osservatorio Usa sull’industria delle pubbliche relazioni. Il testo pubblicato da Nuovi Mondi Media ha sollevato un interesse impressionante in America e Inghilterra: Noam Chomsky lo ha definito “una lettura essenziale per coloro che vogliono essere artefici del proprio futuro e non soggetti passivi della manipolazione e del controllo”, e Salon, ormai uno dei magazine più importanti degli USA, ha intervistato Stauber e Rampton. Riprendiamo dal sito di Nuovi Mondi Media la traduzione dell’articolo apparso su Salon.


stauberrampton.gifSembrava un debutto promettente: la nuova rivista Hi era appena uscita e già faceva scalpore. Era brillante. Era giovane. Era fresca, alla moda e anche un po’ erotica. Il lancio multimilionario in 14 paesi è apparso su tutti i giornali. E per il Dipartimento di Stato USA sembrava una buona notizia, perché Hi è una pubblicazione governativa concepita per conquistare i cuori e le menti nel mondo arabo e islamico.
Sebbene prodotta da un privato, Hi fa parte della campagna USA per convincere i cittadini dei paesi arabi e musulmani a guardare in modo più favorevole agli Stati Uniti. I critici l’hanno chiamata “propaganda morbida”; la stampa in Medio Oriente ha invece insinuato che gran parte del pubblico giovanile a cui è destinata l’ha trovata risibile. Tutto ciò indica che la rivista avrà ben poco impatto nel mitigare la radicata ostilità nei confronti degli Stati Uniti – un sospetto amplificato quasi ovunque dai conflitti in corso in Afghanistan e in Iraq.
In Vendere la guerra gli autori Sheldon Rampton e John Stauber spiegano come mai operazioni simili a Hi hanno quasi sempre inevitabilmente fallito. “Gli Stati Uniti hanno perso la guerra della propaganda molto tempo fa”, ha detto Rampton a Salon, citando le osservazioni dell’editore di un network arabo americano. “Anche se fosse il profeta Maometto a gestire le loro relazioni pubbliche, non servirebbe a nulla.”
Ma l’amministrazione Bush non ha desistito. Giovedì scorso, la Casa Bianca ha annunciato il lancio di un canale televisivo in onda 24 ore su 24, concorrente del network al-Jazeera – sebbene con una prospettiva leggermente diversa. Il Congresso ha approvato 32 milioni di dollari per finanziare il progetto, e gli altri 30 milioni che seguiranno subito dopo.
Ma secondo Stauber e Rampton, progetti come Hi e il nuovo canale televisivo dimostrano solo che l’amministrazione Bush non capisce molto né di Medio Oriente, né dell’arte della comunicazione. Gli autori sostengono che con l’appoggio delle bandiere sventolanti sui notiziari di Fox e della timida stampa ufficiale, a livello nazionale la propaganda ha funzionato relativamente. Anche se Bush sembra non rendersene conto, il Medio Oriente non è il Texas. In Medio Oriente e in tutto il mondo islamico, la gente detesta l’America per la sua politica di sostegno verso Israele e per decenni di manipolazione e arroganza. Nessuna rivista brillante o campagna pubblicitaria può cambiare la situazione. L’unica soluzione, dicono Stauber e Rampton, è quella di instaurare un vero dialogo con il Medio Oriente – fatto non solo di parole, ma anche di disponibilità ad ascoltare.
Vendere la guerra è un resoconto piacevole, arguto e ben documentato dei tentativi del governo USA di contrastare l’ondata di antiamericanismo che l’amministrazione Bush si è trovata ad affrontare nel mondo arabo dopo l’11 settembre 2001. Inizia con la storia di Charlotte Beers, ex presidente e CEO di due delle maggiori agenzie pubblicitarie del mondo, la J. Walter Thompson e la Ogilvy & Mather. Venne ingaggiata dopo l’11 settembre, come ha spiegato Colin Powell, “per passare dalla semplice vendita dell’immagine USA… al marchio della politica estera”.
Operazioni come questa costano generalmente un miliardo l’anno. Che fine ha fatto quel denaro?
La campagna-fiasco sui “valori condivisi” da 5 milioni di dollari era un tipico progetto della Beers. Lo spot televisivo mostrava la vita quotidiana del musulmano americano medio, libero da qualunque discriminazione religiosa e razziale. Concepito per essere trasmesso nei paesi islamici, lo spot sui “valori condivi” mostrava spesso una donna che correva in pantaloncini. Ritenuto offensivo per i musulmani, lo spot venne rifiutato dai maggiori canali televisivi in Egitto e in altri paesi di maggioranza islamica.
Un’altra iniziativa della Beers fu Radio Sawa, un’emittente di musica pop americana. Radio Sawa trasmette quasi interamente musica, ma prevede dei notiziari di stampo nettamente pro-america ogni ora. Rampton e Stauber ammettono che Radio Sawa abbia avuto un certo successo – pur affermando che la maggior parte del pubblico cambia canale durante gli interventi.
All’inizio dell’anno, i sondaggi eseguiti dal Pew Research Center indicavano l’immagine pubblica degli Stati Uniti in forte declino in tutto il mondo, anche nei paesi arabi nel mirino delle campagne di “diplomazia pubblica” della Beers. Tra gli egiziani intervistati, alla domanda se avessero un’opinione favorevole verso gli Stati Uniti, solo il 6 percento ha risposto positivamente.
Nel marzo di quest’anno, quando la sua campagna è stata bersagliata dalle critiche, la Beers si è dimessa, menzionando “ragioni di salute”. Sorprendentemente, la maggior parte dei media hanno definito esplicitamente il suo lavoro al Dipartimento di Stato un fallimento.
Gran parte delle ricerche per Vendere la guerra provengono dal sito web degli autori, PR Watch, e dalla loro “Disinfopedia”, un'”enciclopedia della propaganda” che comprende “agenzie di relazioni pubbliche, analisti del governo, organizzazioni ed esperti sovvenzionati dall’industria”. I due ex giornalisti investigativi hanno precedentemente scritto Trust Us, We’re Experts: How Industry Manipulates Science and Gambles With Your Future (di prossima pubblicazione per Nuovi Mondi Media, NdR) e Toxic Sludge Is Good for You: Lies, Damn Lies and the Public Relations Industry.
Rampton e Stauber hanno parlato con Salon al telefono da Madison, Wisconsin. Hanno spiegato perché la pop radio americana non impedirà futuri attacchi di al-Qaeda, come il Pentagono potrebbe essere vittima della propria propaganda e cosa ha spinto Bush a combattere la “guerra al terrorismo” attaccando l’Iraq.

