di Valerio Evangelisti

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Il presente editoriale non impegna tutta la redazione, ma riflette soltanto le idee dell’autore. E’ stato scritto originariamente quale contributo a una pubblicazione scientifica dell’università di Grenoble, coordinata dal professor Christophe Mileschi.

Ho l’impressione che insistere troppo sugli aspetti pagliacceschi di Silvio Berlusconi, come fa gran parte della stampa internazionale, distragga dalla sostanza della sua azione di governo. Non vi è dubbio che si tratti di un personaggio dalla volgarità innata, simile per atteggiamenti e per cultura a certi commessi viaggiatori di vecchio stampo. Non vi è dubbio, altresì, che buona parte della sua attività sia volta a stravolgere le istituzioni in senso autocratico, oppure a porlo al riparo dai guai giudiziari che lo sovrastano. Tuttavia è bene mettere in chiaro alcune cose. Non è un fascista. Non è un mafioso. Non è un Pulcinella (questo ruolo lo attribuirei piuttosto a una gran parte dei collaboratori che si è scelto, capaci di lasciare increduli per la loro stupidità). E’, se vogliamo, molto peggio di tutto ciò.


Silvio Berlusconi rappresenta, ai miei occhi, una variante tutta italiana di ciò che fu Margaret Thatcher per l’Inghilterra. Ricordiamocelo. Una dama estranea al tradizionale tessuto conservatore inglese travolge la leadership del partito, si fa portavoce di ceti medi giunti a una loro coscienza di classe, si pone in sintonia con Ronald Reagan e vara un programma ultraliberista indirizzato a scalzare Welfare State e sindacati. La trasformazione è talmente radicale da sopravvivere alla scadenza del mandato. Tony Blair raccoglie di fatto, lo voglia o no, l’eredità anti-keynesiana della Thatcher, e tutto l’Occidente è tuttora improntato alla visione del mondo propria dell’asse Thatcher-Reagan: ciò che Ignacio Ramonet ha felicemente definito il “pensiero unico”.
Il percorso italiano è simile, anche se invertito nelle apparenze ideologiche. Spetta a un socialista, Bettino Craxi, prendere atto della raggiunta consapevolezza di classe dei ceti medi. L’innesco è, nel 1980, una marcia di 40.000 quadri della Fiat contro i sindacati che hanno occupato la sede di Mirafiori dell’azienda. Pochi intuiscono, a quel tempo, che si tratta di una svolta epocale, ma Craxi sì. Mette mano all’indebolimento di un Welfare State che pareva intangibile, va allo scontro frontale con le organizzazioni operaie. Parallelamente, incoraggia in tutti i modi l’arricchimento delle classi medie fino a quel momento vittime di un’identità incerta. Professionisti, imprenditori di medio calibro, ceti impiegatizi del settore privato, operatori nel campo finanziario o commerciale, sono incentivati ad arricchirsi senza freni, e a prendere atto del potere raggiunto.
Silvio Berlusconi è, di Bettino Craxi, il diretto erede. Con un passaggio intermedio, però. Durante i governi che si succedono dopo l’esilio di Craxi (giudicato in tribunale colpevole di essere al centro di un esteso sistema di corruzione), gran parte della sinistra abbraccia anch’essa la causa dei ceti medi arricchiti, e modella sulle loro istanze il proprio programma. Questo è naturalmente anti-keynesiano, centrato su una priorità di risanamento del debito pubblico di chiara impronta monetarista, favorevole alla privatizzazione dei settori dell’economia ancora in mani statali, ostile alla stabilità del lavoro e all’erogazione gratuita dei servizi, incline ad agevolare l’azionariato quale sistema di risparmio e i fondi di investimento quali succedanei alle pensioni di Stato.
Niente più egualitarismo, niente più tentativi di allargare dal basso gli spazi democratici. La sinistra ridisegnata procede anzi a una limitazione sensibile della democrazia. Il sistema politico, da proporzionale che era, si fa maggioritario: nessun cittadino troverà più in parlamento una forza che lo rappresenti per intero, e il potere diverrà autonomo rispetto alla società e alle sue tensioni. Più o meno la visione di Craxi.
Con una simile scelta, la sinistra — fusa in una coalizione con alcuni partiti di centro dalle molte contraddizioni interne — spera forse di perpetuare il proprio comando. Invece offre a Berlusconi il modo per fruire in parlamento di una sovrarappresentazione del suo partito, Forza Italia, e gli regala i numeri per un uso “sovversivo” del potere governativo, capace di intaccare la stessa Costituzione.

