di Franco Pezzini
(Per le parti precedenti, cfr. qui)
Il Tao e l’arte della dissoluzione con la spada
Con le sue oscurissime speculazioni (il rapporto sonno/veglia, quello tra membri apicali e terminali di famiglie dal destino anomalo, la compenetrazione identitaria…), Il Domenicano Bianco resta il più criptico dei romanzi di Meyrink, quello per cui forse a maggior ragione può valere l’abusata categoria dell’esoterico. Resta però il fatto che centrale nel romanzo sia quel tema dell’identità al tempo tanto forte nella letteratura modernista anche senza risvolti esoterici: tema dell’identità le cui crisi – sogni, perturbazioni, ossessioni – sono al contempo ben illuminate dal fantastico moderno e si ascrivono molto bene al quadro del coevo espressionismo. Se aggiungiamo che le speculazioni sul Tao e su pratiche yoga guardano a un più vasto panorama di contatti con filosofie e spiritualità dell’Oriente, la pur valida (in questo caso) chiave dell’esoterismo va richiamata con consapevolezza, fuor d’ogni moda o pregiudiziale. Così come Meyrink non è tutto praghese (in questo caso, per esempio, la storia si ambienta altrove), così va ripensata la chiave – tanto amata da un certo fronte di critici – dell’autore esoterico a tutti i costi.
Siamo al cap. 6, titolato Ofelia. Rafforzato interiormente dalla recuperata identità e dall’appartenenza – persino nel compito apparentemente umile – alla stirpe von Jöcher, il protagonista Cristoforo non è più disturbato dal codazzo di bambini che lo seguono, peraltro ormai meno irridenti, e la gente gli mostra sostanziale rispetto. Anche la signora Aglaja, con imbarazzo del giovane; mentre il frustrato tornitore appare da lui patologicamente intimorito. Non solo lo tiene in concetto di creatura sovrannaturale, ma lo sa informato dei suoi segreti notturni: il tentativo di tranquillizzare il pover’uomo si è risolto in un’ancora più sovreccitata preoccupazione di costui. A quel punto parlargli parrebbe un atto di superbia malcelata, come se Cristoforo si degnasse…
Unico a non mutare atteggiamento nei suoi confronti è lo spiacevole signor Paride, il regista, una figura oniricamente minacciosa di burattinaio alla Hoffmann che gli ispira un influsso paralizzante – forse per il tono di voce, anche se si rende conto dell’assurdità del timore. Una figura che per ripugnanza, nell’economia del romanzo, fa pensare al Wassertrum del Golem, altro uomo dell’Ombra: abbiamo ormai capito che, come figure degli Arcani Maggiori dei Tarocchi, una serie di profili archetipici tornano nelle opere di Meyrink con frequenza quasi ossessiva. Quando Cristoforo sente declamare Paride nella stanza di Ofelia, non può fare a meno di considerare quanto a confronto il proprio tono sia vergognosamente infantile (qui inevitabile pensare a un altro Hoffmann dispensatore di incubi, l’autore di Pierino Porcospino, già in circolazione del 1845): e non riesce a tranquillizzarsi pensando che Paride ignora il suo amore con la ragazza. Il figuro potrebbe infatti preparare qualche brutta sorpresa… Del resto anche Ofelia è inerme in balia di Paride, per quanto non l’abbia mai ammesso con il suo amato; ma al ritrovarsi abbracciati nei loro incontri notturni, nei fatti è quell’uomo che temono, al punto da non osare citarne il nome. Peccato che Cristoforo lo incontri ogni giorno, a qualunque ora, come un serpente che stringe il cerchio sempre più prossimo all’uccello insidiato. Per evitare di essere riconosciuti con Ofelia, Cristoforo si organizza per portarla in barca sull’altro lato del fiume.
Constatando i battiti del cuore nell’attesa che Ofelia compaia, il Nostro riflette: “Se conoscessi me stesso e avessi anche soltanto un po’ di potere sul mio cuore, sarei un mago, capace d’influire su tutto quanto è”. Poi gli sovvengono le vecchie storie sul fatto che si fermino gli orologi quando qualcuno muore – e cerca di tranquillizzarsi pensando che finchè sarà lontano da Ofelia, lei non correrà rischi. Però il desiderio è più forte, scende in giardino e all’incontro con lei scopre che l’ansia era reciproca: la ragazza gli comunica che forse stanno vedendosi per l’ultima volta, emerge che ha paura di lui – cioè del torvo Paride – e in un crescendo melodrammatico si congeda dalla panchina del loro primo bacio.
