cyberzone.jpgA proposito di Ballard e de Il condominio, ripubblicato recentemente da Feltrinelli: sul numero della rivista CYBERZONE attualmente in edicola (il 17, per la precisione), è stato pubblicato uno splendido saggio di Antonio Caronia che, oltre a essere uno dei massimi esperti di cyber e underground in Italia, ha spesso tradotto i romanzi di Ballard. Su questo numero di CYBERZONE (che ringraziamo per il permesso di pubblicazione e di cui vi invitiamo caldamente a visitare il sito), altri prestigiosi interventi di Umberto Eco, Toni Negri, Philip Golub, Sergio Brancato, Salvatore Palidda, Christian Marazzi, Federica Timeto, Franco Marineo. [gg]

caronia.jpgLE RADICI IMMAGINARIE DELLA GUERRA
di Antonio Caronia

ballardcondominio.jpgI situazionisti definirono “psicogeografia” lo “studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico, disposto coscientemente o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui.” Nonostante il nome e la precisazione contenuta nella definizione (“disposto coscientemente o meno”), il termine finì per applicarsi meno all’interazione fra ambienti naturali ed esseri umani, e più all’esperienza urbana, collegandosi quindi col termine “deriva” (“modo di comportamento sperimentale legato alle condizioni della società urbana: tecnica di passaggio frettoloso attraverso vari ambienti.” ). È in questo senso, e con un détournement che, trattandosi di terminologie situazioniste, mi auguro il lettore mi conceda, che vorrei parlare di una componente “sociogeografica” nell’opera di James G. Ballard.

Tutta l’opera di Ballard potrebbe definirsi, in senso lato, “psicogeografica”. Essa concerne, infatti, il rapporto fra ambiente e psiche individuale e collettiva: attraverso la forzatura e l’estremizzazione consentitegli dall’ambientazione fantascientifica, Ballard esamina le conseguenze sulle motivazioni e il comportamento umani collegate alle trasformazioni tecnologiche della modernità sviluppata, ribaltando in genere il concetto di malattia mentale (o di disagio psichico), che nelle sue opere diventano (inseriti nel contesto di un ambiente in rapido e catastrofico mutamento) uno strumento di comprensione individuale, di autocoscienza, di abbandono potenziato al flusso della mutazione. Nella prima fase della sua produzione, diciamo durante gli anni Sessanta, tutto ciò avviene in un ambiente planetario, e i problemi dell’organizzazione sociale, che pure sono presenti, rimangono sullo sfondo, mentre l’attenzione prevalente è concentrata sui movimenti interni alla psiche, sia pure una psiche collettiva, secondo una vulgata – magari non filologicamente correttissima ma espressivamente efficace – della psicanalisi in versione junghiana. In queste opere (in particolare nella cosiddetta “tetralogia degli elementi” costituita dai romanzi The Wind from Nowhere [1962], The Drowned World [1962], The Drought [1964], The Crystal World [1966]) si realizza così un affascinante e personalissimo cortocircuito tra psiche e pianeta. Ciò che modella il mutamento della psiche dei personaggi sono direttamente grandi eventi catastrofici che interessano tutta la terra, o porzioni di essa concepite come un ambiente integrale: rispettivamente il vento, l’inondazione, la siccità, nei primi tre romanzi, mentre nell’ultimo l’agente psicogeno è la misteriosa lebbra che cristallizza i tessuti e modifica il tempo (non a caso The Crystal World è il più complesso e inquietante fra questi romanzi). In alcuni racconti degli anni Sessanta il legame “psicogeografico” viene esteso alle vicinanze del pianeta tramite i viaggi spaziali: in questi racconti, infatti, sono le astronavi, le capsule spaziali, i satelliti artificiali che si presentano come nuove costellazioni , secondo una metafora che Ballard riprenderà più volte nei decenni successivi; e si rende più esplicita un’intuizione già presente in Il mondo sommerso, cioè la modificazione non solo dell’immaginario, ma dello stesso corpo dell’uomo in relazione alle modificazioni dell’ambiente (“l’astronomia dei sogni che affollano le nostre menti” ). Questa fase della produzione ballardiana culmina con i “condensed novels” scritti fra il 1966 e il 1969 e raccolti in volume in The Atrocity Exhibition (1970), e col romanzo Crash (1973), che sviluppa uno dei capitoli di quel libro.

