di Pietro Garbarino
 Al di là delle appropriate e puntuali osservazioni svolte dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione circa la nuova normativa sulla sicurezza approvata dal Parlamento alcuni mesi fa, pur con il “sotterfugio” della procedura di conversione di decreto legge, va rilevato che l’entrata in vigore di tale normativa ha completamente modificato non solo una rilevante serie di norme di legge sostanziali e del codice di procedura penale, ma ha altresì inciso sulla stessa struttura del reato penale così come configurata, e consolidata nel tempo, dalla dottrina penalistica a partire dal testo dell’Antolisei.
Tale consolidato e imponente orientamento dottrinale analizzava il reato penale e ne individuava gli elementi fondamentali nel modo seguente:
    • Antigiuridicità del fatto obbiettivo; cioè il fatto commesso deve essere contrario a norme giuridiche che tutelano beni e situazioni ritenute a loro volta degne di tutela da parte dell’ordinamento giuridico come, ad esempio, l’integrità della persona o la tutela dei beni pubblici o privati,
    • L’elemento soggettivo in capo a colui che commette il reato, sia nel senso della volontarietà (dolo) che nel senso della imprudenza, negligenza, imperizia (colpa) di chi agisce.
    • Le circostanze in cui avviene il fatto, e cioè il concorso di situazioni specifiche che possano riguardare luoghi, contesti familiari e/o sociali, particolari situazioni di natura istituzionale e che concorrono a qualificare il fatto in modo più o meno grave o addirittura a modificarne la natura giuridica.
Sulla base di tale analitica struttura del reato la unanime dottrina ha ritenuto che se avviene un fatto che viola le norme della umana convivenza, e tale fatto è commesso volontariamente o con colpa, stante l’eventuale concorso di particolari circostanze, si può pervenire alla individuazione della eventuale responsabilità di chi tale fatto ha commesso.
Invece con la nuova normativa introdotta dalla legge 9.6.2025 n. 80 (per l’appunto il cosiddetto “Decreto Sicurezza”) tale impostazione giuridica sembra essere stata profondamente modificata.
Una prima profonda modifica la possiamo ravvisare nel nuovo art. 270 quinquies 3 c.p. (detenzione di materiale con finalità di terrorismo).
L’intento di tale norma è quello di prevenire chi si procura istruzioni sulla preparazione di congegni bellici (esplosivi, armi da fuoco o altre armi, sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose e altre tecniche e metodi) per il sabotaggio di servizi pubblici essenziali.
Prescindendo dal fatto che la condotta di chi preparava azioni di sabotaggio, attacchi e attentati ai servizi pubblici essenziali era già punita in precedenza da altra disposizione facente parte del medesimo contesto normativo, la modificazione sostanziale della struttura del reato introdotta con la nuova norma sta proprio nella punizione penale del fatto, in sé e per sé, di apprendere istruzioni sull’uso di tali congegni, armi e sostanze a prescindere da eventuali azioni successive che portino ad atti di attentato o di sabotaggio.
In altri termini è la sola circostanza di prendere visione ed eventualmente approfondire istruzioni tecniche su potenziali strumenti che possano essere finalizzati ad attività di terrorismo a qualificare la condotta illecita e perciò sanzionabile. Ciò sta a significare che è la mera circostanza quella che integra il reato prescindendo sia dal fatto antigiuridico che dall’elemento soggettivo dell’agente.
Come si può chiaramente rilevare in questo caso viene completamente stravolta e abbandonata l’impostazione dottrinaria che individua gli elementi del reato, nel senso che l’elemento eventualmente meno rilevante della fattispecie penale, e cioè la circostanza, integra il reato stesso indipendentemente dalla sussistenza degli altri elementi che la unanime dottrina ritiene indispensabili perché si possa parlare di condotta penalmente illecita.