Salgono sulla barca e si lasciano trasportare abbracciati, formulando timori di separazione e sogni d’unione: poi Ofelia si fa promettere che, quando lei morirà, Cristoforo la seppellirà in segreto sotto la panchina del giardino. Allontanate le lacrime, si baciano ancora; lei racconta la propria avversione all’idea di simulare emozioni recitando, ma quando lui propone di evitarle la carriera di attrice coinvolgendo il proprio padre, lo blocca. Il fatto è che i genitori di lei tengono a quella sua carriera: Ofelia non ha affetto per la madre (immagine della madre di Meyrink?), ma vuol bene al padre… peraltro solo putativo, ignora di non esserlo davvero. Fin dall’infanzia la madre ha fatto in modo di separarli, la bimba trattata come una principessina e lui come uno schiavo disprezzabile, “Ti sporchi, non lo toccare”… E invece Ofelia per lui prova una pietà “cocente e terribile”. Probabilmente il suo padre naturale è lo spregevole ricattatore Paride: e dunque la ragazza si augura e prega che il padre putativo provi rigetto per loro, le butti fuori di casa, per liberarla da quel senso oppressivo di pietà – ma lui è troppo buono. L’unica parola che lui sa scrivere è il nome di Ofelia… e ha posto in lei ogni speranza. Dunque, Cristoforo comprenda, lei non può sfuggire da quel destino. Poi si riscuote, commenta che forse la situazione non è così grave come la dipinge ma qualcosa della parte di Ofelia può esserle rimasto appiccicato addosso, e recitando “l’anima se ne ammala”… poi forse farà fiasco, e tutto si aggiusterà da solo.
Il ragazzo si rende conto che lei cerca di ridere per consolarlo, e fino a quel punto gli ha taciuto tutta una serie di angosce divoranti mentre lui sfogava le sue puerili preoccupazioni: Ofelia si dimostra cioè molto più matura e “grande” di lui, e ora gli pare che le sue carezze siano più quelle di una madre. Tutto questo gli crea un montare di ansie… e vorrebbe far qualcosa per salvarla. Vagheggia dunque di uccidere il padre putativo di lei, unico vero ostacolo a una vita libera, ma lei gli lascia le mani, tremante. Forse ha capito cosa lui fantastichi? Resta in attesa, poi la sente pronunciare: “Forse avrà compassione di lui… l’angelo della morte!”.
Lui agitato balza in piedi, prende i remi e la barca va più veloce verso Via dei Fornai sull’altro lato; ma poi la velocità li conduce sul fiume fuori dalla città. lui vi si oppone con energia remando, in preda a pensieri d’omicidio, e finalmente la depone sull’argine del fiume. La lascia a riva, leggerissima, e si sente uomo. Si baciano ancora, ed è tornata a essere l’amata… tanto che ignora un rumore sentito alle spalle. “Poi Ofelia scompare nel vestibolo della casa”.
A quel punto il Nostro si reca nell’officina del tornitore: lo vede curvo sul suo strumento e si sente improvvisamente angosciato all’idea di uccidere quel poveretto. Che si avvicina, pur senza vederlo nel buio… e ora Cristoforo prova qualcosa di ciò che sente Ofelia quella terribile pietà che lo brucia come se fosse avvolto dalla camicia di Nesso. Decide di sopprimere il vecchio e suicidarsi, ma il rintocco dell’orologio sembra annunciare la voce del Domenicano Bianco che aveva rimesso anche i suoi peccati futuri e lo chiama per nome. E a quel punto viene afferrato da Paride che lo trascina alla luce della lanterna sibilando: “Ragazzo, assassino!”. Non riesce a rispondere, il che pare una confessione: deve averlo notato e seguito, “ha individuato che volevo uccidere il vecchio per ‘rubarglielo’, come egli ora mi grida”. Si sente come un uccello tra le spire di un serpente, e che dimentica anche la paura: “Mondo interiore e mondo esteriore si confondono uno con l’altro come mare e aria”, sprofonda nel delirio e sa soltanto che è stato indotto, presuntamente per salvare Ofelia, a falsificare la firma di suo padre su una cambiale.