ballardcar.jpgNel 1975, però, Ballard pubblicò un romanzo che rappresentava per certi versi una svolta rispetto alla sua produzione precedente e a una parte di quella seguente. Si tratta di High-rise (tradotto in italiano l’anno successivo da Urania come Condominium, titolo che il romanzo conserverà anche nella successiva edizione Anabasi del 1994). La prima novità, qui, sta nel fatto che Ballard concentra la sua attenzione su una porzione di mondo molto più limitata che nei romanzi e nei racconti precedenti. Il luogo dell’azione è infatti un grande palazzo di abitazioni di quaranta piani, e dall’inizio alla fine del libro tutto avviene, rigorosamente e senza eccezioni, in questo luogo. L’interesse dell’autore per le enclave, mondi in miniatura che appaiono completamente autosufficienti, specie di laboratori di inedite socialità colte nel momento del collasso o della crisi, si ripeterà in opere successive: da Running Wild, romanzo breve del 1988 (Un gioco da bambini, Anabasi 1992 e Baldini&Castoldi 1999), sino ai più recenti Cocaine Nights (1996, id., Baldini&Castoldi 1997) e Super-Cannes (2000, id., Feltrinelli 2000). L’altra novità di questi romanzi, che mi porta a caratterizzarli come “sociogeografici,” è che la dimensione indagata da Ballard è più esplicitamente sociale rispetto ad altre opere. In essi l’autore esamina infatti le condizioni e i meccanismi della convivenza sociale all’interno di quelle enclave, con particolare riferimento al ruolo della violenza e del crimine. Non che la violenza non sia presente in altre opere di Ballard, al contrario: solo che qui essa non è più l’espressione di una psiche individuale che si confronta senza quasi mediazioni con i miti e l’immaginario della contemporaneità (come in The Atrocity Exhibition e Crash), ma assume una connotazione marcatamente sociale, presentandosi come strumento privilegiato della socialità (Condominium), o come collante sociale fondamentale (Cocaine Nights, Super-Cannes) . Ma se in questi ultimi due romanzi la violenza viene praticata da piccoli gruppi, quasi delle società segrete che agiscono nelle microcittà costituite (rispettivamente) dagli agglomerati residenziali di villeggiatura e dalle cittadelle ipertecnologiche, in Condominium essa dilaga in tutta la collettività, e diviene un’esperienza generalizzata e devastante. L’assoluta normalità della situazione iniziale, l’assenza – praticamente – di ambientazione fantascientifica, confrontate con la situazione paradossale e apparentemente regressiva che si sviluppa nel corso del romanzo, hanno contribuito a fare di questo testo uno dei più amati dai lettori di Ballard.
Come spesso succede nei romanzi ballardiani, l’inizio del romanzo coincide con la fine, e l’autore ha così modo di enunciare subito il tema del libro e di incuriosire il lettore per la situazione che gli si prepara:

“In seguito, mentre mangiava il cane seduto sul balcone, il dottor Robert Laing ripensò agli insoliti avvenimenti che si erano succeduti all’interno dell’enorme condominio nei tre mesi precedenti. Adesso che tutto era tornato alla normalità, si stupiva che non ci fosse stato un inizio preciso, un punto oltre il quale le loro vite fossero entrate in una dimensione decisamente più sinistra. Con i suoi quaranta piani, mille appartamenti, supermercato, piscine, banca e scuola materna, il condominio offriva sufficienti occasioni per scatenare violenze e accentuare conflitti.”

