di Luca Baiada

George Steiner, Il processo, Garzanti, Milano 2024, pp. 168, euro 19.

Adolf Hitler è vivo! Negli anni Settanta, nel fondo dell’Amazzonia, una piccola squadra lo cerca, lo cattura e si inoltra nella foresta più intricata del pianeta per portarlo via. Sono ebrei animati da misticismo, determinazione, coraggio. E sono consapevoli delle difficoltà del dopo, quando si tratterà di regolare i conti. Questi cacciatori ostinati sino al delirio non sanno che il Brasile brulica di spie, che le cancellerie di mezzo mondo sono in allarme, che la preda affascina e disturba. Non sanno che gli indios li seguono, silenziosi come ombre. Intorno a loro c’è un dedalo di informatori e doppiogiochisti. Un bel racconto di avventure, insomma, coi colpi di scena e un finale godibile.

E invece proprio no. Il romanzo di George Steiner, apparso originariamente nel 1979, e adesso proposto per la seconda volta in Italia, si rivela una trappola atroce. A caderci dentro sono le ovvietà, il senso comune e la letteratura facile. La foresta amazzonica, in cui Il processo comincia e sul cui limine finisce, è una selva oscura, un gorgo caldo di sabbie mobili in cui è facile perdersi. Si può anche uscirne; però nudi e coperti di graffi.

The Portage to San Cristobal of A.H., con le sole iniziali[1]. Il libro deve avere qualcosa di intoccabile, visto che è difficile anche tradurre il titolo: nell’edizione del 1982 per Rizzoli è Il processo di San Cristobal, adesso è Il processo. Ma nell’originale si tratta di un portage, con tutte le sfumature possibili, pertinenti o arbitrarie (trasbordo, trasporto di imbarcazione, oppure consegna, facchinaggio, carico di carne umana, deportazione, messa in salvo). E a veder bene, di trasporto riuscito ce n’è poco: il gruppo vorrebbe solo portare la preda da una palude a San Cristóbal, e invece riescono appena a venir fuori dalla foresta, a raggiungere una radura asciutta. Lì il prigioniero è ancora quasi a casa, nel ventre grasso dell’Amazzonia, in un rigoglio ambiguo e brulicante che somiglia al fondamentale campo di studi di Steiner: il linguaggio.

Un funzionario dei servizi segreti, a Parigi, riflette. Un processo a Hitler lo preoccupa: Vichy fu una creazione francese, de Gaulle e Pétain avevano interessi comuni. E poi:

Il Reich in tutto questo non c’entrava proprio per niente. E il disegno più vasto: un’Europa più o meno unita dal Mediterraneo al Baltico, con forti organi centrali, cementata dalla paura dell’orso russo e dell’Asia alle sue spalle, e che incorporasse un Regno Unito ridotto a misura continentale. Il sogno del cancelliere Hitler e il nostro presente ideale, il vero fine a cui miriamo[2].

Già: la paura della Russia e della Cina, l’unità europea nel segno delle armi, della guerra. Che novità. Siamo negli anni Settanta o nel 2025?

Ce n’è anche per i giuristi, e se lo meritano. Il maturo Röthling, alto giureconsulto, lavora per il governo della Germania occidentale e ripensa al passato:

Ho bevuto la vita non da un bicchiere ma da una coppa di champagne. Ho conosciuto la storia come conosco le mie tasche. Ho attraversato l’Europa in lungo e in largo come le orde di Napoleone, ho visto bruciare Salonicco, ho visto il volto sorridente di un vecchio che galleggiava sul Canal Grande. […] Non cambierei. Non venderei i miei ricordi, né li ostenterei come un lebbroso ostenta le sue piaghe. Dio come abbiamo vissuto! Ognuno di quegli anni terribili era come cento, mille anni normali[3].