Si risveglia, sente profumo di rose e non sa se si trovi sulla tomba della madre o nel proprio letto, vive l’angoscia di mancare al dovere quotidiano coi lampioni, ma probabilmente delira a causa della febbre. Tra ossessioni di immagini disturbanti (il sangue che erutta dalla testa del tornitore) e pensieri affannati passa del tempo: finchè non gli pare di risvegliarsi con la sensazione di avere acquisito un’udito prodigioso e di dover incontrare i suoi antenati. Ovviamente è ancora una stazione del suo delirio. Sente suo padre intento a spiegare al proprio padre, aprendo la porta, che non è ancora il momento di quell’incontro: “La scena si ripete nove volte”, e alla decima volta una figura che a giudicare dal suono arranca col bastone, lo tocca sul collo, “il pollice e l’indice squadrati ad angolo retto” – badiamo al particolare. Lui tiene gli occhi ben chiusi, quindi non vede nulla, ma apprende che lì è morto suo nonno e lì
“[…] attende la Resurrezione. Il corpo dell’uomo è la casa in cui dimorano i suoi avi.
I defunti, prima che sia maturato il momento della loro Resurrezione, si ridestano ad una breve vita spettrale nella casa o nel corpo di certi uomini, allora tra il popolo si sparge una voce, si parla di fantasmi e di ossessi”.
Con il pollice e il palmo della mano ripete il gesto sul mio petto: “E qui giace il tuo bisnonno, sepolto nella bara”.
Così dicendo percorre tutte le mie membra sfiorandomi il ventre, i lombi, le cosce e le ginocchia fino alla pianta dei piedi.
Quando posa le mani su di esso, dice: “E questa è la mia dimora! Poiché i piedi sono le fondamenta sulle quali poggia la casa; essi sono la radice e congiungono il corpo di un uomo con la Madre Terra. così tu potrai proseguire il cammino.
Oggi è il giorno che segue la notte del tuo solstizio. Questo è il giorno in cui i defunti cominciavano la loro Resurrezione in te. Ed io sono il primo”.
Lo sente seduto sul letto, intento a sfogliare le pagine di un libro che dev’essere la loro cronaca di famiglia e spiega litaniando: “Tu sei dodicesimo, io fui il primo. Si comincia a contare da Uno e si finisce con Dodici. Questo è il segreto dell’incarnazione di Dio”. Si procede poi su questo tono, con un risultato fortemente onirico da incubo espressionista e che insieme esaspera un po’ il lettore non disposto alla complicata decrittazione di un’astrusa simbolica. Apprendiamo così che l’Albero della Vita dell’Eden sarebbe il sambuco, simbolo della stirpe scelto dall’antenato perché capace di rigermogliare capovolto, “perché ogni sua fibra è così profondamente convinta di avere in comune sia l’Io che il Tu!”. Se poi nelle sue peregrinazioni Cristoforo si è sentito stanco, è perché in sé sentiva l’antenato omonimo, anzi medesima persona, che ha trovato il Grande Padre e la Grande Madre che il discendente ancora non conosce, uno principio e l’altro fine – e più invecchierà, più l’altro ringiovanirà. Di fronte l’un l’altro come Veglia e Sonno, potevano incontrarsi solo nel Sogno: ma “La notte del solstizio ha posto la linea di demarcazione”.
Agli audaci che credono solo nel corpo e compiono peccati per tornaconto si oppongono i vigliacchi che non osano compiere un peccato – ma lui per amore sarebbe stato pronto a commettere un assassinio. “Colpa e merito dovrebbero diventare la medesima cosa, altrimenti entrambi rimarrebbero un fardello, e colui che è gravato da un peso non potrà mai essere libero!”: ma nel suo caso il Domenicano Bianco gli ha rimesso anche i peccati futuri,sapendo cosa sarebbe avvenuto. Egli è libero da colpe e meriti e dunque da illusioni, è il giardino e loro gli alberi, emerge dall’etermità per scendere nell’infinito mentre loro escono dall’infinito in direzione dell’etermità… Però chi ha varcato questa soglia fa parte di una catena speciale, lo spirito della vita del grande albero di sambuco da cui sono nate tutte le religioni: “esse si trasformano, ma lo spirito rimane sempre immutabile”.
