di Sandro Modeo

gaddis.jpgSotto l’equivoca etichetta del “postmoderno” – i cui limiti filosofici e ideologici sono implacabilmente scandagliati in un lucidissimo testo di Terry Eagleton, geniale critico-saggista docente di letteratura inglese a Oxford (Le illusioni del postmodernismo) – viene catalogata anche buona parte della grande letteratura americana degli ultimi decenni, comprendente varie forme di narrazione mainstream e diverse operazioni sperimentali, fino a salire a derivazioni della science fiction come il cyberpunk e lo steampunk. Si può dire che tale letteratura sia stata scandita soprattutto da autori “fluviali”: da alcune memorabili macronarrazioni unificate da una comune direzione di ricerca.
Tutto comincia con William Gaddis (nella foto): The Recognitions, 1955 (in italiano Le perizie, superba traduzione di Vincenzo Mantovani, edito da Mondadori).

La vicenda di un gruppo di falsari guidati dal protagonista Wyatt (che riproduce in uno scantinato newyorkese capolavori di grandi fiamminghi come Memling, Bouts, Van Eyck e Van Der Weyden) è solo il motivo dominante di una polifonia che rappresenta l’impazzimento della società e della storia, l’annientamento metafisico del diaframma tra originale e simulacro, la polverizzazione delle differenze nazionali verso un’idea di “globalità”: il tutto attraverso una scrittura esuberante e drammatica, che ricorda L’uomo senza qualità per i complessi dialoghi e la Recherche per gli sfalsamenti spaziotemporali e lo sguardo onnniscente del narratore. Con Gaddis la narrativa americana assorbe dall’Europa il romanzo (o non-romanzo) “totale” in cui la dimensione conoscitiva prevale su quella descrittiva.
pynchon.jpgDopo Gaddis, Thomas Pynchon (qui a fianco); il cui a tratti imperforabile capolavoro (Gravity’s Rainbow, del 1973) è giunto in Italia da Rizzoli dopo una laboriosa gestazione traduttoria. E’ una lettura disperante per complessità tematica e linguistica. Il lettore (specie quello italiano, salvo rare eccezioni abituato all’affabilità del romanzetto borghese tradizionale) si trova davanti a numerosi traumi: ad una narrazione non causalistica (in cui gli eventi si susseguono per successione orizzontale) ma “relativistica” in senso einsteiniano (in cui gli eventi non hanno un passato, un presente e un futuro ma vengono amalgamati in un’unicizzante sincronicità); ad un inedito rimescolamento della materia (biologico e tecnologico sfumano i loro confini), e a somma di tutto uno stravolgimento ontologico del Soggetto e dell’Ambiente, che mette a dura prova i principi aristotelici di identità e non contraddizione. Per essere ancora più chiari: data la celebre formulazione di Putnam (“la mente e la realtà costruiscono insieme la mente e la realtà”) qui l’una e l’altra vengono gravemente alterate: la mente dalla psicosi (come quella del protagonista Tyrone Slothrop), la realtà dall’entropia (il progressivo disordine biofisico, come quello dell’acqua quando passa dallo stato solido al liquido): psicosi ed entropia che dissestano gli strati ontologici con la stessa violenza solo in un altro capolavoro di qualche anno precedente, Ubik di Philip K. Dick (1969).
fosterwallace.jpgE dopo Pynchon, anzi, da Pynchon – se sorvoliamo su William Vollmann, altro creatore di immani mostri narrativi – ecco David Foster Wallace (nella foto a fianco), di cui sono apparsi contemporaneamente in italiano due testi minori: una raccolta di scintillanti reportages giornalistici vorticanti attorno a una crociera (Una cosa divertente che non farò mai più); e una silloge di racconti (La ragazza con i capelli strani), tra i quali risalta quello, giustamente celebre, sul presidente Lyndon Johnson. C’è poi il ciclopico Infinite Jest: epopea mediatico-trash in cui tra citazioni da Kubrick (il personaggio-chiave di Hal), dal Bernard Wolfe di Limbo (i mutilati che compongono la congrega degli Assassini della Sedia a Rotelle) e ovviamente da Pynchon (Madame Psychosis), Wallace configura una degenerazione e un’alienazione cosmica irreversibili, metaforizzate nel progressivo, inconcludente abortire di tutte le voci narrative.
scheggeamerica.jpgUn breve racconto di Wallace (Tri-stan) compare infine nella splendida antologia avant-pop curata da Larry McCaffery e impeccabilmente supervisionata, per l’Italia, da Piergiorgio Nicolazzini (Schegge d’America). Si tratta di ventotto microfiction di scrittori per lo più delle ultime generazioni, anche se non mancano vistose eccezioni come Don DeLillo (qui a fianco; il suo romanzo Underworld, entrerebbe per molti aspetti nella categoria delle citate macronarrazioni). Leggendo gioielli cyberpunk come Tredici immagini di una città di cartone di William Gibson o Il riparatore di biciclette di Bruce Sterling; capolavori di visionarietà “acida” come Le incarnazioni dell’assassino dello stesso Vollmann; o ancora denunce della paranoia sociale come quelle di Mark Leyner (Oh, fratello!) o di Harold Jaffe (Controcouture) ci chiediamo una volta per tutte se abbia ancora senso distinguere tra “realismo” e “fantascienza”: o se invece una “narrativa proiettiva” non sia la forma più efficace – la sola possibile? – per rispondere alle sollecitazioni delle metamorfosi in corso e di quelle sopravvenienti.
[da Effe, dicembre 200]