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Una conferma di tale considerazione è costituita dalla introduzione del nuovo comma 11 decies all’art. 61 c.p. e cioè la norma che prevede le aggravanti per i vari tipi di reati.
Si tratta della circostanza di luogo per cui un reato contro le persone commesso in una stazione ferroviaria o metropolitana può comportare un aumento della pena irrogata fino a due terzi (ad esempio le lesioni personali punite con il massimo della pena di 3 anni, possono comportare, in quella circostanza, un aumento di pena fino a 5 anni) modificando sostanzialmente l’entità della pena e precludendo l’accesso a eventuali pene alternative o altri possibili benefici irrogabili per le pene brevi.
Stessa considerazione può farsi per i reati in danno di pubblici ufficiali (oltraggio, violenza, resistenza) là dove la qualità della vittima dell’azione illecita comporta un aumento di pena fino alla metà.
Si noti che per l’oltraggio a P.U. (il corrispondente reato di ingiuria tra privati è stato perfino depenalizzato) si può pervenire ad una pena di 4 anni e mezzo.
Ma, come se ciò non bastasse, è stata introdotta anche un’altra circostanza aggravante, cumulabile con la precedente, per cui la pena è ulteriormente aumentata se la violenza o minaccia a P.U. sia commessa al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture di interesse pubblico.
In sostanza si tratta delle contestazioni alle grandi opere, che spesso vengono contestate da comitati locali di cittadini e associazioni ambientaliste; l’antigiuridicità consiste dunque nel dissenso.
Ebbene, il fatto saliente del reato, e cioè avere offeso, minacciato o anche solo resistito con violenza al P.U., già punito con la reclusione sino a 7 anni, viene sanzionato ulteriormente per la circostanza che ciò avvenga nelle vicinanze (neppure dentro) una stazione ferroviaria o della metropolitana e per il fatto che si protesti contro un’opera pubblica.
Cioè, circostanze che possono essere anche occasionali e, comunque, attinenti al diritto costituzionale di dissentire da scelte politiche e amministrative possono comportare pene anche superiori ai 10 anni di reclusione.
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Ma una drammatica conferma di tale considerazione è data dall’introduzione nel codice penale di un secondo comma all’art. 415 c.p. (Istigazione a disobbedire alle leggi all’interno di istituto penitenziario).
Viene infatti aumentata la pena se un qualche invito a non rispettare leggi dello stato sull’ordine pubblico (evidentemente come tali vengono ritenute anche le norme sull’istituzione carceraria) avviene all’interno di un istituto di detenzione.
Il cittadino, ancorché detenuto, anche se viene interdetto dall’esercizio di alcuni diritti politici (come il voto), ha pur sempre diritto alla propria libertà di pensiero pur dovendo comunque sottostare ad eventuali norme che la limitano.
Ma nel caso di specie, è la condizione di detenzione che determina il reato, che in questo specifico caso non lascia neppure spazio a comportamenti di difesa passiva, comunque sanzionati.
Tale situazione di eguaglianza tra cittadini sancita dalla Costituzione, risulta dunque annullata e stravolta proprio dal fatto che la circostanza della detenzione incide sull’entità della pena, aggravandola per il detenuto che manifesti, anche pacificamente e legittimamente, le proprie opinioni e avanzi le proprie rivendicazioni.
Ulteriori casi di allargamento di ipotesi di reato su situazioni già sanzionate, e ciò per effetto delle circostanze prescindendo da fatto obiettivo ed elemento soggettivo del reato, la si può ravvisare sia nella modifica dell’art. 693 c.p. (Danneggiamenti in occasioni pubbliche manifestazioni) allorché il fatto contestato, in occasione di pubbliche manifestazioni, costituisce motivo di specifica aggravante, nonostante che il reato di danneggiamento, articolato per numerose ipotesi, già sia previsto. E la pena pecuniaria irrogabile, in tale eventualità, è assai pesante.
