di Roberta Cospito

Per andare al lavoro, ogni mattina attraverso la mia città, Savona, percorrendo una delle sue arterie principali. Ferma a uno dei tanti semafori, spesso mi ritrovo a spostare lo sguardo dalla strada verso una piccola aiuola un po’ trasandata e sporca.
Al primo sguardo nulla si nota se non delle foglie e delle piccole bacche rosse, ma io so che, rosso del semaforo permettendo, se guardo oltre il fogliame posso intravedere il grigio di una pietra. È una piccola lapide dedicata, come spiega l’iscrizione, a Fanny Dallari: “Il Comune di Savona – medaglia d’oro della Resistenza – ricorda Fanny Dallari caduta in uno degli attentati fascisti che nel 1974-75 colpirono la città che con la mobilitazione unitaria e la vigilanza popolare respinse e sconfisse l’attacco del terrorismo”.
Savona è un raro, forse l’unico, esempio di città italiana bombardata dopo la fine della Seconda guerra mondiale. In città e negli immediati dintorni, dall’aprile del 1974 al maggio 1975 vennero collocate e fatte esplodere dodici bombe. Una delle due vittime fu, appunto, Fanny Dallari che morì il giorno dopo l’esplosione di Via Giacchero, mentre l’altra vittima fu Virgilio Gambolati morto tre mesi dopo per complicazioni. I feriti furono una ventina e tanti i danni a edifici pubblici e non.
La prima bomba è un ordigno al plastico che esplode il 30 aprile 1974, alla vigilia del Primo Maggio, vicino al cinema che aveva in cartellone il film di Carlo Lizzani Mussolini: ultimo atto. Gli attentati proseguono con due bombe al plastico che colpiscono la centrale elettrica dell’Enel della zona industriale di Vado Ligure e un trasformatore di tensione. Non ci sono vittime, ma potenzialmente poteva essere una strage. A novembre viene fatto esplodere il locale caldaie della sede della provincia di Savona, nel centro città, sulla sponda del torrente Letimbro. Un dipendente rimane ferito. Nel giorno dell’attentato era stato inaugurato un cippo in ricordo dell’uccisione di un gruppo di partigiani da parte dei nazifascisti.  Solo tre giorni dopo cinque chili di tritolo scoppiano nell’atrio della Scuola Media Bartolomeo Guidobono, vicino alla Camera del Lavoro. Poi il 16 novembre due ordigni, il primo sui binari, e la strage è evitata solo dall’intervento di due uomini che corrono incontro al treno e riescono a fermarlo prima che deragli, la seconda in un condominio, direttamente contro gli abitanti, poche ore dopo. È il 20 novembre quando un ordigno esplode nel portone di via Giacchero 22, causando i due morti e tredici feriti. L’analisi degli attentati, il potere esplosivo degli ordigni e i luoghi di collocazione indicano che le perdite umane avrebbero potuto essere molto superiori. La scia terroristica prosegue con un’autobomba che esplode nelle vicinanze di una caserma dei carabinieri a Varazze, poi un ordigno sull’autostrada Torino-Savona, vicina a Quiliano, un comune del ponente savonese. Una pausa di due mesi e alla fine di febbraio ancora due attentati, contro la Prefettura, dove rimangono ferite otto persone, e a un traliccio dell’alta tensione. L’ultimo attentato, forse l’unico solamente dimostrativo, alla Fortezza di Monte Ciuto, sulle alture di Savona, il 26 maggio 1975. A parte un disturbo alle trasmissioni televisive in cui si distingue la frase “Qui Ordine Nero. Vi faremo a pezzi”, nessuna rivendicazione. Nella percezione degli abitanti di Savona, le bombe scoppiavano a caso, o così sembrava, e ovunque: abitazioni private, edifici pubblici, impianti dell’energia elettrica. La penultima bomba, “quella di via Cava”, era nascosta nel fustino di un detersivo in polvere per lavatrice; alcuni bambini che videro una strana fiammella uscire dal cartone posto nell’atrio di un portone della via, portano ancora oggi le cicatrici delle schegge che li colpirono. Anch’io, all’epoca delle bombe, ero una bambina.
