di Giuseppe Genna

asofri.jpgDa non poco tempo spendo parole di ammirazione per Luca Sofri. A mio parere, negli ultimi mesi ha compiuto un’opera di divulgazione culturale straordinaria. Non avendo egli una carica narcisistica pari a quella che spinge il 90% degli scrittori ad ambire alla pubblicazione, entra nella letteratura contemporanea con discrezione e competenza; lascia parlare; pronuncia giudizi mai aggressivi e definitivi; fa conoscere l’autore e l’opera. Il tutto con una delicatezza che mi lascia stupefatto: si tratta di una cifra che in Italia conosciamo poco (io in primis) e che ha qualcosa di anglosassone (anche se, al giorno d’oggi, dare dell’anglosassone potrebbe suonare come offesa). E’ quindi con un lutto preventivo che mi accingo a un’opera di sgradevole e per nulla cinica risposta a Luca Sofri che, sul suo weblog Wittgenstein, assalta la redazione di Carmilla per un libero articolo di Nico Maccentelli sul padre Adriano. E’ argomento spinoso: pensi Luca che da anni Gianluca Neri, fondatore e genio pensante di Clarence, vuole scrivere un attacco ad Adriano Sofri da includere nella rubrica degli Intoccabili: gente contro cui in pochi hanno il coraggio di parlare. Ma Sofri non è mai entrato tra gli Intoccabili: lo hanno già toccato in altro modo.

Così come apprezzo la pacatezza di Luca Sofri, non apprezzo la glaciale e a mio parere strategica pacatezza del padre Adriano. Io sarei molto interessato alle memorie di Adriano, ma è che la situazione carceraria del suddetto – che a mio giudizio rivela la stupidità di un sistema giuridico basato sul sospetto e sul segreto in maniera assai dolorosa e concreta -, insomma questa specie di tragico equivoco impedisce ad Adriano di raccontarci le sue memorie. Ce ne restano quelle degli altri: per esempio quelle di Giampaolo Pansa, che ricorda perfettamente una ben più violenta declinazione della glacialità di Sofri. Si resta, come emblematizza la realtà italiana degli ultimi tempi, sul detto e sul non detto. E, a Sofri, va dato atto di avere irradiato il Paese di molto detto in questi anni. Contribuendo, comunque, a un infittirsi delle strategie del sospetto, sia a suo danno sia a suo favore. Situazione equivocissima di per sé e fin dall’inizio, quando fu intercettato il giro di telefonate tra mogli e amanti di Claudio Martelli e Giuliano Ferrara: una mobilitazione di potere e opinione che, nella sua genesi, avrebbe fatto gridare allo scandalo mafioso anche le meno candide anime che popolano questa straziata nazione.
Ma non è questo il punto in questione. In questione è un articolo di Adriano Sofri (che al momento è più grosso di suo figlio che è più grosso di Carmilla, come autotestimonia Luca): apparso su La Repubblica e su le Monde, l’articolo ha scatenato le ire di Nico Maccentelli. Luca Sofri oppone a Maccentelli una ragionevole filologia del pezzo di suo padre. A cui io, tuttavia, posso opporne un’altra altrettanto ragionevole.
