di Paolo Bertetti
Angela e Karlheinz Steinmüller, Andymon, trad. di Beatrice Sensini, pp. 392, euro 20,oo stampa, Del Vecchio Editore, Bracciano 2025.
La fantascienza tedesca, al pari – occorre dire – delle altre tradizioni non anglofone, ha sempre avuto scarsa circolazione dalle nostre parti, a parte la pubblicazione ormai quasi 50 anni fa di una intera collana dedicata a Perry Rhodan, un fortunato quanto mediocre (e interminabile) serial di avventure spaziali incentrato sulle vicende dell’omonimo personaggio. Pochi gli autori tradotti in Italia: tra gli altri Herbert Franke, Andreas Eschbach, Frank Schätzing (che hanno impreziosito gli storici cataloghi di CELT, Nord e Fanucci) e, più di recente, Uwe Post (Future Fiction) e Dietmar Dath, il cui L’abolizione della Specie (Nero Edizioni) è stato sicuramente uno dei romanzi di fantascienza più stimolanti apparsi lo scorso anno. In particolare, nessuna testimonianza era finora arrivata da noi della produzione fantascientifica della DDR, pure non trascurabile quantitativamente e qualitativamente, come osserva Paola Del Zoppo nell’approfondita introduzione.
Grande plauso, dunque, a Del Vecchio Editore che propone ora (tra l’altro in prima traduzione mondiale e con una splendida veste grafica) quello che è considerato il romanzo di fantascienza più popolare nella vecchia Repubblica Democratica; tanto più che Andymon, uscito in origine nel 1982, non è un mero reperto storico, ma un piccolo grande gioiello che parte dalla hard science fiction alla Arthur Clarke (assieme a Stanislaw Lem sicuramente un nume tutelare di Angela e Karlheinz Steinmüller) per giungere a un’ampia riflessione sulla natura dell’utopia. Del resto, il sottotitolo dell’edizione originale del romanzo era “Utopia dello spazio”, e non a caso Del Zoppo associa i coniugi Steinmüller al nome di Ursula Le Guin in nome di una comune tensione verso una fantascienza intesa come indagine sulla società e sull’uomo.
Il romanzo affronta il tema della colonizzazione di altri sistemi stellari tramite navi più lente della luce in maniera piuttosto originale: non siamo di fronte a un’astronave generazionale, né a coloni in sonno criogenico; invece, il carico della gigantesca astronave (certo non immemore dalla clarkiana Rama) è costituto da ovuli umani che nell’approssimarsi al pianeta Andymon, meta del viaggio, vengono fecondati da sistemi automatici. Generati in vitro in gruppi di otto, bambine e bambini vengono cresciuti da balie meccaniche (le Ramme) e istruiti da insegnanti robot, in vista dell’insediamento sul pianeta. La prima parte del romanzo si incentra sulla loro crescita e educazione, sviluppando alcuni affascinanti interrogativi: è possibile allevare un’intera generazione affidandola soltanto a creature meccaniche, senza alcun contatto con esseri umani adulti? E quali potrebbero essere le conseguenze sulla loro psiche e sulla loro stessa percezione del mondo? Nel corso della loro formazione, i futuri coloni apprendono dagli insegnanti robot l’eredità culturale umana, ma le conoscenze acquisite confliggono con l’esperienza quotidiana: la Terra finisce di essere considerata “una favola bella e crudele” impossibile da dimostrare, un luogo mitico se non addirittura una menzogna, e la stessa umanità diviene mera ipotesi e finzione. E forse, arriva a pensare uno dei protagonisti, non vi è nessuna realtà, ma solo illusione e apparenza”, e loro non sono altro che esseri prodotti con memorie artificiali in un universo virtuale.
Tale straniamento è accresciuto dal fatto che gli scopi e le motivazioni che hanno portato i leggendari Costruttori della nave a varare il progetto di colonizzazione spaziale sono avvolti nel mistero. Escamotage questo originariamente pensato, a detta degli stessi Steinmüller, per eludere la censura della DDR, ponendo la vicenda del romanzo in un altrove senza alcuna continuità con il presente, ma che assume nel romanzo un suo significato preciso. È infatti proprio dalla cesura con il passato che è possibile, sembrano dirci gli autori, costruire l’utopia. Un’utopia che è qui considerata in maniera dinamica, come pratica utopica, possibilità di compiere delle scelte e di costruire un futuro.
È la possibilità di costruire un’utopia la vera Utopia. E questo anche, e a maggior ragione, se il pianeta Andymon non è l’Eden auspicato, ma “un inferno rovente e velenoso”, che deve essere terraformato attraverso un lungo lavoro. Alla terraformazione del pianeta e alla costruzione di una nuova società è dedicata la seconda parte del romanzo, che vede in coloni dare origine a vari insediamenti, ognuno dei quali persegue una diversa via alla propria Utopia: Andymon City, dove vivono i favorevoli al progresso tecnologico e al proseguimento della terraformazione, Oasis, i cui abitanti perseguono un’esistenza semplice e rurale e un ritorno alla riproduzione naturale, Kastell, l’avamposto sede di una superintelligenza nata dall’intima connessione di un gruppo di menti umane.
In contrapposizione all’ambiente della nave, dove tutto è programmato e previsto (“la nave intera, quell’apparato titanico, seguiva movimenti stabiliti dall’inizio. Perfino il nostro desiderio di libertà, perfino i miei pensieri di quell’esatto momento erano parte del calcolo” si legge a un certo punto) e ogni bambino è benevolmente assistito ma anche costantemente sorvegliato (difficile non vedere qui un riferimento critico alla pianificazione socialista), Andymon è in ogni caso il luogo dell’impredevibilità, dove si è liberi, anche a costo di fallire: “un nuovo mondo, un mondo in cui le illusioni non contavano più nulla: […] l’inizio di tempi stracolmi di esperienze reali, di verità dirompente”.