giapcover.jpgdi Giuseppe Iannozzi

giapwm.jpgNel 1997, ne La Quarta guerra mondiale, il sub-comandante insurgente Marcos scriveva: “La globalizzazione moderna, il neoliberismo come sistema mondiale, deve essere intesa come una nuova guerra di conquista di territori. La fine della III Guerra Mondiale, o “Guerra Fredda”, non significa che il mondo abbia superato il bipolarismo o che sia stabile sotto l’egemonia del vincitore. Al termine di questa guerra si è avuto, senza alcun dubbio, un vinto [il campo socialista], ma è difficile dire chi sia il vincitore. L’Europa Occidentale? Gli Stati Uniti? Il Giappone? Tutti questi? Il fatto è che il crollo dell’”impero del male” [Reagan e Thatcher dixerunt] ha comportato l’apertura di nuovi mercati senza padrone. Era necessario, pertanto, lottare per prenderne possesso, conquistarli… Se la Terza Guerra Mondiale è stata tra il capitalismo e il socialismo [capeggiati dagli Usa e dall’Urss, rispettivamente], con scenari alterni e differenti gradi di intensità, la IV Guerra Mondiale si fa ora tra i grandi centri finanziari, con scenari totali e con una intensità acuta e costante.” Ora io, in questa sede, non intendo fare una recensione a Giap! , ma intendo invece specificare, che in questo momento storico, il lavoro del collettivo Wu Ming si configura come un libro estremamente importante, un testo che dovrebbe essere letto con attenzione estrema: ci si dovrebbe anche soffermare a pensare, a mettere in discussione noi stessi e le nostre azioni passate presenti e future, ogni volta che terminiamo un capitolo.

Stiamo già combattendo contro la Quarta Guerra Mondiale? Temo che la risposta non possa che essere affermativa. L’impero del male è risorto, non è solo quello di Bush e Blair, non è solo quello di Saddam Hussein e Usama Bin Laden, è anche, e forse soprattutto, quello in cui ci rechiamo a lavorare, quando evitiamo di prendere posizione, quando accettiamo che la società può fare a meno di noi e della nostra voce, del nostro dissenso. Tacere è cooperare. Giap! è una raccolta di testi che invadono arte, società e politica, è “valore aggiunto”. Dove collocare Giap!? Tra i saggi, insieme a Che Guevara e il sub-comandante Marcos, tra la fiction o la filosofia, o “dove” ancora? In nessun reparto, nessuna etichetta: il collettivo Wu Ming ha dato il primo vero organico contributo “per combattere la Quarta Guerra Mondiale che stiamo vivendo”. Non si parla di manualistica, si parla di idee chiare e concrete che comprendono tutto lo scibile umano, idee che analizzano con spirito critico il nostro momento storico e che inducono a riflettere, perché se la storia di questi ultimi tre anni è stata quel che è stata, la colpa è anche nostra che non ci siamo impegnati abbastanza affinché potesse essere diversamente.
Non guardate al collettivo Wu Ming come a degli eroi, perché questa prospettiva non la accetterebbero: pensate invece a loro come a “noi”, a quel “noi” che non abbiamo avuto il coraggio e l’intelligenza di palesare.

giapwm2.jpg“Giap!”: ancora oggi qualcuno si interroga, qualcuno non ha ben capito, qualcuno fa finta di ignorare “Giap!”, poi c’è chi si ritrae imbarazzato ed evita di dire la sua: ora vi chiedo, ingenuamente, ma “Giap!” per chi è stato scritto?

Per quella che – “rubando” e modificando un’espressione cara a Paco Ignacio Taibo II° – abbiamo chiamato la “repubblica democratica dei lettori”, quella che abbiamo incontrato in questi anni in giro per l’Italia e non solo, quella con cui teniamo tentacolari contatti giornalieri tramite il sito e la newsletter, quella che interferisce positivamente col nostro modo di scrivere e di narrare offrendoci continuamente nuovi spunti, dubbi, motivi di trionfo o di perplessità, filamenti di storie, echi di conversazioni lontane nel tempo… Di tutto questo forniamo sintesi temporanee, precarie, è quello il lavoro del narratore, del cantastorie, secondo noi: essere il nocchiero al centro della bufera popolare, stare al centro dei flussi di informazione e immaginazione, setacciare l’aria e l’elettrosmog, operare da “riduttore di complessità”. Con “Giap!”, idea proposta a Tommaso de Lorenzis (o Lorenzo De Tommasis?) dal nostro amico Giangi, abbiamo inteso fornire una primissima sintesi delle sintesi, tracciare un percorso tra i mille appunti di lavoro decollati dai nostri cassetti dacché esiste la nostra band. “Giap!” consente alla “repubblica democratica dei lettori” di trarre un sunto del lavoro fatto sinora insieme a noi, e indica le direzioni lungo le quali ci muoveremo tutti insieme, continuando a raccontare storie.