Qual è la differenza tra le relazioni pubbliche condotte dal governo e la propaganda?

Sheldon Rampton: Sin dal principio, le relazioni pubbliche sono state immerse nella propaganda, ma il termine “relazioni pubbliche” è per molti meno offensivo, quindi è il termine che preferiscono. Il settore delle relazioni pubbliche è sempre in cerca di nuovi eufemismi da adottare, poiché ogni termine usato diviene spesso sinonimo di manipolazione o inganno agli occhi del pubblico. Quindi a volte utilizzano altre espressioni, come “relazioni sociali”, “gestione della reputazione” o “gestione della percezione”.

Cosa fa un “manager della percezione” o, in questo caso, Charlotte Beers?

Rampton: Passano i giorni a progettare la propaganda. [ride] È il lavoro di colui che attraverso la “diplomazia pubblica” escogita i metodi per influenzare l’opinione della gente all’estero affinché l’immagine e la politica degli Stati Uniti siano viste sotto una luce più favorevole. La descrizione dei loro compiti non si discosta troppo da ciò che molti studiosi definiscono propaganda.

Nel libro, illustrate le campagne di relazioni pubbliche condotte da Charlotte Beers nei paesi arabi e musulmani. Potete descriverci qual è stato il suo ruolo al Dipartimento di Stato?

Rampton: Il compito di Charlotte Beers non era quello di promuovere la guerra in Iraq o in Afghanistan. Era in particolare quello di creare un’opinione più favorevole sugli Stati Uniti all’estero, specialmente nei paesi arabi e islamici.
Il suo lavoro è stato un buon esempio dei limiti della propaganda come forma di comunicazione. Che la propaganda sia una forza così potente da ipnotizzare le persone e far loro accettare cose a cui altrimenti non crederebbero mai è una leggenda.
La propaganda a volte funziona nell’ingannare la gente, ma spesso ha molto meno successo nell’influenzare i suoi destinatari che non nel trarre in inganno i suoi stessi artefici. Ritengo che la campagna di Charlotte Beers ne sia un esempio.
Tutti i segnali quantitativi che abbiamo mostrano che la sua campagna, anziché favorire, ha probabilmente contribuito a danneggiare l’immagine pubblica degli Stati Uniti. Numerose delle sue campagne sono state messe in ridicolo.
L’approccio della sua propaganda – apporre il “marchio” americano – è una cosa destinata ad attirare ostilità. Implica alcuni presupposti antidemocratici su come dovrebbe funzionare la comunicazione.

