di Alberto Molinari e Gioacchino Toni
Le proteste che si sono levate nei confronti dell’incontro tra la nazionale di calcio italiana e quella israeliana del 14 ottobre 2025 allo stadio di Udine hanno determinato, come altre volte in passato, una netta contrapposizione tra chi ritiene che anche lo sport debba, in qualche modo, confrontarsi con gli accadimenti del mondo prendendo posizione su di essi e chi, al contrario, si dice convinto che lo sport debba evitare di farsi coinvolgere in ciò che, in fin dei conti, non lo deve riguardare.
Gli Statuti delle istituzioni sportive nazionali e sovranazionali – a partire dal Cio, il Comitato Internazionale Olimpico – si basano sul principio della neutralità e apoliticità della dimensione sportiva. Questo assunto, inteso a preservare il carattere universalistico dello sport e la sua autonomia rispetto alle interferenze politiche, in realtà è risultato spesso funzionale a delle precise scelte politiche. L’apoliticismo proclamato dagli organismi sportivi internazionali ha permesso ad esempio al fascismo e al nazismo di sfruttare lo sport come strumento di propaganda politica e ha consentito di non escludere alcuni regimi autoritari del secondo Novecento dal Cio.
La retorica dello sport come ambito da mantenersi separato dal resto della realtà presuppone che quanti lo praticano o lo seguono operino una sorta di momentanea sospensione dal mondo a cui pure appartengono, sospensione che riappacifica, durante le gare, le conflittualità e le brutalità quotidiane. L’idea che sospendere momentaneamente le tragedie del mondo extrasportivo significhi preservare la “purezza” insita nello sport dalle brutture del mondo, tenerlo al riparo dalla politica, non manca di palesare evidenti contraddizioni; accettare di confrontarsi con le rappresentative di nazioni che si stanno macchiando di inaccettabili atrocità è di per sé una scelta politica, essendo, di fatto, un riconoscimento della condotta dello Stato che gli atleti rappresentano. Accettare di giocare contro una nazionale che, ad esempio, pratica la segregazione razziale, significa, nel migliore dei casi, girare la testa dall’altra parte, dunque evitare di condannare le sue pratiche.
Il convincimento che possa davvero esistere uno sport isolato dal mondo in cui questo si manifesta è, evidentemente, una costruzione retorica di comodo priva di fondamento. Nel caso specifico della partita di calcio tra le nazionali italiana ed israeliana non si sta parlando di singoli atleti provenienti da uno Stato dalla condotta criminale di cui, evidentemente, non sono per forza di cose complici, ma di una rappresentativa nazionale che gareggia in nome e per conto di quello Stato. Confrontarsi con quella nazionale significa riconoscere la legittimità della condotta dello Stato che rappresenta.
Non è evidentemente la prima volta che nella storia dello sport moderno ci si è trovati di fronte a tale contraddizione: sospendere il giudizio, sempre nel migliore dei casi, sulla condotta dello Stato rappresentato dalla sua nazionale sportiva o, viceversa, prendere posizione nei suoi confronti anche in ambito sportivo. Se lo sport è inevitabilmente sempre stato attraversato dalla politica, a creare problemi nella retorica che lo vuole entità separata dal mondo è stata piuttosto l’irruzione di istanze politiche intenzionate a mettere in discussione lo status quo della realtà di cui lo sport è parte integrante.
Di seguito, con riferimento all’Italia, si ricordano, per quanto sommariamente, alcuni momenti in cui, a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, la contestazione politica ha fatto capolino nel contesto sportivo.
Sull’onda delle proteste che infiammano il Sessantotto, anche eventi e spazi dello sport italiano, considerati fino ad allora impermeabili ed estranei alla politica, sono investiti dalla contestazione. A fare da apripista è la manifestazione del 14 dicembre 1968 organizzata da un gruppo di studenti al teatro Ariston di Sanremo in occasione dell’incontro pugilistico valevole per il titolo mondiale dei pesi medi tra Nino Benvenuti e Don Fullmer. Scopo della protesta, repressa duramente dalla polizia, è denunciare il costo esorbitante dei biglietti e i cospicui stanziamenti pubblici riservati all’evento a fronte del sostanziale disinteresse dell’amministrazione pubblica per le tante problematiche sociali cittadine.