Chi è diventato una cima della pianta e porta consapevolmente in sé la radice primordiale sperimenta anzi il mistero del “dissolvimento con il corpo e con la spada”. Una tradizione cinese che conosce declinazioni dette Sci-Kiai, “dissolvimento con il cadavere” o invece Kieu-Kiai, “dissolvimento con la spada”: nel primo caso “la salma del defunto diventa invisibile e costui si eleva ad immortale”, potendo anche tornare in vita o riapparire senza ossa; nel secondo al posto della salma resta nella bara una spada, una delle armi invincibili destinate all’ultima grande battaglia. L’arte del dissolvimento è comunicata agli adepti degni: e chi possiede il Libro Color Cinabro (il cinabro cinese, color rosso vermiglio, è storicamente considerato il migliore) e “saprà come rendere viva la mano destra” costui si dissolverà con il cadavere. Cinabro è il colore delle vesti degli esseri perfetti rimasti sulla terra per la salvezza dell’umanità. Però le vicissitudini del destino, se non comprese, non porteranno giovamento e la vita parrà un futile gioco: quando invece iniziamo a capire il linguaggio vivente del libro della vita, lo spirito inizia a respirare e leggere. Il corpo non è che spirito cristallizzato e si dissolverà al risveglio dello spirito. E agli occhi del lettore attento, ormai iniziato, apparirà “un Libro supremo, il Libro Color Cinabro che tutti i segreti racchiude” (cfr. le speculazioni di Julius Evola – Il cammino del cinabro, 1963 – che però trapianta il pensiero meyrinkiano in un tessuto ideologico molto diverso). Si tratta dell’unica via per scampare al carcere del fato, e per chi dimentica che esista una libertà fuori da quel carcere non c’è più salvezza…
La “speranza è che il grande Viandante Bianco in cammino verso l’infinito, riesca a spezzare le catene”. Mentre colui per cui il Libro Color Cinabro verrà aperto non lascerà corpo alle spalle, “lavorerà alla Grande Opera dell’alchimia divina”. Quanto al soffio spirituale, è custodito nel Libro Color Cinabro solo per coloro che sono radici o cime di un albero, non per i rami attraversati dallo spirito come un vento: ma in loro il soffio dovrà consolidarsi fino a divenire un raggio di luce. Com’è scritto nel Libro, “Il corpo non può nulla, lo spirito può tutto” e ciascuno parte dalle convinzioni personali, la fede o una Tradizione in cui è nato. Poco a poco il soffio compenetrerà il corpo rendendolo più giovane: e a quel punto si potrà guidare la corrente del soffio. Il primo membro da risvegliare con il respiro è la mano destra, e quando il soffio toccherà carne e sangue risuoneranno i due suoni della creazione, I (ignis, fuoco, al soffio nell’indice) e A (aqua, al soffio nel pollice). “A quel punto dalla tua mano si sprigioneranno le correnti dell’acqua della vita” e posandola sul collo l’acqua fluirà nel corpo, rendendolo imputrescibile. Ma per potersi dissolvere con il corpo, dovrà far bollire l’acqua grazie al fuoco… ed è quello che l’avo si appresta a fare.
Per cui lo sente chiudere il libro, e posargli sul collo la mano squadrata ad angolo retto: avverte allora come una corrente gelida fino ai piedi. Ripensiamo al sogno di Cristoforo, ma anche a tutta la simbolica precedentemente accennata sulla spiritualità gestita con le mani. “Quando porterò ad ebollizione l’acqua, la febbre si desterà in te e tu perderai la coscienza” ma per l’identità tra loro due sarà come se lo facesse in prima persona, pur rappresentando ciascuno di loro solo un mezzo Io. Poi allontana il pollice e passa l’indice tre volte sul suo collo: “Un suono terribile, acuto come una I penetrò nel mio corpo, bruciandomi la carne e il sangue. / Era come se delle lingue di fuoco ardessero uscendo dal mio corpo”. Tutto quello che soffrirà, gli ricorda l’antenato, dovrà sopportarlo in nome del dissolvimento – poi il Nostro perde coscienza.