“Marchio americano”? Cosa s’intende per “marchio”, nel caso di un paese?

Rampton: Charlotte Beers era un’esperta in “gestione del marchio”. Il marchio è generalmente un’idea che induce la gente ad associare i valori emotivi al prodotto o all’idea che si sta vendendo.
Questo è ciò che dicono sempre i pubblicitari, in un certo senso. “Vendi lo sfrigolio, non la bistecca”. Cercano di venderti un’automobile, non perché si tratta di un mezzo di trasporto, ma perché ti fa sentire più forte. Oppure che ti fa sentire più sexy. Cercano di vendere in base alle reazioni emotive che tentano di suscitare nel pubblico.

La manipolazione funziona decisamente in molti casi, non è così?

Rampton: Funziona nella pubblicità. Ma il problema che Charlotte Beers si trovava ad affrontare nel condurre la sua campagna era di dover comunicare a un pubblico molto più ostile e diffidente rispetto a tutto ciò che lei cercava di dire.
Nel libro, citiamo Osama Siblani, editore di Arab American News. Secondo Siblani, gli Stati Uniti hanno condotto una propaganda nel mondo arabo e islamico per lungo tempo a cui la gente è ormai abituata, mentre il loro scetticismo risale a decenni di storia. Sostiene che gli Stati Uniti hanno perso la guerra della propaganda molto tempo fa. “Anche se fosse il profeta Maometto a gestire le loro relazioni pubbliche, non servirebbe a nulla”.
John Stauber: Inoltre, vi sono essenzialmente due tipi di propaganda: la pubblicità e le pubbliche relazioni. La differenza è che la pubblicità è di solito riconoscibile. Se si spende abbastanza denaro e si è in grado di utilizzare gli effetti e le idee giuste, è possibile che il prodotto si venda.
La pubblicità può funzionare bene per un marchio, perché è molto penetrante. Ma non è subdola. Credo che l’idea di un approccio pubblicitario – e Charlotte Beers era un prodotto di Madison Avenue – apponendo il “marchio” americano per cambiare l’opinione dei musulmani sulle politiche americane, vada nella direzione sbagliata.
Nell’ambiente della propaganda, i pubblicitari e i consulenti di relazioni pubbliche sono divisi sull’idea che l’approccio migliore per manipolare l’opinione pubblica nei paesi islamici sia quello pubblicitario.
La pubblicità è una manipolazione evidente. Se venissero trasmessi in televisione degli spot per convincerci che l’ideologia e la religione di Osama bin Laden sono magnifiche, risulterebbero ridicoli esattamente come gli spot che Charlotte Beers ha cercato di diffondere nei paesi islamici.

Se venisse condotta una campagna di relazioni pubbliche più sfumata, che non offendesse l’intelligenza del pubblico, sarebbe possibile cambiare l’opinione pubblica sugli Stati Uniti nei paesi arabi e islamici?

Stauber: Anzitutto, l’idea che un popolo, profondamente ferito e offeso dalla percezione della politica USA e l’influenza che questa ha avuto nella sua vita quotidiana, possa essere influenzato con la musica pop, la pubblicità o gli interventi di terzi … mostra semplicemente un atteggiamento arrogante del governo USA verso l’opinione pubblica all’estero.
Rampton: Se ci fosse più dialogo, anziché una comunicazione a senso unico, funzionerebbe meglio. Ma anche se fosse, il fattore che ha maggiormente minato la propaganda è stata la pressione dell’amministrazione Bush sulla guerra.
Io e John abbiamo scritto – nel nostro primo libro insieme, Toxic Sludge Is Good for You (“I fanghi tossici sono buoni per te”, NdT) – un brano sulla campagna di relazioni pubbliche condotta per convincere la gente che i fanghi sono un buon fertilizzante. In parte, quella campagna cercava di convincere le persone che vivevano vicino ai luoghi dove questi fanghi venivano usati come concime, ad esempio vicino alle fattorie che li utilizzavano.
Cercavano di convincerli che vivere lì era innocuo per la salute … e che non puzzava nemmeno. [ride] Abbiamo ricevuto la lettera di una donna che diceva: “Ci dicono che non c’è pericolo, ma dicono anche che non si sente alcun odore. Eppure tutti i giorni, quando esco di casa, io la sento questa roba, quindi come faccio a credergli quando dicono che non c’è pericolo, se non ammettono nemmeno che si sente l’odore?”
L’esperienza diretta della gente è un fattore determinante. E l’esperienza della gente nei paesi islamici e arabi è un elemento più potente nella formazione dell’opinione sugli Stati Uniti di qualunque cosa potremmo dire con i mezzi della propaganda.