Poco dopo sono il mondo del calcio e quello del ciclismo a doversi confrontare con le proteste: le contestazioni studentesche prendono di mira una riunione dei vertici calcistici italiani in un albergo milanese, mentre, a Parma, il Giro d’Italia viene accusato di propagandare alcune grandi ditte mentre in queste sono in corso mobilitazioni operaie a difesa dei posti di lavoro.
In occasione dei Campionati europei di atletica leggera che si tengono ad Atene nel settembre 1969 sono numerosi gli appelli e le prese di posizione che in Italia denunciano l’uso strumentale della manifestazione sportiva da parte del regime dei colonnelli andato al potere in seguito al golpe del 1967.
Nel corso del 1970 lo sport italiano conosce nuove iniziative di protesta: viene contestata la presenza dei marines della VI flotta americana a un meeting internazionale di atletica leggera che si tiene a Formia e, il mese successivo, viene presa di mira la retorica della cerimonia inaugurale dei Giochi della gioventù a fronte delle carenze di impianti e iniziative per la reale diffusione dello sport a livello diffuso.
Per quanto mosse da rivendicazioni prive di spessore e respiro politico, mobilitazioni si danno anche tra gli studenti dell’Istituto Superiore di Educazione Fisica (ISEF). Vengono interrotte gare di basket e di sci, vengono occupate temporaneamente la piscina del Foro italico, gli uffici delle federazioni sportive, il Ministero della pubblica istruzione e il campo da tennis perugino in cui si svolge la partita di Coppa Davis Italia-Bulgaria.
Sull’onda delle mobilitazioni intraprese dalle organizzazioni di sinistra contro i rigurgiti neofascisti che attraversano l’Italia, a partire dal 1970 viene messa in atto una progressiva forma di isolamento degli ambienti sportivi legati al Msi, propugnatori di una logica social-darwiniana che guarda allo sport come a uno spazio in cui la dimensione competitiva, innervata da valori di selettività, eroismo e virilità, è funzionale allo stabilire un ordine gerarchico, in cui l’agone sportivo permette all’atleta di forgiarsi spiritualmente e di distinguersi come individualità vincente in una società massificata.
Terreno di scontro politico-sportivo tra neofascismo e sinistra nell’Italia della prima metà degli anni Settanta è il rugby, disciplina particolarmente apprezzata negli ambienti di estrema destra, esaltata già in epoca fascista come esempio di cameratismo, virilità e spirito di combattimento. A riprova di come i vertici della Federazione Italiana Rugby nei primi anni Settanta siano legati all’universo neofascista è l’organizzazione di una tournée della nazionale italiana di rugby nel Sudafrica dell’apartheid e della successiva trasferta in Italia degli Springboks, destinata ad essere cancellata sotto la spinta di vibranti proteste. È la prima volta che in Italia un movimento di base sposta gli equilibri politici del mondo sportivo. L’importante successo conseguito dalle mobilitazioni antirazziste viene celebrato dagli enti di promozione sportiva democratici come un successo dei principi di civiltà sulla presunta neutralità dello sport.
Altra occasione in cui le discussioni politiche invadono l’universo dello sport in Italia è la semifinale di Coppa Davis che la nazionale di tennis deve tenere a Johannesburg ai primi di ottobre del 1974. Gli organismi sportivi democratici e i movimenti terzomondisti, con il sostengo dalla stampa di sinistra, invitano, in questo caso senza successo, a boicottare l’evento. L’Italia perderà contro il Sudafrica che risulterà poi vincitore del torneo senza dover giocare la finale, visto che l’India si rifiuterà di prendervi parte.