[…] sarebbe un errore credere, come si fa in Occidente, che il taoismo sia unicamente limitato alla Cina. Dato che la tradizione taoista ingloba ciò che noi occidentali chiamiamo la tradizione alchemica, che ne è parte integrante, è interessante notare che all’epoca della dinastia del T’ang, durante la quale il brutale rigorismo del confucianesimo rimosse in misura più o meno profonda il taoismo dai costumi cinesi, alcuni maestri taoisti emigrarono in altri paesi, e in particolare in quelli islamici, ove, a quanto sembra allo stato attuale delle nostre conoscenze, fondarono o incitarono a fondare la grande tradizione alchemica dei musulmani.
La via del Tao, come l’alchimia, è una via di liberazione; comporta un aspetto exoterico ed uno esoterico. Nel Tao, tuttavia, l’ingrediente puramente alchemico, “alchemico” nel senso che noi diamo a questo termine in Occidente, non è mai il fine principale della Via. […] al suo apogeo [….] il taoismo era per l’élite una gerarchia e per gli altri una via di liberazione, che poneva la conoscenza alla portata di chiunque fosse stato capace di comprendere.
La sommità della piramide esoterica taoista era costituita dal gruppo di adepti o di iniziati chiamati gli “Immortali”; erano sette, otto, undici – il loro numero non era mai definito con esattezza, e i ranghi su arricchivano costantemente coll’afflusso di nuovi “Immortali”. L’“Immortalità”, che non bisogna intendere nel senso in cui la concepisce il cristianesimo, è il fine della vita taoista. Immortalità del corpo in terra, attravero la creazione del “corpo sottile”, corpo fisico ma estremamente purificato, che è immortale. Così lo spirito, senza perdita di coscienza alcuna, è egualmente immortale.
Esistevano diversi metodi che permettevano di realizzare questa immortalità: uno, assai prossimo alla fabbricazione dell’“elisir di lunga vita” praticata in Occidente e nei paesi musulmani, era basato sulla messa in opera di una sostanza misteriosa che i nostri traduttori chiamano “cinabro”, sostanza dotata, si direbbe con terminologia moderna, di una “radioattività” estremamente intensa; i testi cinesi ne descrivono le proprietà, e ne stabiliscono la natura senza possibili dubbi. [Nota del traduttore: Sembra nondimeno che il “divino cinabro” utilizzato dagli alchimisti cinesi fosse differente dal solfuro rosso naturale di mercurio chiamato cinabro in Occidente.]
Un altro metodo, il più corrente, si basava su una tecnica complicatissima di esercizi respiratori e di meditazione visiva su alcuni centri funzionali del corpo. Era tuttavia così difficile arrivare alla fine del primo stadio sulla via dell’immortalità che ben rari sono stati, in tutta la storia della Cina, quelli che hanno saputo raggiungere la meta finale. Il Domenicano bianco è basato su questo secondo metodo; il che è assolutamente naturale, dal momento che Meyrink era personamente molto avanti nella pratica dello yoga. [Gérard Heym, “Il domenicano bianco”, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.].
Curioso (ma capiremo poi perché): anche il cap. 8, come il 6, s’intitola semplicemente Ofelia. Rimessosi in salute dopo due settimane, il Nostro è tormentato dalla nostalgia della ragazza, che è andata a trovarlo mentre era febbricitante lasciando un mazzo di rose. Il padre di Cristoforo, a questo punto, deve aver capito tutto (o lei gliel’ha confessato?) ma il figlioo non osa chiedergli nulla. Lo assiste con premura e Cristoforo si sente in colpa per quella falsificazione ai suoi danni, vorrebbe fosse solo un sogno ma purtroppo è certo non sia così – per quanto i dettagli gli manchino. Invece di confessare, preferisce espiare. Oltretutto l’avversione del padre ai corsi di istruzione tradizionale rende impensabile che lui possa seguire Ofelia in un’altra città… Dal canto suo, il padre cerca di rasserenarlo, anche se Cristoforo sente che il padre intuisce le sofferenze che l’avvenire porterà al giovane. Non riesce peraltro a ricordare di avergli narrato dell’apparizione dell’antenato, eppure il vecchio ne parla come lo sapesse: non potrà evitare dolori – spiega – finchè non sarà annoverato nella schiera dei “dissolti”. Il soffrire, privo di scopo, finisce col risultare un castigo per il male commesso, ma si può sfuggire a “questa orrenda legge della ricompensa e del castigo, […] se accettiamo tutto quanto accade pensando che esso avviene allo scopo di risvegliare la nostra vita spirituale”. A contare non è l’azione ma lo spirito: il che non aiuta soltanto a sopportare, ma può dare origine all’opposto: e “render viva la mano destra” – simbolo dell’agire – significa essere capaci di agire nel “Regno di là” dove prima restavamo esseri dormienti. Si tratta di ripensare una serie di concetti: parlare assume un senso diverso perché nel “Regno di là” tu e io sono la stessa cosa. “Parlare in senso spirituale significa creare; è evocare magicamente qualcosa nel mondo fenomenico”. Anche scrivere ha un significato più profondo, cioè “scolpire qualcosa nella memoria dell’eternità”; e leggere significa “riconoscere le grandi leggi immutabili e agire in confornità per amore dell’armonia”.