Ballard non precisa dove sia situato questo enorme palazzone: lo colloca in una generica periferia di Londra, accanto ad altri quattro edifici consimili, ancora da terminare, che costituiscono l’unico sfondo esterno che compare (abbastanza di rado) nel romanzo. E neppure si preoccupa di darci una spiegazione della disgregazione, della rottura della normalità che a poco a poco si propaga nel condominio. Ne registra, con precisione e minuzia da cronista, i fenomeni emergenti e le tappe: le liti fra condomini di piani diversi per l’utilizzo della piscina da parte dei bambini; le lamentele per i party sempre più frequenti e rumorosi in vari appartamenti del palazzo; la protesta per la differenziazione dei parcheggi (gli abitanti dei piani più alti, in considerazione del maggiore percorso che devono compiere in ascensore, hanno diritto ai posti macchina più vicini al palazzo); l’allentamento delle minime norme regolatrici della convivenza, come le bottiglie e gli oggetti che cominciano a volare dalle finestre durante i party; i sacchi dell’immondizia che cominciano ad accumularsi negli spazi comuni. Questi episodi, senza un piano preciso né (sembra) una logica riconoscibile, a poco a poco si generalizzano, e creano nel condominio una spece di bellum omnium contra omnes, in cui le regole del mondo esterno vengono sospese, a vantaggio di dinamiche completamente interne a questo mondo chiuso. I legami col resto del mondo si fanno sempre più labili ed episodici (sempre meno gente, per esempio, va a lavorare), e gli abitanti del condominio passano sempre più tempo a casa, dediti a una endemica guerriglia tra bande che si aggregano e si disgregano in continuazione, la cui posta è il controllo di un territorio ridotto a pianerottoli, scale e ascensori. Il problema del cibo, come quello dello smaltimento dei rifiuti, si fa pressante, ma la gente sembra non rendersene conto. Consumate le scorte saggiamente accumulate all’inizio dei disordini, chiuso – dopo alcuni vani tentativi di conservare una normalità del tutto incongrua con la situazione – il supermercato, gli abitanti del condominio cominceranno a mangiare gli animali domestici. Ma presto l’acqua potabile scarseggia (le condutture sono bloccate), e anche gli animali domestici finiscono rapidamente. Quanto agli appartamenti, si trasformano in breve tempo in bivacchi, con i mobili demoliti per costruire barricate individuali (dietro la porta di casa) o collettive (sui pianerottoli).
Ballard non vede però in tutto questo il puro e semplice caos. Sentiamo il punto di vista di un personaggio:

“Ciò che più interessava a Royal era la constatazione che cominciava a emergere un nuovo, complesso ordine sociale […] basato in apparenza su piccoli gruppi tribali. […] Aveva così deciso di restare […], nella speranza di assistere e contribuire alla nascita di una nuova forma di società […], [di] uno schema di organizzazione sociale che sarebbe diventato il paradigma di tutti i giganteschi condominii dell’avvenire.”

Le dinamiche di costruzione e i conflitti interni a questo nuovo ordine sociale sono sintetizzate nei tre personaggi principali, che rappresentano altrettanti gruppi sociali (sarebbe improprio chiamarli “classi”, anche se ne hanno alcune caratteristiche) distinti in base a un parametro spaziale verticale, cioè al piano in cui è collocata l’abitazione.

In effetti, il condominio si era già diviso nei tre classici ceti sociali: alto, medio e basso. Il centro commerciale del decimo piano costituiva il netto confine fra i nove piani inferiori, col loro “proletariato” di tecnici cinematografici, hostess, piloti e simili, e la sezione mediana del condominio che andava dal decimo piano fino al trentacinquesimo. Questi due terzi centrali del fabbricato formavano la classe media, composta da professionisti con tendenze egoistiche ma malleabili. […] Più su, negli ultimi cinque piani, viveva la classe superiore: l’oligarchia discreta degli imprenditori e degli affaristi, delle attrici e dei baroni universitari […] Era la loro sottile influenza che teneva al suo posto la classe media, mettendole costantemente sotto il naso la carota dell’amicizia e dell’approvazione .