Ricordo confusamente i fatti, ma ho ben presente la strana atmosfera che si respirava. Mi piaceva che in certe giornate si stesse a casa da scuola per gli “allarme bomba”, ma ricordo anche la mia incredulità nel sentirmi ordinare da mia madre di non uscire fuori a giocare. Fu una generica ma spiazzante sensazione che qualcosa d’insolito e spaventoso stava accadendo. Ricordo anche gli strani racconti di adulti che trascorrevano la notte fuori casa, lasciando i ragazzi soli a cenare.
Gli adulti che la sera non restavano coi figli andavano a fare le ronde. Era questo il motivo di quell’assenza, per quei tempi, pressoché senza precedenti.
Dopo le prime bombe, infatti, i savonesi si mobilitarono velocemente e spontaneamente a tutela del territorio: vennero presidiati quei luoghi indicati come sensibili non dalle autorità o da soggetti terzi, ma dagli stessi cittadini che li reputavano importanti: le scuole dei propri figli – una bomba scoppiò nell’atrio di una scuola media, per fortuna fuori dall’orario scolastico –, le proprie fabbriche, i propri uffici, il proprio posto di lavoro.

La forte reazione popolare portò tantissima gente in strada anche in cortei e manifestazioni. Si scendeva tutti in piazza: adulti, giovani, anziani e anche noi bambini. Ricordo cortei popolosi e popolari. Dalle foto viste in seguito, ho riconosciuto interi spezzoni di cortei composti da operai che venivano dalle numerose fabbriche che allora costituivano la Savona industriale.
Maccaja. Le bombe di Savona è un film documentario diretto da Diego Scarponi e realizzato in collaborazione con gli studenti del Liceo scientifico savonese Orazio Grassi dedicato alla drammatica vicenda delle dodici bombe scoppiate in quel breve lasso di tempo a metà anni Settanta, attraverso decine di testimonianze e materiale di archivio, in alcuni casi inedito. Immancabilmente, alla fine della proiezione, ci si ritrova a domandarci come sia stato possibile dimenticare questa vicenda di cui non si sente quasi mai parlare, se non quando qualcuno decide di rispolverare il film di Scarponi, nonostante sia stata vissuta una storia unica nel suo genere. Non solo: ho chiesto ad amici e conoscenti genovesi che all’epoca dei fatti avevano quindici/vent’anni, cosa sapevano delle bombe di Savona, ma questa storia pare non aver oltrepassato i confini della mia città o, se lo ha fatto, lo ha fatto in maniera vaga senza lasciare traccia. Eppure, avere a poche decine di chilometri di distanza una città bombardata avrebbe dovuto allarmare il capoluogo ligure, mentre invece gli episodi legati alle bombe di quegli anni sembrano essere relegati alla memoria delle singole persone che hanno vissuto direttamente i fatti senza mai riuscire a diventare patrimonio di una memoria collettiva. È un oblio difficile da spiegare. Una memoria così ricca, una vicenda così partecipata è caduta troppo presto nel dimenticatoio. Tutti eravamo coinvolti e le ronde popolari credo siano un modello unico in Europa. Una cancellazione tanto brutale spinge a chiedersi il perché di questa rimozione, come se l’eliminare il tutto rientrasse in un qualche particolare disegno. Secondo alcuni, pare si sia lavorato in questa direzione poiché nelle indagini vennero coinvolti anche figli di uomini “importanti”, appartenenti alle istituzioni che poi, però, si sono rivelati del tutto estranei alla vicenda ma, nel dubbio, si è preferito da subito mantenere basso il livello mediatico.
È stata vittima dell’oblio, della rimozione dei fatti anche la “Relazione Trivelloni”. Nel dicembre del 1982 l’avvocato Carlo Trivelloni venne incaricato dalla Presidenza dell’A.N.P.I. della Provincia di Savona di fare una ricerca, uno studio sulle eventuali connessioni tra la loggia massonica P2 e le bombe di Savona. Era un tentativo di analizzare il contesto sociale e politico dell’epoca cercando di riunire aspetti che non erano mai stati presi in considerazione a livello investigativo.
Il fatto di aver individuato in Savona una struttura in qualche modo ambigua, vicina alla P2, interna al Partito socialista e vicina o almeno alleata al Partito comunista, ha probabilmente contribuito a far restare chiuso nei cassetti il dossier che viene integralmente pubblicato solo a fine 2014 nel libro Novembre Nero, appunti, note e riflessioni su le Bombe di Savona del 1974-’75 e la strategia della tensione, edito dalla casa editrice Fuoricontrollo, curato dall’associazione Comitato bombe Savona.
