Cento anni fa nasceva uno dei nobili padri della letteratura di genere (in questo caso si tratta del giallo): Georges Simenon, il papà di Maigret, l’uomo dal quale, insieme ad altri grandissimi come Léo Malet, ha contribuito a elevare ad arte ossessioni borghesi e antiborghesi, tutte giocate nell’allegoria dell’Indagine e della Caccia alla Preda, oltre che, ovviamente, nell’infinitudine di figurazioni della morte – individuale e collettiva. In un secolo, il giallo ha letteralmente (e letterariamente) sbancato. La letteratura più venduta (anche la fuffa) è comunque in gran parte figlia dell’evoluzione di una forma che, via via, da gialla si è fatta nera, atrabiliare, bianca (si pensi alla struttura thriller di White noise di DeLillo) e, infine, senza colore. Per ricordare Simenon, segnaliamo il pezzo scritto da Alessandro Zaccuri, che segue qui sotto. Zaccuri è un grande conoscitore di generi e di cultura pop (chi non l’avesse ancora fatto, si legga il suo Citazioni pericolose, edito da Fazi). Il pezzo è stato pubblicato su Avvenire.
Simenon, un classico tra Balzac e Citroën
di Alessandro Zaccuri
La differenza tra Georges Simenon e Andrea Camilleri non sta nel fatto che il primo scrive in francese e l’altro in italo-siciliano. E neanche nel fatto che in Belgio hanno scelto per primi, come potrebbe aggiungere qualche maligno. No, la differenza vera sta nel fatto che, per entrare in una collana prestigiosa come la «Plèiade» di Gallimard, Simenon ha dovuto attendere il centenario della nascita (avvenuta a Liegi il 13 febbraio 1903), che verrà celebrato tra l’altro con la pubblicazione di una raccolta di romanzi rigorosamente «no-Maigret». Camilleri, al contrario (che pure è stato un esordiente tardivo, e non per colpa sua, ma per errore di calcolo dei nostri editori), ha espugnato i «Meridiani» Mondadori a passo di carica, e proprio con le avventure dell’ormai proverbiale «Montalbano sono». Sembra una sciocchezza, invece è una questione di civiltà letteraria.
Nella sua lunga, prolifica e precoce attività (firma il primo romanzo all’età di diciotto anni, muore nel 1989 dopo aver pubblicato un numero pressoché incalcolabile di libri, articoli e reportage) Simenon è stato non uno, ma molti scrittori. E questo non soltanto perché ha spesso fatto ricorso a pseudonimi più o meno trasparenti – compreso uno sbrigativo «Georges Sim» -, a ciascuno dei quali corrispondeva di solito un diverso stile, specie nel decennio mirabile 1924-1934, nel corso del quale l’apprendista narratore Simenon sforna qualcosa come 190 tra romanzetti rosa, d’intrattenimento o d’avventura. No, Simenon è stato uno scrittore plurimo (e proprio per questo, si potrebbe aggiungere, molto novecentesco, alla maniera dell’inafferrabile Pessoa) perché ha sempre accettato la propria natura di narratore popolare e scrittore tout court. Senza complessi e senza sensi di colpa, accettando che il bonario commissario Jules Maigret – apparso sulla scena letteraria nel 1929, con Treni nella notte, anche se per i filologi il «vero» Maigret è quello che si incontra in un altro romanzo dello stesso anno, La casa dell’inquietudine – diventasse il suo compagno di strada, un po’ alter ego e un po’ gemello allergico. Da questo punto di vista, anche la storia editoriale di Simenon, il ragazzo di provincia che conquista Parigi per poi cambiare un patron dopo l’altro, arrivando perfino a sbattere la porta della blasonata maison Gallimard, è la storia di una complessità e di una maturazione che resta difficile da districare in ordine cronologico. È come se il mastodonte della produzione di Simenon potesse essere aggredito da qualsiasi parte, garantendo in ogni caso un percorso di lettura in ampia misura plausibile e coerente. Del resto, è quello che è successo proprio in Italia con la più recente tra le «riscoperte» di Simenon, quella avviata da Adelphi verso la metà degli anni Ottanta con romanzi «no-Maigret»di severa bellezza come L’uomo che guardava passare i treni o Lettera al mio giudice, e poi proseguita con la riproposta delle avventure dell’ineffabile commissario buongustaio, confezionate oltretutto in squillanti copertine gialle che ricordano le prime, leggendarie brossure Mondadori. Prima dell’operazione Adelphi, infatti, da noi Simenon era considerato soltanto come «giallista», mentre in Francia aveva incassato da tempo l’ammirazione di un lettore incontentabile come André Gide, che lo aveva definito «il nostro più grande romanziere». Non che l’ammirazione fosse unanime, neppure nella sua patria d’elezione, ma un nomignolo pungente come «Citroën della letteratura» veniva bilanciato da elogi del tipo «un Balzac meno prolisso». E tutto questo, ripetiamolo, nonostante Maigret. Non grazie a Maigret, che anche adesso, nel pieno del centenario, si accontenta del solito tran-tran fra casa e commissariato. Nel salotto buono della «Plèiade», per ora, entrino pure gli altri romanzi. Con buona pace del collega Montalbano, sia chiaro.
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