Alla richiesta del ragazzo di raccontargli qualcosa di sua madre, il padre chiede di essere dispensato dal parlare del passato rendendolo di nuovo vivo, si amavano, ma – come per tutti i membri della famiglia – “tutto ciò che si riferisce alla ‘donna’ è stato fonte di dolore e di sorte funesta” senza loro colpe. Tutti hanno avuto un unico figlio, come se con quella nascita l’unione nuziale avesse esaurito lo scopo e senza che comportasse la felicità – mogli troppo giovani come la sua o troppo vecchie. Senza intesa sul piano fisico, e con un allontanarsi progressivo… non è certo per tradimento che sua moglie l’aveva abbandonato, lo sentirebbe: forse si è innamorata di un altro e ha preferito lasciare il marito e morire. Alla domanda del figlio su perché abbia abbandonato lui, sospetta che essendo devota cattolica vedesse nella loro via spirituale una “deviazione demoniaca” e forse voleva proteggere il piccolo (il tema è ben rappresentato in un’opera esoterica che Meyrink deve conoscere, Zanoni di Edward Bulwer-Lytton, 1842, e sul punto dovremo tornare). Alla fine Cristoforo apprende che il nome di sua madre era Ofelia (ecco perché, probabilmente, i capitoli si intitolavano allo stesso modo, riferendosi a figure diverse).
Il ragazzo viene sollevato dall’incarico dei lampioni, vi provvederà un addetto comunale. Ma finalmente può uscire, e apprende che Ofelia è partita con l’orrido Paride per la capitale. Riesce anche a ricordare perché quello gli avesse fatto firmare una cambiale, come impegno che non le avrebbe fatto calcare le scene: e invece tre giorni dopo l’infame ha infranto la promessa. Così ogni giorno il poverino si reca alla fatale panchina, mentendo a se stesso sul fatto che ora lei spunterà per incontrarlo: e a volte si accorge di raspare la terra attorno, con un bastone o anche solo con le dita. “È come se la terra mi nascondesse qualcosa che le devo strappare”: come si dice faccia chi muore di sete nel deserto e vi scava buche profonde cercando acqua. Ma non sente più il dolore… a volte siede sulla tomba della madre, attirato dallo stesso nome Ofelia.
Ma un giorno appare un portalettere con un messaggio per suo padre e per lui. Nel testo al barone chiede di non leggere la parte allegata per Cristoforo, ma se dovesse decidere di non dargliela prega di non perderlo d’occhio. A Cristoforo invia un messaggio affettuoso e struggente: colma di gratitudine e d’amore, gli rimanda la cambiale che ha trovato tra i fogli dell’orrido Paride e promette che si rivedranno nel mondo futuro, nel Regno dell’Eterna Giovinezza, per non separarsi più. Ma lo supplica di vivere la sua vita e non abbreviarla per amore di lei, che ora è libera: ha deciso di lanciarsi nel fiume (gli antichi timori del vecchio tornitore legati al testo teatrale che lei stava provando trovano una sinistra conferma), ma gli sarà vicina sempre.