Scrive Sofri sr.:”Ma ‘fermare la guerra’ adesso vuol dire rassegnarsi alla vittoria di Saddam Hussein, e con essa a una galvanizzazione micidiale della combattività islamista, e precisamente anche a una minaccia tragica su Israele”. Ora, io comprendo benissimo che il Foglio – uno degli organi che coraggiosamente porta avanti da anni una campagna di sensibilizzazione sull’ingiustizia della carcerazione di cui è vittima Sofri – è al tempo stesso la migliore voce del Likud in Italia: ma qui si sta esagerando. La minaccia tragica su Israele, stando alle linee semplificatorie del ragionamento di Sofri padre, sarebbe davvero effettiva? Si tratta di uno slogan altrettanto irrealizzabile di “Fermiamo la guerra”? Perché questa è la tesi basale del pezzo apparso su Repubblica: quello slogan è irrealizzabile. A un certo punto, poi, diviene deleterio se realizzabile: si convertirebbe in paralisi dell’occidente democratico, in miastenia del sistema che quella democrazia occidentale esporta in un contesto di “infiammazione jihadista nell’intera regione”. Ora, quella regione ha uno statuto giuridico o no? E’ un soggetto giuridico o no? E’ dalla vicenda israeliana in poi che non lo è più: abbiamo constatato con quale prezzo di sangue pagato da gente che adesso jihadisticamente si infiamma. Non era jihadisticamente infiammata, quella stessa regione, all’indomani dei massacri di Sabra e Chatila? Ma potrei risalire alla guerra dei sei giorni. E non sicuramente al crollo delle Torri. L’impotenza di quella fiammata jihadistica, che infiamma soprattutto le sedi legali/illegali del network terroristico islamico, tutte o quasi di stanza a Londra, è palese rispetto al paventato rischio di attentati da cui siamo allarmati da due anni a questa parte: attentati zero. Dev’essere proprio locale, quell’infiammazione: non ha esorbitato oltre la regione.
Mi riavvicino all’analisi testuale di Luca. Contro le ragioni di chi ha pubblicato su Carmilla (ragioni bollate di cretinaggine e malizia), Luca ricorda un passo del pezzo di suo padre: “Chi abbia ritenuto con angoscia e convinzione che la guerra all’Iraq (senza ma anche con la ratifica dell’Onu) fosse un gravissimo errore morale e politico”: come dire che Adriano ha vissuto con angoscia il prima il durante e il dopo dell’esplosione della guerra in Iraq. Solo che Luca si arresta nella citazione. Vediamo come continua Adriano: “… è messo di fronte, ora che la guerra c’è, e che si svolge in modo così impervio, alla questione di fondo del rapporto con gli Stati Uniti. Non so se la salmodia sull’antiamericanismo la metta a fuoco, o al contrario la offuschi”. Ora, mi pare, è davvero legittimo incazzarsi: io sono uno di quelli che salmodia contro i salmodiatori sull’antiamericanismo e sono parecchio irritato da questo atteggiamento snobbino, da intellettuale che eietta lapilli come se fosse un vulcano. E l’irritazione è motivata dalla declinazione che Sofri padre conferisce al cosiddetto antiamericanismo, nelle righe che seguono: “Se gli Stati Uniti sono il nemico principale dell’umanità (uso non a caso questo lessico già famigliare, e le sue appendici, la distinzione fra popolo e classe dirigente, Cia, multinazionali, complesso militareindustriale ecc.), la guerra all’Iraq apparirà, anche a chi ammetta volentieri che il regime iracheno è una tirannia feroce, come una insperata occasione per l’indebolimento o addirittura la sconfitta dell’imperialismo americano”. Da anni mi occupo esattamente di questo: di Cia, popolo, classe dirigente, ideologia neoconservative e jeffersonismo. E quel lessico, ricordo, non è a me che è famigliare; bensì è famigliare a chi, nel tempo e prima di piroettare grottescamente, più che fare l’opportunista della frazione coglieva le opportunità che i frazionati donavano a piene mani.
Credo dunque che le argomentazioni di Adriano Sofri, per il ruolo di intellettuale che scrive su un quotidiano di rilevanza nazionale, comportino responsabilità debite a cui Sofri stesso non assolve. Finendo per attaccare, mica tanto implicitamente, il Movimento. E su questo, mi spiace, non si passa. E non lo sta dicendo un collettivista cieco e aprioristico.
Forse Nico Maccentelli ha alzato il volume della voce. Ma proprio perché Carmilla non è Repubblica, è ben più grave, sul piano della civiltà, il pacato sussurro con cui il padre di Luca ha espresso opinioni tendenziosissime.