Perché la gente nel mondo arabo non è contenta che gli Stati Uniti abbiano rimosso Saddam Hussein dall’Iraq?

Rampton: Finché sussisterà una contraddizione con i nostri scopi dichiarati nella regione, ovvero promuovere la democrazia e il bene della popolazione mentre siamo alleati dei regimi repressivi per avere il loro petrolio, l’opinione pubblica non può che restare negativa.
Stauber: Con Saddam Hussein, gli Stati Uniti hanno essenzialmente chiuso gli occhi per decenni. La popolazione del Medio Oriente che ha sofferto sotto il regime di Saddam Hussein, ha capito molto bene che finché venivano soddisfatti gli interessi degli Stati Uniti, il dittatore era nostro amico e alleato. Il suo crimine peggiore secondo l’amministrazione Bush non è stato quello di uccidere con il gas la sua gente, ma di essersi appropriato del petrolio della famiglia reale del Kuwait.
Si tratta di un cinismo profondo e comprensibile, non soltanto di dire, ‘Hey, siamo arabi, siamo musulmani, non abbiamo alcun rispetto per gli Stati Uniti’. Si tratta di una lunga e ipocrita storia di sostegno USA a regimi terribilmente repressivi. Saddam Hussein era un meraviglioso alleato per gli Stati Uniti, finché non ha frainteso sin dove poteva arrivare.

È quindi impossibile per gli Stati Uniti trovare un equilibrio nelle questioni scottanti? Ad esempio, da un lato abbiamo il sostegno dato ai musulmani in Kosovo, e dall’altro la situazione in Palestina con il sostegno a Israele.

Stauber: Non credo che nessuno di noi la pensa in questo modo. Consideriamo la reazione USA verso la Francia in tutta la questione. Non mi sembra che la gente stia boicottando lo sciroppo d’acero canadese. Eppure i canadesi si sono tenuti fuori dalla guerra a gran voce e sono stati orgogliosi di non sostenere in questo gli Stati Uniti. Ma la Francia – c’è qualcos’altro che riguarda la Francia! [ride]
C’è questa reazione emotiva anti-francese negli Stati Uniti provocata dalla posizione della Francia in questa situazione. Può esserci un elemento di razionalità, ma si tratta soprattutto di una reazione istintiva per come siamo stati trattati.
Rampton: C’è una componente assolutamente emotiva, ma c’è anche la sensazione nei paesi arabi e islamici che gli Stati Uniti sostengano regimi come l’Arabia Saudita e il Marocco, favorendo la democrazia soltanto a parole. E ovviamente, c’è una grande ostilità verso Israele. E anche se avessimo fatto la cosa giusta in alcuni casi come in Bosnia, non andrebbe a compensare il grande risentimento su tutto il resto.
Se si vuole rimuovere quel risentimento dall’opinione pubblica, è possibile farlo soltanto attraverso una politica che coincida davvero con i principi che dichiariamo: la democrazia e il rispetto per i diritti umani. E questa non è stata affatto la politica del nostro governo.

Cosa volete dire agli americani che non sopportano l’idea che l’America sia odiata in alcune parti del mondo? Non è giusto che gli Stati Uniti utilizzino le pubbliche relazioni per cercare di rimediare a questo odio, sebbene si tratti di un approccio superficiale, visto che dalla parte opposta viene condotta una propaganda antiamericana?

