Pubblichiamo un estratto dall’eccezionale saggio della scienziata Vandana Shiva, intitolato Le guerre dell’acqua ed edito da Feltrinelli (Serie Bianca, 13.50 euro). Vandana Shiva, direttrice della Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource Policy, è una delle massime esperte mondiali in temi centrali quali biodiversità, biotecnologie, geopolitica alimentare. Il testo pubblicato da Feltrinelli è a dire poco fondamentale e Carmilla vi invita caldamente a leggerlo per comprendere quale tipo di abissali conseguenze comporterà l’attuale maligna globalizzazione targata Usa sul nostro pianeta.
La corsa all’oro liquido e l’ecologia della pace
di Vandana Shiva
Nel 1995 Ismail Serageldin, vicepresidente della Banca mondiale, fece una previsione sulle guerre del futuro che ha avuto grande risonanza: “Se le guerre del Ventesimo secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del Ventunesimo avranno come oggetto del contendere l’acqua”. Molti segnali fanno pensare che Serageldin abbia ragione. Le prime pagine di quotidiani, riviste e pubblicazioni accademiche parlano di insufficienza idrica in Israele, India, Cina, Bolivia, Canada, Messico, Ghana e Stati Uniti. Il 16 aprile 2001 il “New York Times” apriva con un articolo sulla scarsità idrica in Texas. Come Serageldin, il quotidiano annunciava: “Per il Texas, oggi, l’oro liquido è l’acqua, non il petrolio”.
Se è vero che il “New York Times” e Serageldin hanno ragione sull’importanza dell’acqua nei conflitti di domani, è anche vero che le guerre dell’acqua non sono un’eventualità futura. Ne siamo già circondati, anche se non sempre sono immediatamente riconoscibili come tali. Sono al tempo stesso guerre paradigmatiche – conflitti su come percepiamo e viviamo l’esperienza dell’acqua – e guerre tradizionali, combattute con armi da fuoco e granate. Lo scontro tra diverse culture dell’acqua è un fenomeno comune a tutte le società. […] Guerre paradigmatiche sull’acqua sono in corso in ogni società, in Oriente come in Occidente, a Nord come a Sud. In questo senso quelle dell’acqua sono guerre globali, in cui culture ed ecosistemi diversi, accomunati dall’etica universale dell’acqua come necessità ecologica, sono contrapposti a una cultura imprenditoriale fatta di privatizzazione, avidità e appropriazione di quel bene comune. Su un fronte di queste contese ecologiche, di queste guerre paradigmatiche, si trovano milioni di specie e miliardi di persone che chiedono quel minimo di acqua necessaria al sostentamento. Sul fronte opposto c’è una manciata di imprese globali, dominate da Suez Lyonnaise des Eaux, Vivendi Environment e Bechtel, e sostenute da istituzioni globali quali la Banca mondiale, la World Trade Organization (Wto), il Fondo monetario internazionale (Fmi) e i governi del G7.
Accanto a queste guerre di paradigma ci sono le guerre vere e proprie, conflitti per l’acqua che si combattono a livello regionale, o all’interno dello stesso paese o della stessa comunità. Che si tratti del Punjab o della Palestina, spesso la violenza politica nasce dalla contesa sulle scarse ma vitali risorse idriche. In alcuni conflitti il ruolo dell’acqua è esplicito, come nel caso della Siria e della Turchia, dell’Egitto e dell’Etiopia.