A scuotere il mondo dello sport italiano nel 1975 è la partita di Coppa Uefa che la Lazio deve giocare all’Olimpico contro una squadra spagnola, il Barcellona, il 22 ottobre. Come avviene in altri contesti europei in cui si pone il problema di giocare contro squadre spagnole, le prese di posizione contro la partita derivano dalla condanna a morte di un gruppo di militanti antifranchisti emessa nel settembre dello stesso anno, dopo processi sommari, da un regime ormai al crepuscolo.
Alle prese di posizione contrarie allo svolgimento della partita da parte dell’associazionismo, dei partiti di sinistra e dei lavoratori del Coni che minacciano lo sciopero, il mondo sportivo risponde barcamenandosi all’insegna del “vorrei, ma non posso”, proponendo formule di protesta che non compromettano lo svolgimento dell’evento – l’Associazione Italiana Calciatori, ad esempio, propone di ritardare di dieci minuti l’inizio della partita – e, soprattutto, trincerandosi dietro alla apoliticità dello sport.
Al mito della separatezza dello sport dalla politica si rifà anche il mondo del giornalismo sportivo, pur con qualche eccezione. In controtendenza nei confronti di tanti colleghi, il direttore di «Tuttosport», Gian Paolo Ormezzano, oltre a prendere posizione contro lo svolgimento della partita, decide di pubblicare sul quotidiano sportivo il dibattito interno alla redazione sulla questione, palesando così l’intenzione di mostrare come lo sport e il giornalismo sportivo, al di là dell’evento specifico, non possano pretendere di vivere in una bolla separata dalla realtà extrasportiva.
Il 1976 è segnato dalla contestazione alla trasferta della nazionale tennistica italiana per la finale di Davis nel Cile di Pinochet. Attorno a questa finale si gioca una vera e propria partita politica che vede il mondo dello sport italiano investito da un vasto movimento di opposizione che coinvolge gli schieramenti politici, le forze sociali e la stampa, prendendo di mira il potere politico-sportivo, arroccato nella sua tradizionale difesa della neutralità dello sport, e i settori più conservatori della società italiana che, anche quando non appoggiano direttamente la dittatura cilena, intendono mantenere l’universo sportivo al riparo da istanze considerate eccessivamente progressiste.
Le mobilitazioni non riescono a evitare la partecipazione della squadra italiana alla finale cilena, ma dimostrano che anche attraverso lo sport è possibile manifestare impegno e passioni civili così da incrinare un mondo considerato avulso dal contesto politico e sociale.
È con le campagne contro i mondiali organizzati nel 1978 nell’Argentina del regime di Videla che si esaurisce la spinta propulsiva del Sessantotto nello sport. In un contesto nazionale segnato dalla vicenda Moro e dalla politica di solidarietà nazionale, dall’affievolirsi della spinta dei movimenti nati sull’onda del ’68, le mobilitazioni contrarie ai mondiali argentini stentano a prendere forma.
La conquista del titolo da parte dell’Argentina chiude “il mondiale della vergogna”, quello dei governi che per interessi politici ed economici non hanno boicottato una competizione sporca di sangue, dei giornalisti compiacenti verso il regime dei militari, del silenzio del mondo dello sport sui desaparecidos, dei calciatori che non hanno fatto un minimo gesto per testimoniare contro la dittatura. Fuori da questa “pagina nera” dello sport sono rimasti i giornalisti che non hanno abdicato al ruolo politico e civile dell’informazione e i pochi gruppi che si sono generosamente battuti nel tentativo di rompere la separatezza tra sport e politica (A. Molinari, G. Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 19).
Sullo sfondo dei tragici accadimenti palestinesi che segnano l’attualità, l’incontro di calcio tra Italia e Israele ha fatto riemergere la contrapposizione tra chi ritiene che anche lo sport non possa che confrontarsi con gli accadimenti del mondo prendendo posizione e chi ritiene che debba mantenere la sua neutralità. Una neutralità che, ancora una volta, palesa tutte le sue ipocrisie e contraddizioni.
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