Il libro è stato curato da Tommaso De Lorenzis: tre anni di articoli, racconti, interventi, interviste. In tre anni molta della nostra storia è cambiata: è giusto dire che la società è rimasta ferma all’anno 2000? Io credo che la nostra società si è adoperata per portare avanti la conoscenza ma solo in ambito tecnico, mentre poco o nulla è stato fatto per migliorare la qualità della vita sociale, culturale e intellettuale. “Giap!” offre delle risposte o delle soluzioni?

Raccontare serve a porre (molte) domande e dare (qualche) risposta usando vicende emblematiche: i sogni interpretati da Giuseppe, le mille e una storie di Sheherazade, le parabole raccontate da Gesù, le storielle zen, le favole studiate da Propp, i casi di cui Freud scrive i resoconti, i miti degli eroi studiati da Campbell, le biografie trasformate in ballate popolari: le tappe di una vita o di tante vite, messe una in fila all’altra, contengono archetipi, memi, nuclei di riflessione esistenziale in forma di “Che fare?”, cosa farà Pollicino, cosa faranno Hansel e Gretel, con che trucco Robin Hood parteciperà al torneo di tiro con l’arco? Questo è un sapere che non si riduce alla Tecnica (codesto spauracchio di molte filosofie novecentesche) ma alle “tecniche” che chiunque può padroneggiare per raccontare bene. Una vita che abbia qualità è una vita dove ci si raccontino storie, con il raccontare e l’ascoltare storie acquista un senso e un contesto qualunque vicissitudine della tua vita.

Come si è orizzontato Tommaso De Lorenzis per riunire il materiale di “Giap!”?

Il suo è stato un corpo-a-corpo con ciascun numero di Giap, più di un centinaio di numeri dal 2000 a oggi. Se li è riletti tutti di fila, ha isolato alcuni grumi tematici più consistenti, ne ha fatto una griglia di sezioni che è stata modificata molte volte: “Giap!” è un libro che, nel suo farsi, è stato parecchio incalzato dagli eventi. La selezione è cambiate diverse volte, testi si aggiungevano o si volatilizzavano… Il lavoro di selezione è durato un anno e mezzo. Dopodiché Tommaso ha scritto l’introduzione.

Nella “Dichiarazione di intenti” del Gennaio 2000 dichiaraste: “Wu Ming intende valorizzare la cooperazione sociale tanto nella forma del produrre quanto nella sua sostanza: la potenza del collettivo è allo stesso tempo contenuto ed espressione del narrare.” Rimanendo fedeli a questa ottica, “Giap!” cosa rappresenta? Chi rappresenta?

Quella che sopra abbiamo definito “repubblica democratica dei lettori”, per l’appunto.

Controinformazione e no copyright. Le storie sono di tutti, “le leggi che regolano la proprietà intellettuale rappresentano la camicia di forza, repressiva e anacronistica, paradossale e inefficace, alla produzione di intelligenza, alla cooperazione e allo scambio di risorse e saperi come open source, sorgente aperta e a disposizione dello sviluppo della comunità”. In questo contesto “Giap!” apre nuove strade verso la cultura e la sua diffusione a tutti i livelli, ma io sono scettico: il povero intellettuale o artista che sia, come farà a vivere del suo lavoro?

Noi viviamo del nostro lavoro. La maggiore circolazione del sapere non dissipa bensì aumenta la ricchezza sociale e, di conseguenza, anche quella di cui ciascuno di noi può godere. Molti programmatori di GNU/Linux vivono del proprio lavoro. I nostri libri vendono di più, non di meno, per il fatto di essere liberamente riproducibili. Ciò che funziona è il passaparola. La “pirateria” non fa che aumentare la popolarità di un artista o di un intellettuale, il “plagio” è necessario perché le idee fecondino il maggior numero di teste possibile, così si alza il livello di comprensione generale, e ciò fornisce nuovi spunti all’intellettuale, che produrrà le sue sintesi partendo da un contesto migliore.

giapgiuliani.jpg“Giap!” è anche memoria politica e sociale: si parla delle contestazioni contro il G8, della morte di Carlo Giuliani, dei movimenti pacifisti. Che senso ha contestare se la contestazione si limita a schiamazzi in piazza e a bandiere lasciate al vento come moda sventolata? Recentemente Giovanni Lindo Ferretti ha detto: “La pace non è una soluzione, è una parte enorme della questione. La condizione umana è contingente, determinata da una serie infinita di problemi. Non accettare il fatto che il mondo vive una serie infinita di cambiamenti incredibili e veloci, urlare Pace!, Pace! in un tempo in cui molto intorno a noi è guerra, è come urlare Sanità! Sanità! in una corsia d’ospedale. Tutti noi vorremmo vivere in pace, tutti noi vorremmo essere sani: non sempre è possibile, non sempre è plausibile, non sempre ce la fai.” E la vostra posizione in merito, qual è?