Ma molti conflitti politici sulle risorse sono celati o repressi. Chi controlla il potere preferisce far passare le guerre dell’acqua per conflitti etnici e religiosi. Si tratta di coperture facili perché le regioni lungo i fiumi sono abitate da società pluralistiche che presentano una grande diversificazione di etnie, lingue e usanze. È sempre possibile trasformare i conflitti sull’acqua che scoppiano in queste zone in contrasti tra regioni, religioni ed etnie. Nel Punjab, una componente importante del conflitto che negli anni ottanta ha provocato oltre quindicimila morti è stata il continuo disaccordo sulla spartizione delle acque del fiume. Ma lo scontro, basato su un diverso modo di vedere lo sviluppo anche a proposito dell’uso e della distribuzione dei fiumi del Punjab, è stato presentato come un caso di separatismo sikh. Una guerra per l’acqua è diventata una guerra di religione. Queste rappresentazioni fuorvianti delle guerre svuotano di energia politica – un’energia di cui si sente un enorme bisogno – la ricerca di soluzioni eque e sostenibili al problema della spartizione dell’acqua. Qualcosa di simile è accaduto alla contesa per la terra e l’acqua tra palestinesi e israeliani. Uno scontro sulle risorse naturali viene presentato come un conflitto di carattere principalmente religioso tra musulmani ed ebrei.
Nel corso degli ultimi due decenni ho visto conflitti sullo sviluppo o sulle risorse naturali trasformarsi in conflitti della comunità e culminare in estremismo e terrorismo. Il mio libro Violence of the Green Revolution era un tentativo di comprendere l’ecologia del terrorismo. Le lezioni che ho tratto dalle crescenti e diversificate espressioni del fondamentalismo e del terrorismo sono le seguenti:
1. I sistemi economici non democratici che centralizzano il controllo sulle decisioni e sulle risorse e sottraggono alla popolazione occupazioni produttive e mezzi di sostentamento creano una cultura dell’insicurezza. Qualsiasi scelta strategica viene tradotta in una politica di “noi” e “loro”. “Noi” siamo stati trattati ingiustamente, mentre “loro” hanno acquisito privilegi.
2. La distruzione del diritto alle risorse e l’erosione del controllo democratico sui beni naturali, sull’economia e sui mezzi di produzione minano l’identità culturale. Se l’identità non si forma più grazie all’esperienza positiva dell’essere un agricoltore, un artigiano, un insegnante o un infermiere, la cultura si riduce a un guscio negativo in cui la propria identità entra in competizione con “l’altro” per accaparrarsi le scarse risorse che definiscono il potere politico ed economico.
3. I sistemi economici centralizzati erodono anche la base democratica della politica. In una democrazia, l’agenda economica coincide con l’agenda politica. Quando della prima si appropriano la Banca mondiale, il Fmi e il Wto, la democrazia risulta decimata. Le sole carte che restano nelle mani dei politici desiderosi di raccogliere voti sono quelle della razza, della religione e dell’etnia, che hanno il fondamentalismo come conseguenza naturale. E il fondamentalismo riempie efficacemente il vuoto lasciato da una democrazia in disfacimento. La globalizzazione economica sta alimentando l’insicurezza economica, erodendo la diversità e l’identità culturale e aggredendo le libertà politiche dei cittadini. E fornisce terreno fertile al seme del fondamentalismo e del terrorismo. Anziché integrare le popolazioni, la globalizzazione d’impresa sta lacerando le comunità.
La sopravvivenza della popolazione e della democrazia dipenderà dalla risposta al duplice fascismo della globalizzazione – il fascismo economico che nega alle persone il diritto alle risorse, e il fascismo fondamentalista che si nutre di espulsioni, espropriazioni, insicurezza economica e paura. L’11 settembre 2001, i tragici attacchi terroristi contro il World Trade Center e il Pentagono hanno scatenato la “guerra al terrorismo” dichiarata dal governo statunitense di George W. Bush. Nonostante le promesse della retorica, questa guerra non arginerà il terrorismo perché non è rivolta alle radici del terrorismo – insicurezza economica, subordinazione culturale, espropriazione ecologica. Questa nuova guerra, in realtà, sta creando una spirale di violenza e diffondendo il virus dell’odio. E la portata dei danni provocati alla terra dalle bombe “intelligenti” e dai bombardamenti a tappeto è ancora tutta da verificare.
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