Ma se poi su detti beni, vengono compiuti atti di deturpamento, come ad esempio baffi alle immagini o copricapi ridicoli, o di imbrattamento come scritte con bombolette spray, entrerebbe in vigore la nuova formulazione dell’art. 639 c.p. che trasferisce il fatto da contravvenzione (reato minore e non gravemente punito) a delitto, e cioè a reato di superiore gravità; il tutto con pene pecuniarie molto pesanti.
Anche in questo caso è la circostanza, elemento eventuale del reato, a fare la differenza in quanto la situazione di protesta durante la quale possono accadere tali fatti, prevale sul fatto stesso e sulle intenzioni dell’agente.
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La protesta in quanto tale, pur nella sua legittimità costituzionale (art. 17-21-40), viene colpita direttamente dalla nuova penalizzazione del “blocco stradale e ferroviario”.
Portare sulla strada pubblica la protesta per informare, manifestare il proprio pensiero e protestare è un fatto storicamente connaturato alle vertenze sindacali o studentesche, in particolare quando situazioni di disagio vengono ignorate dalle naturali controparti.
Tale forma di lotta, vuole attirare l’attenzione pubblica sulla controversia in atto.
Ma è proprio la circostanza della controversia in atto quella che costituisce l’elemento essenziale del nuovo reato ipotizzato, che prescinde sia dalle sue motivazioni, sia dalla stessa applicazione di diritti costituzionali riconosciuti.
In altri termini, in tutti i casi che abbiamo testé descritto, il bene giuridico che appare violato, secondo la normativa in esame, appare essere più la pace sociale, mentre l’antigiuridicità sta nella protesta e nel dissenso, che sono invece ammessi e tutelati dalla Costituzione.
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Infine, per quanto riguarda il nuovo articolo 634 bis c.p. (occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui) anche qui sembra che il bene giuridico tutelato sia la proprietà in assoluto, oltre la valutazione di ogni sua funzione, ivi compresa quella sociale auspicata dall’art. 42 della Costituzione.
In altri termini un qualsiasi immobile, anche abbandonato o sfitto da tempo, ma ipoteticamente destinabile o destinato a domicilio altrui, costituisce un bene da proteggere in modo totale, mentre antigiuridico è il fabbisogno di casa di tante persone, in difficoltà per gli affetti alti o per la disoccupazione o la insufficienza di salari e pensioni.
Ovviamente l’occupazione-reato può riguardare anche pertinenze del detto immobile, protetto dalla sacralità delle proprietà.
Ma ciò che rileva ancor più è che dell’occupazione come fatto materiale sono ritenuti responsabili anche colui, o coloro, che hanno in qualche modo collaborato alla riuscita dell’occupazione. Anzi, qualora l’occupate accettasse di ritirarsi subito, ne diverrebbero gli unici responsabili.
Anche in questo caso la circostanza del bisogno di casa diviene il parametro unico per valutare la responsabilità dell’occupante, mentre qualsiasi altra valutazione oggettiva e soggettiva passa in secondo piano, in conformità del distorto principio giuridico che informa quel provvedimento normativo nel suo insieme.
In sostanza, quel distorto principio giuridico denunziato in precedenza, per cui sono pressoché esclusivamente le circostanze a integrare il reato, e secondo cui la norma penale ha funzione sanzionatoria “preventiva”, sembra dilagare, sommergendo la tradizionale e consolidata impostazione dottrinaria della struttura del reato.
Per di più, data la ormai prevalente rilevanza delle circostanze rispetto all’obbiettività del fatto reato, si va deteriorando una generale inversione dell’onere della prova, che è invece un principio giuridico fondamentale degli ordinamenti democratici dalla fine del 1700 sino ad oggi.
Cioè il cosiddetto principio dell’ “habeas corpus”, che dovrebbe stare alla base del potere dello stato di punire chi infrange la legge penale e che invece conferisce al medesimo poteri eccessivi.



