di Dario Voltolini

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In certe giornate d’autunno la mia città si mostra bellissima nei colori e negli sfumati che richiamano alla vista sensazioni più tattili e in alcune circostanze addirittura palatali, come in una contrazione verso un nucleo intimo che raccoglie un calore ambientale in previsione del freddo.
Poco dopo l’alba i vapori che coprono il fiume si alzano sui fabbricati e quando il sole, sorto dalla collina, riesce ad alzarsi oltre la perla di vapore, perfettamente rotondo e chiaro si fissa nel cielo, al centro del suo grande albume che prende tutto, grigio, tenue e trasparente. Le vie che scendono al fiume si mescolano nell’indistinto, in lontananza. Le auto della polizia sono ferme nei giardini, le foglie strisciano sul suolo quando passa un taxi, sulla sua scia di aria in turbolenza. Dai bar escono, fatta la colazione di cornetto e cappuccino, gli impiegati degli uffici circostanti. Dalle bisarche in sosta scendono le automobili destinate alle concessionarie.


Sui giornali le notizie, i commenti, le fotografie. Una nuvola di odore inconfondibile si alza dal catrame appena posato sulla strada, caldo, impastato ai granuli d’asfalto. Io cerco per tutta la mattina di raggiungere la mia alta e lontana finestra sul lato Est: è piccola, con quattro vetri inquadrati nei legni, senza tende. Ma non riesco a superare gli ostacoli, non trovo la direzione. Dovrei scavalcare uno sbarramento di scatoloni pieni di scatoloni più piccoli, a loro volta pieni di altre scatole e scatolette di cartone. Li sposto, ma il risultato non cambia. Se li aggiro, trovo una scala che sale malferma. Provo a stabilizzarla, ma è cedevole, incerta, oscillante. Eppure la salgo e mi infilo nel corridoio. Però le porte sono arrugginite, non si aprono, oppure lasciano uno stretto spiraglio. Se anche lo forzo e passo, vecchie cataste di oggetti mi sbarrano il cammino. E una cortina di mobili sfasciati, di assi appoggiate a ferri lavorati, contorti e impolverati, mi impediscono di avanzare e di raggiungere la mia piccola finestra in alto. Cosa vedrei non lo so.
I colori si scaldano, si incendiano. Quando il vento alza la nebbia, sui fianchi della collina le prime zone ingiallite, arrossate, bruciate illuminano il verde ormai scuro. Ma la finestra orientale mi aspetta e io non la raggiungo. Cedevole, disposta a lasciarmi vedere ogni cosa spettacolare che possa pararmisi di fronte, resta chiusa. Non posso arrivare fino ad aprirla e la vedo solamente dal basso, a qualche metro di distanza. Il mio sguardo passa in diagonale attraverso i suoi vetri e non intercetta altro che un pezzo di cielo uniforme, spaccato in quattro pezzi.

Da La Stampa – Torino Sette, che si ringrazia.