Nel definire le caratteristiche dell’ascesa di Silvio Berlusconi alla presidenza del Consiglio e a poteri amplissimi, occorrerebbe astenersi dal sopravvalutare il suo monopolio sui mezzi di comunicazione di massa, per quanto indubbio. Tale monopolio, di cui Craxi incoraggiò la formazione, avrebbe a mio parere un impatto circoscritto se non si sommasse a una composizione sociale profondamente alterata. La volgarità della programmazione delle reti televisive di proprietà di Berlusconi (e oggi anche delle reti pubbliche cadute in sue mani) è fuor di discussione, ma trova rispondenza nella volgarità culturale propria dei ceti medi giunti a “coscienza di classe”.
La parola d’ordine “arricchitevi!” non poteva che creare legioni di parvenus, edonisti in privato e mancantii, a livello sociale, di qualsiasi etica — proprio come era avvenuto in Inghilterra nel periodo thatcheriano. Rispetto al conservatorismo tradizionale, manca loro non solo la dignità aristocratica, ma anche l’intelaiatura morale legata al mondo della produzione, sia pure visto da un’angolatura padronale. Le vecchie virtù capitalistiche del risparmio, della moderazione, del reinvestimento saggio e prudente sono spazzate via.
Del resto, quale rapporto diretto con la produzione possono avere stuoli di avvocati, di notai, di assicuratori, di operatori dell’informatica, della comunicazione e dello spettacolo, di imprenditori dell’edilizia, di giocatori di borsa usi a far soldi con i soldi? Quale etica può nascere da tutto questo? E se si tratta di quadri o manager legati all’universo produttivo, la facile prospettiva di ricavare denaro dalla manodopera sottocosto dei paesi dell’Est, o di spostare l’aziendina in qualche regione povera del mondo resa accessibile dalla mondializzazione, basta a distoglierli dall’antica fandonia liberale per cui la ricchezza di una minoranza può tradursi in ricchezza sociale, per intrinseci meccanismi a cascata.
Non sono dei fascisti, costoro: sarebbe troppo impegnativo. Sono invece semplicemente dei cinici. Non cercano alibi alle loro azioni: il più forte e fortunato vince, questa è l’unica regola. Chi perde si arrangi, la società non è fatta per lui. E se ci sono leggi ispirate a concezioni moralistiche obsolete, basta ignorarle o cancellarle. Sono i rapporti di forza che fondano il diritto. Quest’ultimo è acquistabile come ogni merce in circolazione. Una volta che lo si sia fatto proprio, può essere manipolato a piacere.
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A fronte della sua base sociale, Berlusconi fa quasi la figura dell’idealista. Nella sua pochezza intellettuale (di cui sono spia gli incidenti grotteschi di cui si rende protagonista a ripetizione), forse crede davvero nella sua missione salvifica; forse pensa sul serio di essere alla testa di una crociata contro un comunismo di cui lui solo scorge traccia. I suoi seguaci del comunismo se ne fottono, così come dell’ideologia in generale. A loro basta un afflusso di denaro liberato da ogni ostacolo. Votano Berlusconi per questo, non per altro; meno che mai perché siano vittime di una manipolazione televisiva.
E’ vero che Berlusconi, per governare, deve trascinarsi dietro alleati xenofobi, post-fascisti e cattolici integralisti. Non va confuso con questi residuati: per lui sono più che altro uno scotto da pagare al sistema maggioritario cui deve le sue fortune. E’ anche vero che, in politica estera, segue pedissequamente gli Usa. Nemmeno qui ci si deve lasciare fuorviare. Berlusconi non ha alcuna politica estera. Gli incontri internazionali sono per lui ritrovi tra amiconi, dove va per raccontare barzellette o dare consigli ispirati al più generico buonsenso. Se ha partecipato all’invasione dell’Iraq, lo ha fatto solo quando ha pensato che la partita fosse chiusa, con lo scrupolo di tenere i soldati italiani bene al caldo.
Berlusconi non è quasi nulla di ciò che gli si attribuisce. Domandare a lui cosa pensa del revisionismo storico, della resistenza, dell’olocausto, è come porre le stesse domande a una delle ochette candidate al titolo di Miss Italia. Con l’unica differenza che, invece di un farfugliamento, si otterranno battute da Bar Sport.
Berlusconi è una cosa sola: economia. Liberismo estremizzato, smantellamento delle forme di coalizione dei lavoratori, fluidità totale dei mercati e della manodopera, ridimensionamento del Welfare, contrazione dell’imposizione fiscale diretta a favore di quella indiretta, fine dei vincoli (da quelli ambientali alle normative antimafia) per le imprese. Questo è Berlusconi, nella sua essenza.
Poi, certo, a tutto ciò il Cavaliere aggiunge il gusto antico degli italiani per la commedia dell’arte, l’irruenza del tifoso da stadio, la compiacenza strumentale verso quella malattia nazionale dell’Italia che è il cinismo. Ciò non toglie che egli sia, principalmente, il rappresentante nello stivale del lascito di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, attraverso la mediazione tutta locale del suo maestro Bettino Craxi.
Ciò fa di Berlusconi un problema europeo: ovunque, magari in forme meno pittoresche, sono all’opera forze che professano la medesima ideologia, si chiamino socialdemocratiche o conservatrici. E ne fa un problema per l’opposizione italiana, nelle sue componenti maggioritarie: finché queste ultime faranno propri i capisaldi del programma del Cavaliere, sebbene in forma più blanda e più rispettosa dei vincoli costituzionali, non si vede quale alternativa concreta possano rappresentare.