delillocosmopolis.jpgcosmopolis.jpgStrano destino critico, quello di Don DeLillo, da tre anni a questa parte. Chiunque sia sano di mente riconosce in lui uno dei pesi massimi della narrativa contemporanea mondiale, però da quando si è dato alla misura brevissima, dopo il dispendio di epica fluviale in Underworld, dicono che è bello e gli tirano le pietre. Ora, comprendiamo tutti il fascino che esercita sulla gente di poco senno un’opera tanto complessa, un’autentica cattedrale della letteratura qual è Underworld: il poco senno e la molta quantità danno adito a uno stordimento piacevole, l’enorme mole placa l’invidia gretta a favore di una sensazione di sconforto personale – e l’autore diviene così inimitabile, grandissimo quanto il numero di pagine che ha accorpato in un unico pluriromanzo. Ci cascano in tanti. Reazione esotica, poiché nessun animale razionale pensava che scrivere il grande romanzo significasse scrivere un romanzo di molte pagine. Riassunto: bisogna essere idioti per non comprendere che Underworld, quanto a profondità, equivale a Body Art e a quest’ultimo Cosmopolis.

DeLillo ha raggiunto una fase sapienziale della sua esperienza narrativa. I Veda si condensano in pochi sutra, midrashim minimi equivalgono alla Torah intera – e così Cosmopolis realizza in profondità il medesimo affondo epico di Underworld. O si capisce questo o niente si è capito di Don DeLillo. Che la critica anglosassone, ciclicamente alla ricerca di una vittima sacrificale, non l’abbia capito, è un problema che non tocca la stolidità di coloro che in Cosmopolis leggono soltanto un breve e superfluo esercizio di stile (e ci mancherebbe: come DeLillo, al mondo, non scrive nessuno – perciò grandissimi complimenti all’eccelsa traduttrice italiana, Silvia pareschi). Ma che non si comprenda dove e come l’autore di Libra stia da anni compiendo un lavoro esorbitante sulla grammatica delle strutture e sull’allestimento di allegorie shakesperiane del nostro tempo, è una pecca critica che merita un cattivo karma nella prossima esistenza.
Stiamo parlando di uno smilzo libretto? Col cavolo: sono quasi duecento pagine. Stiamo parlando – per rimanere alle accuse della critica britannica e americana – di una storia irrealista? Beh, qui bisogna intendersi circa la categoria di realismo, però è vero che, da qualunque parte si approcci Cosmopolis, non è certo di irrealismo che si può accusare DeLillo. In pratica, cos’è Cosmopolis? E’ la storia di una giornata emblematica, tutta trascorsa in Limousine superaccessorriata, di un tycoon della finanza planetaria di appena ventotto anni. Oh, per una vittima della New Economy una storia simile è quanto di più realista si possa inscenare – anche se tutto è assurdo. Variare sull’assurdo, penetrarlo e sbudellarlo – il che è proprio ciò che fa DeLillo – è opera di ultrarealismo, non di irrealismo. Bizzarra anche l’accusa rispetto a una società che ammira da anni un’icona spettacolare come il Gordon Gekko interpretato da Michael Douglas in Wall Street. Questi americani, gente assai strana!: alienati dalla fiction, accusano di finzione il realismo più profondo che la letteratura sa esprimere. Mah.
Tanto per dirne una: a poche pagine dall’incipit, Eric Parker, il problematico e iperfilosofico Riccardo III che è il protagonista di Cosmopolis, mentre gira nel traffico newyorkese, si trova accanto alla Limousine, in coda, un taxi con la sua giovane moglie poetessa, che ancora non si è scopato. Si comprende bene che, a chi non abbia una sensibilità allegorica, questo appaia irreale. Poiché però la sensibilità allegorica è la sensibilità letteraria tout court, chi non capisce cosa sta facendo DeLillo non comprende la letteratura tutta. DeLillo fa questo: struttura una scena assoluta, il cui magnetismo è esercitato da un uso sfrenato di una parola universale sull’uomo occidentale contemporaneo. Questa scena assoluta ha bisogno di occasionali e poco importanti contorni, magari improbabili, proprio come la scena teatrale, dove basta una sedia per fare capire che si è dentro un luogo e che il mondo è fuori. In questo caso, non si sa più bene dove sia il dentro e il fuori, cosa sia una cosa, se il denaro esista come simbolo o come concretezza, se la rappresentazione sia più solida della cosa rappresentata, cosa significhi percepire oggi, se l’uomo vive sopravvive o è in fase terminale e agonica. E’ lo Shakespeare del tempo in cui proiettano la finta icona del Male sugli schermi di tutto il pianeta, questo. E’ l’ultimo manicheismo: quello della sussistenza materiale elevata non più a norma morale, ma a norma di una nuova fisiologia, di un nuovo meccanicismo. Non ci sono novità nel conservare: Cosmopolis è un romanzo contro il reazionariato dei neoconservative metafisici, degli strutturatori della falsità palese con cui il pensiero unico si è reso materialmente colpevole delle storture della Storia.
Anziché farsi prendere dalla sindrome dell’apocalisse di cui sono vittime coloro che pensano di essere gli ultimi, DeLillo ci regala l’allegoria finale: quella infinita. Allegoria dell’infinitudine dell’uomo – esercizio in cui il materialismo della sua poetica viene coniugato con la sua tentazione spiritualista (però antimetafisica). Vale a dire: DeLillo al suo meglio. Il meglio di DeLillo, e prima o poi serie sedi critiche lo urleranno con forza, era proprio l’assolutismo psichico di Body Art, di cui questo Cosmopolis costituisce la metà mancante, complementare, la dimostrazione del teorema narrativo per cui, al di là della psicologia, aderendo alla materia fino a penetrarla per osmosi, si giunge alle ozonate latitudini del medesimo assolutismo psichico. La protagonista femminile di Body Art è l’altra metà dell’androgino che affianca l’Eric di Cosmopolis. Ora che le due metà sono viste, ci attendiamo da DeLillo l’opera di sintesi, il perfetto androgino letterario che incombe sui nostri tempi e preme per nascere.

Don DeLillo – Cosmopolis – Einaudi – 16.00 euro