Fantasie di romanziere? La realtà fu peggiore: il riciclaggio dei nazisti nelle magistrature coinvolse i peggiori criminali. Fu denunciato presto, soprattutto dal blocco socialista[4].

Ma è nella conversazione di Röthling col genero, un altro giurista, che il diritto prostituito si dispiega in volute di sussiegosi pettegolezzi:

In tutta la storia del diritto penale non riesco a trovare un esempio in cui sia più importante invocare le forme, le tradizioni e le sfumature di legalità e di procedura giudiziaria. […] Mi riferisco al concetto del corpus mysticum del sovrano, a quella solida finzione mirabilmente concepita dai nostri Hohenstaufen e dai loro giuristi, per cui l’identità e la responsabilità del corpo politico è considerata residente nel corpo del monarca. In lui vi è una duplicità d’essenza, una doppia vita; una privata e mortale, l’altra collettiva. […] Il terreno è unito al trascendentale in una perfetta incorporation allo stesso tempo mistica e materiale. Non è la poesia, che ha creato le favole più vivide e le metafore più complesse! Una carnalità mistica dello Stato sussiste nel sovrano persino quando dorme, un deus absconditus, per quanto sembri repulsivo e inquietante al volgare buon senso, persiste in un Hitler[5].

Ci sarebbe da riflettere, su quali assonanze religiose ci siano – cristiane e da soppesare accostate a quelle ebraiche – in queste furberie travestite da legalità, in questa lingua forbita che striscia per la ragion di Stato.

Gli acquitrini esalano oscure domande. Si accenna alle origini ebraiche di Hitler, o piuttosto a legami familiari controversi. Qui è importante solo cogliere le implicazioni. Uno dei cacciatori:

Solo uno di noi avrebbe potuto portare a termine quello che lui ha fatto succedere, solo un ebreo avrebbe potuto fare dell’ebreo un uomo a metà strada nella casa della morte. […] Ripete l’eterna preghiera anche nel sonno, l’altro Kaddish, quello che nessuno osava menzionare al Cheder, quello le cui centonove sillabe causano morte e la fine dei secoli. Hitler l’ebreo[6].

E ancora. Proprio la necessità di ricordare trasforma il carnefice, un po’ alla volta, generazione dopo generazione, in un monumento:

So quando Hitler morirà. Conosco il giorno: quando l’ultimo ebreo sarà morto. Allora urlerà ancora una volta, un ultimo mugghio tanto forte che le montagne si spaccheranno e cadrà morto sorridendo sul tavolo di pietra. Ma non fino ad allora. Essere ebreo significa tenere in vita Hitler[7].

La squadra riceve istruzioni su come trattarlo. È pericoloso, ha un’arma tremenda:

La sua lingua è diversa dalle altre. È la lingua del basilisco, cento volte forcuta e guizzante come fiamma. […] Fu lui, col flagello della parola e la bacchetta divinatoria, col polso che gli si rompeva ogni volta che passava oltre le debolezze degli altri, con un fiuto per l’animalità e la noia latenti negli uomini. Le sue parole fecero traboccare il veleno[8].

Appena può, Hitler prende la scena. Un discorso rovente, senza lasciarsi interrompere. Non ha inventato nulla. Ha imparato l’ebraismo da uno spiantato, in un dormitorio pubblico, quando era un pitocco. Allora si è inebriato di profezia, di elezione divina, di voglia di rivincita. In una decina di pagine sono concentrati argomenti forti, paragoni dozzinali, tentazioni ipotetiche, tesi storiche che saranno sviluppate sul finire del Novecento e che ancora adesso non danno tregua.