Ci si chiede anche se non aver accertato alcuna responsabilità, non avere individuato “il nemico” abbia contribuito alla rimozione di questa storia. A oggi, non c’è ancora chiarezza, e forti sono i sospetti sulla modalità di gestione delle indagini: non si è mai riusciti a trovare né i responsabili materiali né i mandanti né tantomeno si sono riuscite a capire le ragioni di una simile violenza impunita da ormai mezzo secolo.
Le bombe di Savona probabilmente s’innestano nella strategia della tensione e, riguardo questo, l’obiettivo fu sicuramente centrato, visto che vivemmo giornate di paura e gli atti terroristici subiti portarono allo sconvolgimento delle reti sociali del territorio, al disfacimento degli equilibri esistenti e alla creazione di nuove realtà, come i Comitati di Quartiere che vigilavano sul territorio.
Chiaramente, a seconda della spiegazione che si dà al perché delle bombe, si privilegiano alcune interpretazioni e se ne escludono altre. Una delle teorie per spiegare quanto successo, ruota attorno a un personaggio politico preciso, Paolo Emilio Taviani, ministro dell’Interno dal luglio 1973 al novembre 1974.
Taviani – genovese, antifascista e democristiano che aveva fatto la Resistenza, tra i costitutori del Comitato di Liberazione Nazionale clandestino, un partigiano “bianco” – durante il suo mandato mise fuori legge il movimento neofascista Ordine Nuovo e, secondo alcuni, le bombe furono un monito al politico che aveva estromesso dal sistema i neofascisti e che aveva come bacino elettorale Genova e Savona. Questa ipotesi sarebbe avvalorata dal fatto che una bomba venne fatta esplodere presso l’abitazione del senatore democristiano Franco Varaldo di Savona che, politicamente, faceva riferimento a Taviani. Il ministro si dimetterà proprio a fine 1974, uscendo dalla politica attiva, per cui inserire le bombe di Savona in questo panorama politico potrebbe essere realistico.
Una vulgata popolare racconta che la base Nato di Pian dei Corsi, una montagna dell’Appenino Ligure in provincia di Savona, insediata nel secondo dopoguerra e dismessa agli inizi degli anni Novanta, con la fine della Guerra fredda, sotto il controllo dell’esercito statunitense, non sarebbe stata dotata solo di apparecchiature radar per il controllo dello spazio aereo, com’era indicato nei cartelli che la circondavano, ma sarebbe stata una vera e propria base missilistica equipaggiata con ordigni nucleari.
Nel periodo dei fatti, l’Italia era fortemente a rischio di un colpo di stato, così come accaduto in Cile e in Grecia, con la conseguente formazione di qualche forma di resistenza, di una reazione armata e popolare magari fomentata dai partiti di sinistra dell’epoca, come il Partito Comunista Italiano. In tutte queste destabilizzazioni, come il permanere della dittatura fascista in Spagna, era evidente la direzione strategica degli Stati Uniti e un’ipotesi consiste nell’interpretare l’ondata di terrorismo a Savona come a un test sulla reazione di una popolazione di una città come Savona, Medaglia d’oro al valor militare per aver lottato contro la prepotente sopraffazione nazifascista, potendo teoricamente impadronirsi di una base fornita di armi di distruzione di massa. In pratica, le bombe di Savona sarebbero state una simulazione, un test per vedere come una città di provincia avrebbe reagito a un attacco terroristico ad ampio spettro cosicché gli organismi di sicurezza statunitensi potessero studiare ogni scenario possibile a tutela della loro struttura militare in Liguria.
Tuttora, buona parte della popolazione savonese è convinta d’essere stata vittima di un esperimento, se non degli Stati Uniti, del terrorismo di destra che avrebbe scelto Savona come luogo ideale, forse per le sue dimensioni ridotte rispetto alla confinante Genova molto più metropolitana, per testare la reazione a un loro eventuale colpo di stato futuro. Così fosse, con la loro tanto decisa quanto numerosa reazione di massa, i savonesi avrebbero fatto fallire il test.
Questa teoria, come anche tutte le altre, manca in realtà di un riscontro fattuale ma, poiché racconta i savonesi come una sorta di salvatori della patria, è forse per questo la versione che più spesso si sente raccontare.
Alla fine, le bombe tacquero ma tacque pure tutto il resto.

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