Bisognerebbe conoscere il contesto in cui Ferretti ha inserito quella frase. Così isolata, non ci sembra granché come aforisma o apoftegma, perché non si capisce dove voglia andare a parare, e fa pensare – oltre che a un certo snobismo che del resto si confà al personaggio – a un grosso equivoco di fondo. La “pace” richiesta da chi ha manifestato nei mesi e negli anni scorsi non è una pace conservatrice, non è il “lasciatemi in pace”, è una pace fortemente progressiva, vista come condizione per far procedere il mondo in una direzione diversa da quella, spaventosa, impressagli da Bush e da chi lo manovra. E’ una pace fortemente costruttiva, cooperativa, fondante, è potere costituente. La richiede non chi vuole restare accucciato in casa sperando che il mondo esterno non vi penetri, ma chi è costitutivamente nel mondo esterno, per strada, ha già attivato reti sociali, ne è parte, respira con esse.

“Nessun medium annulla i precedenti, li ridefinisce. La carta ha ancora una sua funzione insostituibile. Trasformare in libro la newsletter vuol dire storicizzarla, tornare sopra alle emozioni del momento per rimeditarle…” Io sono un po’ tonto, non sempre afferro quanto mi viene spiegato. “Giap!” ha subito venduto benissimo, e io sono rimasto sconcertato e penso che tanti altri abbiano provato la mia stessa sorpresa: un libro vende ed è una raccolta (!) di newsletter. Storicizzare la newsletter: come è possibile un simile processo?

Tutti i nostri libri, non soltanto “Giap!”, sono scaricabili gratis dal nostro sito gratis e in versione integrale, eppure sono tutti dei best-seller. Lo sconcerto prodotto da “Giap!” tra gli addetti ai lavori è maggiore perchè non si sa bene come definirlo: è saggistica? E’ narrativa? E’…”varia”? Per quanto riguarda la storicizzazione, è una parola grossa, ed è un’impresa con cui si cimenteranno soprattutto altri dopo di noi. Noi abbiamo voluto offrire una sintesi ragionata, dei percorsi di lettura.

Essendo io un po’ tonto, mi è sorto un dubbio ed è questo: se io storicizzo le mie idee, forse le consegno alla storia ma faccio anche atto di svendita. Non ho le idee molto chiare… Una spiegazione circa questo punto, credo toglierebbe molti dubbi a me e a tanti altri che come me hanno fra le mani un libro vero, di carta.

“Giap!” non è una speculazione, uno di quei “Greatest Hits” che si pubblicano tra un album e il successivo per tenere in movimento il mercato, il più delle volte contenente un solo inedito che poi diventa il singolo (ma c’è ancora qualcuno che li compra, i singoli?). Tutta l’attività di Wu Ming da quando esiste converge in questa sintesi temporanea, e il lavoro di sintesi è stato un lavoro creativo a tutti gli effetti. Avere quei testi raccolti in un volume è un considerevole valore aggiunto. Un recensore ha scritto che “Giap!” è “il libro più Wu Ming dei Wu Ming”. Siamo d’accordo.

I movimenti, non li ho mai compresi appieno. In questi anni ne sono sorti tanti e quasi tutti avevano delle idee da portare in piazza. Ma io ho la netta impressione che le idee siano rimaste tali e non si sono tradotte in realtà. La guerra in Iraq, ad esempio, ci ha toccato da vicino, ha smosso milioni di coscienze, ma la coscienza da sola è insignificante se è incapace di diventare atto concreto di ribellione. Oggi io vedo l’Iraq in mano ad irakeni prezzolati dagli americani, vedo l’Iraq invaso dagli americani che ne hanno fatto una loro colonia. Perché non si combatte contro questa insulsa colonizzazione con qualcosa di più di uno slogan che grida “Pace!”?