Robert Laing, il personaggio con cui si apre e si chiude il romanzo, professore di fisiologia alla vicina facoltà di medicina, da poco divorziato, abita al venticinquesimo piano – poco oltre la metà dell’edificio, cioè – e rappresenta la “classe media” del palazzo. Gli abitanti dei piani intermedi sentono, come gli altri, l’invidia per gli abitanti dei piani alti a cui attribuiscono (reali o immaginarie) tentazioni egemoniche, ma non hanno la forza di organizzare una vera scalata. Chi riesce a scalare il condominio a piedi – scala dopo scala, piano dopo piano, visto che gli ascensori sono ormai fuori uso – è invece Richard Wilder, un produttore televisivo che abita ai piani più bassi. Wilder è il personaggio più vistosamente marcato, anche sul piano visivo, dalla mutazione che serpeggia come un virus nel palazzo. Partito con l’idea di fare un documentario sulla situazione del condominio, Wilder capisce ben presto che quel documentario è più che altro un’occasione per rendere i vicini “consapevoli della propria identità.” La cinepresa che brandisce passando da un piano all’altro diventa perciò più un simbolo di lotta e di organizzazione “politica” che uno strumento professionale. Ma alla fine anche la cinepresa sarà abbandonata (simbolo dell’impossibilità di unire davvero le classi inferiori e quelle medie in una lotta vincente contro l’aristocrazia degli ultimi piani), e Wilder diventerà sempre più simile a un “neo-primitivo,” una via di mezzo tra un indigeno della nuova società tribalizzata e un mercenario, come a volte sogna di diventare, con il petto e le spalle nude dipinte da striature di vino rosso.
Wilder fallisce, quindi, nel suo tentativo di occupare i piani alti e di risolvere il confronto latente, che percorre tutto il libro, con Anthony Royal, l’architetto che ha progettato il condominio e ne abita l’attico. Royal, rappresentante dell’oligarchia dei piani alti, è il personaggio a cui Ballard attribuisce la comprensione più lucida e acuminata della mediocrità umana e immaginativa delle classi medie:

“[Royal] disprezzava [i condomini] per il loro buongusto. Il condominio era un monumento al buongusto, alle cucine ben disegnate, agli utensili e alle stoffe raffinate, agli arredi sempre eleganti e mai vistosi: insomma al genere di sensibilità estetica che quei professionisti colti avevano imparato dalle scuole di industrial design […]. Royal detestava questa ortodossia dell’intelligente. […] Avrebbe dato qualsiasi cosa per vedere un soprammobile volgare o un lavandino che non fosse immacolato. Li avrebbe considerati come un barlume di speranza nel futuro.”

In realtà neppure Royal uscirà vincitore dallo scontro. Né la sua intelligenza né i meccanismi di potere che mette in gioco per conservare l’egemonia sul suo gruppo lo salvano: emarginato dalla nuova sorellanza che si è installata ai piani alti (e che comprende anche sua moglie e la sua amante), finisce assurdamente ucciso da Wilder, con indosso la sahariana bianca che è stata per tutto il libro il simbolo del suo potere. Ma anche Wilder, subito dopo, finisce sotto i coltelli delle donne per essere probabilmente immolato in un rito antropofago. Fra i tre protagonisti del romanzo, a sopravvivere è solo Laing, lo scialbo professore che dopo tutti i suoi fallimenti è riuscito a instaurare un equilibrio, per quanto precario, con le donne. È da persone come lui che, forse, ripartirà una nuova fase di incerta normalità nel condominio.