Legittimo domandarsi, a fronte di un tema che già avvicinava a Zanoni, se Meyrink non conosca una triste storia riguardante Edward Bulwer-Lytton, narratore ed esoterista vittoriano, nei suoi anni giovanili. La cui amata Lily era sparita all’improvviso, per fargli giungere tre anni dopo una lettera straziante: vi raccontava d’essere stata costretta a un matrimonio d’interesse, di sapersi destinata a morire in breve tempo e pregava, quando ciò accadesse, di visitare la sua tomba. Muore in effetti nel 1823, Edward veglia sulla pietra di lei a Ullswater e compone una poesia The Poet to the Dead dove la morta reca il nome di Viola, come poi la protagonista di Zanoni (mentre in A Strange Story la protagonista si chiama Lilian). E il lutto, a suo dire, getterà un’ombra su tutta la sua vita successiva, oltre che sulla sua produzione narrativa.
Cristoforo è colpito nel profondo, ma si rende conto di non versare lacrime. La sua anima si è come irrigidita, e i suoi piedi lo riportano meccanicamente fino a casa. Solo per un attimo, una fitta tremenda lo attraversa: ma poi cerca “il punto da dove viene il dolore e non riesc[e] più a trovarlo. Si è consumato in se stesso come un fulmine”. A tavola col padre vorrebbe mangiare ma non riesce a inghiottire: a subire la sofferenza è il suo corpo e non lui – quindi, pur nelle analogie, una situazione un po’ diversa dalla conquistata serenità finale dell’eroe del Volto verde. Ofelia tiene il suo cuore in mano perché non si schianti…
Vorrei essere felice che ella sia con me, ma ho dimenticato come si fa ad essere felici.
Per rallegrarsi è necessario il corpo, e su di esso non ho più alcun potere.
Sarò dunque costretto a dover vagare qui sulla terra come un cadavere vivente?
Ofelia – capisce ora – è morta alle tre di notte. L’ha sognata sorridente, accanto al suo letto, che lo esortava a non dimenticare la sua promessa. Quale? A un tratto pensa che potrebbe riguardare il recupero del corpo dalle acque del fiume, e si precipita – ma poi capisce che dovrà andare alle 11 di sera, ora dei loro consueti appuntamenti. E a quell’ora, con la barca, ne ripesca in effetti il corpo. La seppellisce come d’accordo accanto alla panchina.
La notizia della morte di Ofelia tarda a circolare, e Cristoforo realizza di essere l’unico raggiuntone.
Ero pervaso da un singolare stato d’animo fatto di indescrivibile solitudine e di ricchezza interiore che non avevo bisogno di condividere con nessuno.
Tutte le persone accanto a me, persino mio padre, mi facevano pensare a figurine di carta che non appartenevano alla mia esistenza e facevano solo parte dello scenario.
Passa ore seduto sulla panchina, stupefatto dal non provare la minima sofferenza, e sentendosi profondamente unito a lei: e sulla terra si sente ormai una sorta di cadavere ambulante, occupato da un’identità antica, un progenitore che cancellerà ogni traccia di ciò che lui sente d’essere. Nondimeno ha visioni di luoghi sconosciuti, ode attraverso un organo interiore parole che per ora non comprende, e scandite dalle labbra di individui vestiti in modo strano, conosciuti ma non riconosciuti… Quanto ai luoghi ignoti, le vette innevate scagliate nel cielo le identifica come “il Tetto del Mondo, il Tibet misterioso” – e sarebbe suggestivo pensare che qui Meyrink avesse in mente i visionari dipinti di Nicholas Roerich, all’anagrafe Nikolai Konstantinovich Rerikh (1874-1947), figlio di un padre baltico-tedesco e di una madre russa, pittore, teosofo e cultore d’ipnosi le cui opere colpiranno anche Lovecraft. In realtà non è necessario, la Tibetan connection suscita in ambito teosofico ed esoterico spunti visionari anche prima di Roerich che vi offrirà visioni indimenticabili.
Le visioni continuano con “steppe sterminate, carovane di cammelli, monasteri asiatici immersi nel più profondo isolamento, sacerdoti in vesti gialle che recavano in mano mulini da preghiera, rocce scolpite e trasformate in giganteschi Buddha seduti” eccetera, forse ricordi del progenitore che ora risorge in lui, mettendoli in comune. Del resto, a fronte di amori e gioia di vivere dei coetanei, Cristoforo non prova che gelo – proveniente “da un mondo siderale che era la patria della mia anima”, in virtù di una trasformazione alchemica della sua interiorità. Un fenomeno descritto di frequente nella agiografie cristiane o di altre religioni e di solito frainteso: l’unico oggetto del suo desiderio, Ofelia, è già presente in lui con certezza.