Rampton: Attualmente stanno succedendo due cose, una è il risultato della politica USA su cui io e John ci siamo soffermati. L’altra è il fatto che per una serie di ragioni, gli Stati Uniti sono divenuti l’unica superpotenza mondiale.
Se giochiamo a Risiko, sappiamo che prima o poi uno di noi diventerà più potente di tutti gli altri e che tutti gli altri giocatori inizieranno a preoccuparsi di lui. E non ha nulla a che fare con il fatto che costui ci sta simpatico o no. Ha a che fare con il fatto che il più potente è quello di cui si ha più paura.
Questo è in parte un problema per gli Stati Uniti. Siamo diventati una superpotenza che quantomeno immagina sé stessa capace di dominare il resto del mondo senza dover ascoltare.
Abbiamo assolutamente bisogno di una strategia di comunicazione con il resto del mondo che modifichi il modo in cui veniamo visti. Ma gran parte di questa strategia dovrebbe includere anche il nostro modo di vedere il resto del mondo, dimostrandoci disposti ad ascoltare quello che gli altri hanno da dire e a rivolgere loro la nostra attenzione.
Dopo l’11 settembre, sono stato colpito dal fatto che negli Stati Uniti non si potesse più criticare la politica estera del governo. Era impossibile elencare le regioni per cui esiste odio verso gli Stati Uniti, senza che qualcuno reagisse immediatamente dicendo, “Siamo troppo scioccati adesso, è davvero insensibile parlarne. Il dolore è troppo intenso per parlare di cose simili in questo momento”.
Stauber: Proprio così, per non parlare di quelli che ti dicevano, “Stai incolpando l’America”, “Stai dicendo che ce lo meritiamo”. Se cercavi di iniziare un discorso sul perché alcuni popoli di altri paesi odiassero l’America – non a tal punto da mandare degli aerei contro i grattacieli, soltanto un sentimento di odio – non era proprio possibile. Se iniziavi appena a menzionare la cosa, c’era questo contrattacco di destra, e tu facevi parte di quelli che “incolpavano l’America”.
Rampton: Ci sono forti tabù nell’ascoltare o discutere pubblicamente delle ragioni per cui dei popoli sono ostili verso gli Stati Uniti. Finché ci saranno questi tabù, non credo che riusciremo a cambiare l’opinione su di noi all’estero.

Credi che le radici di questo fenomeno siano anche nelle pubbliche relazioni? Che gli Stati Uniti anche qui comunicano a senso unico anziché porre le basi per una conversazione?

Rampton: Esattamente. La propaganda è il tentativo di influenzare il pensiero di un popolo senza considerare se si sta dicendo la verità o se quello che si dice è nel suo interesse.
Il messaggio della propaganda può essere vero o essere nel suo interesse. Ad esempio, una forma di propaganda di guerra molto cruda può essere quella di lanciare volantini in cui si dice al nemico che se non si arrenderà verrà ucciso. Questo può essere vero. E arrendersi potrebbe essere nell’interesse del nemico.
Ma dal punto di vista di colui che lancia i volantini, non importa se questo è vero – importa solo che il nemico si arrenda. E spesso la propaganda, poiché è nella sua natura, finisce sempre per produrre messaggi non veri e non nell’interesse dei destinatari. Questo approccio alla comunicazione, secondo la mia opinione, è essenzialmente in contrasto con la definizione e il concetto stessi di comunicazione che stanno al centro delle teorie democratiche su come la comunicazione dovrebbe avvenire.
Nel modello democratico di comunicazione, ciascuna parte è sullo stesso piano. Non c’è un comunicatore privilegiato il cui compito è quello di indottrinare un pubblico passivo. Tutti hanno il diritto di parlare e ogni punto di vista può essere valido. Nell’approccio della propaganda, il punto di vista della gente che si vuole indottrinare rappresenta spesso un ostacolo da superare.

Secondo voi perché, considerando il fallimento della propaganda USA all’estero, l’amministrazione Bush è riuscita a vendere la guerra in Iraq agli americani?