Gli ultimi movimenti mostrano al mondo delle pratiche, non delle idee. A prescindere dai giudizi che uno può esprimere, il software libero e il copyleft sono pratiche, non idee. Il “consumo critico”, i boicottaggi e il “commercio equo e solidale” sono pratiche, non teorizzazioni. Il “bilancio partecipativo” è una pratica, come lo è l’obiezione fiscale, come lo è fare volontariato, fare cooperazione internazionale, corridoi umanitari, fare il missionario in Africa. La comunicazione-guerriglia è un insieme di pratiche. L’autorganizzazione attraverso le reti è una pratica. Mettere su un blog è una pratica, non una teoria. Che poi queste pratiche siano ancora insufficienti è un altro paio di maniche, ma è banale operare una reductio ad unum e presentarle come un solo slogan urlato senza criterio e senza conseguenze.

Il prossimo romanzo collettivo dei Wu Ming prenderà spunto dall’osservazione del movimento contro la guerra in Iraq: «Discutere su alcune dinamiche del movimento per la pace ci ha fatto venire molte idee. E abbiamo deciso di scrivere un western. D’altronde, nella realtà, c’è già George W.Bush che vorrebbe portare il mondo ad un “Mezzogiorno di fuoco”. Noi, invece, vogliamo scartare da questa prospettiva. E circondare la carovana insieme agli indiani». Un bellissimo spunto, ma comunque uno spunto… commerciale? Sembra che la guerra, in ogni tempo, abbia prodotto spunti di riflessione politici e sociali poi tradotti in romanzi? Perché? Ed è giusto che così sia?

Da che altro prendere spunto se non dal conflitto? La realtà è conflitto, non è mai pacificata, questa intervista è conflitto, unità e lotta dei contrari, dialettiche che funzionano e dialettiche che si inceppano. E’ così l’amore, è così l’odio. Le guerre sono vicissitudini umane come le carestie e le malatie, gli esodi e i nuovi insediamenti, i naufragi e le fondazioni di nuove comunità, le invenzioni e le amnesie. Un cantastorie deve cantare tutto questo o una significativa parte di esso, altrimenti la comunità ha mille modi per revocargli il “mandato”.

In “Giap!” parlate anche del Subcomandante Marcos e dell’esercito zapatista. Nutro profonda ammirazione intellettuale e politica nei confronti del Subcomandante: esiste forse il rischio che venga idealizzato e/o strumentalizzato come è successo con Che Guevara? E da parte di chi? Dei giovani in piazza, nei centri sociali, da chi è contro perché crede sia giusto essere CONTRO? La mia profonda, immatura paura è che venga ridotto a una semplice bandiera.

Lo zapatismo è già stato strumentalizzato e banalizzato, in Italia ne circola una versione caricaturale e distorta, ad opera di alcune correnti – per fortuna, ormai marginali – del ceto politico di “movimento”. Le metafore zapatiste sono diventate boli di merda in bocca a certa gente. Lo zapatismo non riguarda “l’essere contro”, è una particolare e feconda articolazione del rapporto tra ribelle e comunità, è per il 90% pars construens.

“Giap!” è uscito nella collana “Stile libero” per Einaudi. Molti critici non sanno come “catalogarlo”. Per me non è importante sapere se è un saggio, un romanzo, una antologia o che altro. Ma volendo dare una indicazione a questi critici, cosa direste loro?

E’ una raccolta di ballate, o una cassetta degli attrezzi. Ogni raccolta di ballate è, nell’atto, una cassetta degli attrezzi. Ogni cassetta degli attrezzi è, in potenza, una raccolta di ballate: ciascun utensile (cacciavite, martello, lima, sega, pialla…) può raccontare una o più storie, i graffi e i segni e le sdentellature sono come incisioni in cuneiforme su tavolette di argilla. Bisogna imparare a leggere tutto.

Infine, “Giap!”… In questa intervista molte sono state le mie provocazioni, ma una cosa voglio dirla ancora e questa volta senza alcun tono studiatamente polemico: “Questo libro dovrebbe essere il primo mattone per costruire una coscienza collettiva che disegni il nostro futuro.” Dico giusto o sto idealizzando il vostro pensiero? E se anche vi idealizzassi, sarebbe poi così grave?

Il rischio è sempre che si instauri una relazione come quella tra John Lennon e Mark Chapman. Essere accoppato dal tuo più grande fan. No, nessuno ci idealizzi, siamo dei poveracci come tutti voi, gente che cerca di cavarsela come può.

Ci sarà un seguito a “Giap!”? Io, sinceramente, spero proprio di sì. E’ un libro importante, un libro che mancava e che mai era stato scritto. Sono occorsi centinaia di anni perché il collettivo Wu Ming nascesse e desse alle stampe il primo vero pratico contributo a… Dovreste dirmelo voi.

Quest’ultima domanda è molto in stile Genna… Giù la maschera, ti abbiamo scoperto!