La vita esteriore, peraltro, procede senza lasciare tracce: forse passando gli anni seduto sulla fatale panchina, e con pochi ricordi. Come l’improvviso arrestarsi della ruota idraulica del tornitore, col calar del silenzio sul vicolo; o la confessione al padre di aver falsificato la cambiale – ma con quali reazioni? Ricorda solo la soddisfazione che non ci fosse più segreti e, sull’altra questione, la felicità che il vecchio tornitore non fosse più costretto a lavorare. Ma forse è Ofelia ad avergli suggerito quelle sensazioni… in ogni caso, nomen omen, è davvero diventato una colombaia in cui coabitano Ofelia, il progenitore e la sua identità di ex-giovane. Quanto alle tante conoscenze che possiede, impara a capire che l’anima è onnisciente e onnipotente, e occorre sgombrare la via dagli ostacoli. “Dico questo a te che mi hai prestato la mano, per ringraziarti di scrivere in mio nome”: la vera metamorfosi è quella della forma corporea, spiritualizzata e resa immagine della divinità.
S’avvicina il tempo, in cui riaffiorerà la dottrina di questa alchimia: essa giace morta, sepolta sotto le rovine del fachirismo pietrificato dell’India.
In balia dell’influsso plasmante del progenitore, ero diventato […] un automa i cui sensi si fossero raggelati, e così rimasi fino al giorno del mio “dissolvimento con il corpo”.
Intanto in città è corsa voce che il tornitore Mutschelknaus abbia perso la ragione. In giro per commissioni si vede solo la moglie, sempre più sporca e trasandata. Il Nostro non sa neppure se lei lo riconosca: parla da sola, e quando chiedono di Ofelia risponde che è in America. Il Nostro ha perso la cognizione sullo scorrere del tempo, ma quando finalmente s’imbatte nel tornitore, quello sembra non vederlo. Salvo poi bofonchiare qualcosa che potrebbe dimostrare il contrario: e a un tratto è come se Ofelia fosse davanti a loro, avvertita da entrambi. Lei ha comunicato al vecchio di essere morta e di amare Cristoforo, come il tornitore gli rivela: “Sì, è morta! Ma non è scomparsa, il Figlio di Dio, il Domenicano Bianco, ha avuto misericordia, così Ofelia può rimanere con noi!”. In sogno lei ha convinto il vecchio a smettere di affannarsi sul lavoro, e quando è entrato di notte nella Chiesa di Santa Maria gli è stata accanto, a spiegargli quale rituale il Domenicano Bianco stesse celebrando all’altare; e ormai lì alla panchina, il vecchio vede Ofelia tutti i giorni. Felice nel Paese dei Beati, dov’è anche il padre del tornitore, in pace. E la sera in Paradiso Ofelia interpreta davanti al pubblico degli angeli la protagonista nel dramma Il Re di Danimarca, dove alla fine sposa il principe. Le piaceva così tanto recitare… come Cristoforo gli sente dire, sapendo che non era vero.
Turbato che “il regno della menzogna raggiunga persino l’Aldilà”, Cristoforo si scopre in preda all’amarezza (torniamo in qualche modo alle visioni fallaci sull’Aldilà descritte nel Volto verde). Ma la presenza di Ofelia pervade l’amato fino a fargli capire che il tornitore vede solo l’immagine di lei: “È una allucinazione, la creatura di desideri lungamente nutriti; il suo cuore non è diventato freddo come il mio, per questo egli vede la verità in modo distorto”. Anzi il tornitore incalza che i defunti “possono diventare di carne e d’ossa e vagare tra di noi. Ci credi?!” (casi del genere sono ben rappresentati in Swedenborg, per esempio). Però la risposta diplomatica del narrante non basta al vecchio: “No, tu non ci credi! Ofelia vuole che tu stesso veda per crederci. Vieni!”, ma poi si ferma, come percepisse una voce. “No, non ora. Stanotte” conclude e si allontana. Cristoforo non sa cosa pensare.
(12-continua)