Stauber: La campagna condotta negli Stati Uniti che è riuscita a confondere, fuorviare e ingannare gli americani, ha convinto la maggior parte del pubblico che attaccare l’Iraq fosse davvero la giusta risposta agli attacchi dell’11 settembre. Che Saddam Hussein fosse in qualche modo coinvolto con al-Qaida. Che gli iracheni fossero dietro l’11 settembre. Che, come hanno sostenuto Condoleezza Rice e altri esponenti del Dipartimento di Stato, “il prossimo 11 settembre potrebbe essere un fungo atomico sull’America” se non si prendono provvedimenti contro Saddam Hussein.
La domanda che abbiamo posto alla fine del libro è: abbiamo combattuto una guerra sbagliata, con le armi sbagliate, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato? Tutto ciò non porterà piuttosto all’aumento della minaccia terroristica contro gli Stati Uniti?
In effetti, sembra andar di male in peggio.
L’ironia è che un lettore critico, un libero pensatore, qualcuno che vuole davvero capire cosa sta succedendo – leggendo la stampa ufficiale come il Wall Street Journal, il New York Times, il Guardian e ascoltando la BBC – potrebbe arrivare alla stessa conclusione a cui siamo giunti noi. Ma la maggior parte degli americani non vengono informati attraverso questi canali. La maggior parte di essi vengono informati con la televisione, che è probabilmente la fonte peggiore attraverso cui ottenere informazioni documentate e approfondite.

Quindi secondo voi anche i notiziari televisivi sono in certa misura responsabili della propaganda a favore di questa guerra?

Stauber: Dopo l’11 settembre, abbiamo visto come la Fox ha strumentalizzato gli attentati, avvolgendosi nella bandiera americana e rullando i tamburi di guerra. Hanno strumentalizzato la paura della gente, creando ciò che un altro produttore televisivo ha chiamato “l’effetto Fox”.
Anzitutto, la guerra forse non ci sarebbe stata se i media avessero fatto i loro lavoro mettendo in dubbio l’amministrazione, anziché divenire la sua cassa di risonanza e la sua arma di propaganda.
Ma nel caso specifico della Fox, è stata adottata una strategia sciovinista, iperpatriottica e guerrafondaia per guadagnare una massiccia quota di mercato. La Fox è diventata infatti la fonte principale sulla guerra per la maggior parte del pubblico americano.
La ragione per cui abbiamo sottotitolato il libro “L’uso della propaganda nella guerra di Bush” è che questa propaganda non è stata condotta soltanto dall’amministrazione o dagli analisti di destra, ma anche da opportunisti e network come la Fox che hanno sfruttato l’11 settembre per condurre la propria propaganda per i loro scopi. Gli Stati Uniti vanno in guerra perché Rupert Murdoch, proprietario della Fox, appartiene a quella ideologia e ha creduto in essa. E per guadagnare quote di mercato. È davvero spaventoso vedere che nel ventunesimo secolo un network televisivo tragga tali profitti con lo sfruttamento della paura di una nazione promuovendo una guerra.
Rampton: E gli Stati Uniti non sono l’unico paese dove questo accade. Nell’ultima parte del libro, confrontiamo i modi in cui è stata fornita l’informazione sulla guerra negli USA e in altre parti del mondo.
Come per l'”effetto Fox” in occidente, qualcosa di simile accade nei paesi arabi e musulmani. Per concorrere sul mercato, viene utilizzata l’indignazione, rivolgendola agli Stati Uniti. La cosa ironica è che se guardiamo la televisione araba, e oggi è possibile farlo anche attraverso il web, somiglia moltissimo alla Fox! [ride]

Comunque, il fatto che l’amministrazione è riuscita nella “promozione” della guerra in Iraq dimostra che la propaganda interna funziona, sebbene non si possa dire lo stesso all’estero?

Rampton: Da parte di tutti gli schieramenti politici – di sinistra, di destra e di centro – viene attribuito ai media un potere enorme. E i media esercitano effettivamente una grande influenza sul pensiero della gente. Brian Eno ha recensito il nostro libro in Inghilterra. Nella sua recensione, ha osservato che la cosa principale che fanno i media non è dirci come pensare, ma cosa pensare.
Abbiamo trascorso tutto l’anno passato a pensare e a parlare dell’Iraq. Non stavamo tutti pensando e parlando dell’Iraq prima che l’amministrazione Bush l’inserisse nel suo programma. Fino allo scorso settembre, un anno dopo gli attentati al WTC, l’Iraq occupava un posto marginale nel dibattito sulla guerra al terrorismo, finché l’amministrazione Bush non l’ha messo al primo posto.
Ma questo dimostra alcuni dei limiti della propaganda poiché per quanto possa influenzarci, la gente conserva ancora un minimo di indipendenza nel modo di pensare.
Credo che il fatto che il nostro libro abbia un certo successo dimostra che esiste una parte di opinione pubblica negli Stati Uniti che non è mai stata influenzata dalla propaganda tinta di rosso bianco e blu di cui abbiamo scritto.