Hitler si dichiara debitore: «Ho imparato. Da voi, tutto. Ho imparato a scegliere una razza, a impedire che venga contaminata, a farle vagheggiare una terra promessa, a ripulire quella terra dai suoi abitanti o a costringerli alla servitù. Le vostre credenze, la vostra arroganza…»[9]. Paganeggia contro la religione ebraica, con la sua divinità distante e colpevolizzante: «Ci fu mai invenzione più crudele, trovata maggiormente intesa a torturare l’esistenza umana di quella di un Dio onnipotente, che tutto vede eppure è invisibile, impalpabile, inconcepibile?»[10]. Bagliori nietzschiani:

Mi chiamate tiranno, dite che ho reso schiave le genti. Quale tirannia, quale schiavitù è stata più oppressiva, è riuscita a marchiare più profondamente la pelle e l’anima dell’uomo delle fantasie morbose degli ebrei? Non siete quelli che hanno ucciso Dio ma quelli che lo hanno fatto. Ed è infinitamente peggio[11].

È prevedibile che rimproveri agli ebrei l’ebraismo, il cristianesimo e il marxismo (manca la psicanalisi, per il poker delle banalità):

Prima il Dio del Sinai, invisibile ma che tutto vede, irraggiungibile ma che tutto vuole. Poi la terribile dolcezza del Cristo. Non avevano fatto abbastanza, gli ebrei, per spezzare le reni dell’umanità, nossignore, c’è un terzo atto nella nostra storia. […] Tre volte l’ebreo ci ha imposto il ricatto della trascendenza. Tre volte ci ha contaminato il sangue e il cervello col bacillo della perfezione[12].

Ha più spessore, negli anni Settanta, che Hitler consideri un’altra cosa:

Quello strano libro, Der Judenstaat. L’ho letto attentamente. Di chiara derivazione bismarckiana, nella lingua, nelle idee, nel tono stesso. Un libro intelligente, intendiamoci. Che plasma il sionismo a immagine della nuova nazione tedesca. Ma è stato veramente Herzl il creatore di Israel? O non invece io? […] È stato l’Olocausto che vi ha dato il coraggio dell’ingiustizia, che vi ha fatto cacciare l’arabo dalla sua casa, dal suo campo, perché era pieno di pidocchi e senza risorse, perché si trovava sulla strada del vostro destino divino. Che vi ha fatto accettare di sapere che quelli che avevate cacciato via stavano marcendo in campi profughi, a neanche dieci chilometri di distanza, sepolti vivi nella desolazione e in dissennati sogni di vendetta[13].

Adesso che la violenza dell’occupazione israeliana dilaga in massacro sistematizzato, in fame programmata che serve ad attirare persone in trappole stragiste, e in innumerevoli privazioni espulsive ed eliminazioniste, la forza di queste parole sgomenta. Sono parole che avvolgono e corrodono come l’umido della foresta pluviale, guizzano e mordono come un serpente, ribollono come un nido di formiche carnivore.

Se chi leggeva nel 1979 poteva appagarsi in cerca del finale, in questo romanzo dell’ombra marciscente e delle insidie, nel 2025 la questione non è risolta, anzi è più torbida, più melmosa. Se il finale, in fondo, non è che uno specchio appannato, cosa ci vediamo dentro, oggi, quando proviamo a passarci un dito?

 

 

[1] George Steiner, Il processo, Garzanti, Milano 2024, tit. orig. The Portage to San Cristobal of A.H., 1979, traduzione di Donatella Abbate Badin.

[2] Ivi, p. 136.

[3] Ivi, p. 113.

[4] Per esempio: Union des Combattants Antifascistes, On les appelle… juges! Activités scélérates, sur le territoire occupé de la Tchécoslovaquie, de 230 juges et procureurs nazis actuellement au service de la Justice de l’Allemagne de l’Ouest, Orbis, Praga 1960.

[5] Steiner, Il processo, cit., pp. 122-123.

[6] Ivi, p. 95.

[7] Ivi, p. 62.

[8] Ivi, pp. 42 e 49.

[9] Ivi, p. 158.

[10] Ivi, p. 159.

[11] Ivi, p. 160.

[12] Ivi, p. 161.

[13] Ivi, p. 164.