Sebbene, come abbiamo detto, alcune delle idee di questo libro si ritrovino in Running Wild e nei romanzi degli anni Novanta, Ballard non ha mai più sviluppato un discorso così lucido e riccamente metaforico sulla società, sul ruolo del conflitto sociale, sulla genesi della guerra, come quello messo in scena in High-rise. Pare che qui Ballard si sia divertito a rovesciare come un guanto le tesi di Hobbes: non è nel mitico e ideologico “stato di natura” che si sviluppa il bellum omnium contra omnes, la endemica conflittualità sociale che per il pensatore inglese del XVII secolo avrebbe portato alla stipulazione del patto sociale e alla fondazione dello stato. Al contrario, è nelle condizioni del capitalismo sviluppato e ipertecnologico che i legami sociali tradizionali, svuotati al loro interno proprio da quello sviluppo e dal predominio dell’astrazione del denaro e della razionalità produttiva, possono dissolversi e dar luogo a una caricatura di società, in cui però una serie di pulsioni basilari dell’uomo, represse ma non cancellate dalla civiltà, possono riemergere.
La prima volta che Laing vede il plastico del progetto, rimane sconcertato: “sembrava un’architettura creata per la guerra, almeno inconsciamente.” Questa osservazione, gettata lì con nonchalance all’inizio del romanzo, prepara già l’atmosfera degli avvenimenti seguenti. “Il condominio,” aggiunge Ballard poche righe dopo, “era un’enorme macchina costruita per servire non la collettività degli occupanti, ma il singolo condomino, mantenendolo nel suo isolamento.” È questa caratteristica del condominio, la sua capacità di provvedere a tutte le esigenze del singolo, di proteggerlo e di avvolgerlo, che innesca il processo di allentamento dei vincoli. Garantendo in maniera quasi automatica la struttura sociale, il condominio esonera il singolo dal bisogno di reprimere le sue tendenze antisociali, che trovano così uno sfogo più libero.

Sicura dentro il guscio del condominio come i passeggeri a bordo di un aereo guidato da un pilota automatico, la gente era libera di comportarsi come voleva, di esplorare tutti gli angoli più bui che era capace di trovare. Sotto molti aspetti, il condominio era un campione di tutto quanto era stato fatto dalla tecnologia per realizzare l’espressione di una psicologia veramente “libera”.

Il simbolo (ma per certi versi anche l’espressione concreta) di questa caratteristica dell’ambiente artificiale e tecnologizzato in cui vivono gli abitanti, è la verticalità di questi edifici che sembrano voler “colonizzare il cielo.” Sradicati dall’orizzontalità in cui si è formata per migliaia di anni la psiche dell’Homo sapiens, espropriati della possibilità di percorrere la superficie del pianeta, gli abitanti del condominio sembrano quasi inconsciamente costretti a far rivivere una dimensione orizzontale in modo grottesco e parodistico all’interno della verticalità del proprio edificio, ricreando divisioni territoriali, zone di caccia, percorsi nomadici nella rigida gabbia dei pianerottoli e delle scale: e non è un caso che una delle prime strutture a venir sabotate, usate impropriamente e poi distrutte, siano proprio gli ascensori.
La vicenda di High-rise è, per concludere con una indicazione di ricerca, un ulteriore esempio di quel “carattere linguistico della metropoli” di cui ha parlato recentemente anche Paolo Virno. Nel suo essere una città in miniatura, il condominio incuba in sé una crisi che non viene da nient’altro, in ultima analisi, se non dall’oblio dei limiti del linguaggio, dal rifiuto della componente extralinguistica dell’esperienza, dalla pretesa astratta di costruire un linguaggio (una città, un palazzo) che sia integralmente trasparente. Un sistema di controllo integrale dei corpi affidato non più prioritariamente all’organizzazione razionale del lavoro, alle scelte e all’intenzionalità delle istituzioni separate (fabbriche, ospedali, carceri), ma agli automatismi di un linguaggio pervasivo e insensato proprio perché si pretende ubiquo e immediatamente “comunicativo”: un sistema di controllo dei corpi di questo genere non può che generare instabilità, rottura della solidarietà sociale, guerra.