di Luca Baiada

Ma somigliano tanto a quelli. Un romanzo breve di Friedrich Dürrenmatt del 1952 ci porta a spasso attraverso una Svizzera d’altri tempi, dove si vive con la porta aperta, e dove sornione, furbesco, un potere politico, burocratico e poliziesco ammicca fra piccoli cinismi per proteggere affari multiformi. Ma non è questo il punto. Come in altri testi del grande scrittore, la questione del male e quella del tempo si affacciano e spariscono, occhieggiano, si lasciano intravedere.

Lontana, da prima della guerra mondiale, pesa ancora un’antica sfida tra due uomini induriti dalla vita. Si sono incontrati in un fetido locale di Istanbul, quando uno era già un poliziotto – è Bärlach, che lascia la Germania nel 1933 per non servire il nuovo regime nazista – e l’altro ambiva a una vita di avventure spregiudicate, di sregolatezze, di piaceri e rovesci: un’esistenza senza morale, senza freni. La contesa, sfida atroce fra il bene e il male lanciata di fronte all’infinito, finirà per pesare sulle loro vite sino a un esito brutale, assurdo, quando ormai sono sull’orlo della vecchiaia e della fine naturale.

C’è un’eco ritardataria di Pierre Loti, di orientalismo turchesco, in certe atmosfere da bassifondi, in certi fetori che ancor oggi straniscono nella metropoli fra Asia ed Europa, e che molti anni dopo il libro di Dürrenmatt colpiranno anche la fantasia del viaggiatore Alberto Arbasino.

A Istanbul siamo in un postaccio da ubriaconi e a raccontare è il criminale. Ma racconta dopo, quando vive nella placida Confederazione, sull’orlo dello smascheramento scenico:

Ci siamo incontrati per la prima volta in quella bettola ebrea sul fiume del Bosforo. […] Tu Bärlach, eri un giovane esperto della polizia passato dalla Svizzera al servizio dei turchi per riformare chissà che cosa – e io, beh, io ero un avventuriero vagabondo, come adesso, avido di conoscere questa mia vita, la unica che vivrò, e questo pianeta misterioso. È stato un amore a prima vista, il nostro, nato in mezzo a ebrei infagottati nei caftani e a greci sudici[1].

La situazione, prevedibile e insieme necessaria, sa un po’ di romanzo russo in sedicesimo, ma anche di scacchiera in giallo e di pignoleria cantonale. E c’è qualcosa di un’anima tedesca, però senza pretese e appartata sui massicci montuosi del Vecchio continente. È un timbro immensamente lontano dall’italianità, dall’italica levitas e dai suoi accompagnamenti barocchi:

Dicevi che era una sciocchezza commettere un delitto, perché ti sembrava impossibile usare la gente come le pedine degli scacchi. Io invece più per contraddirti che per convinzione, sostenevo la tesi che proprio la confusione dei rapporti umani rendeva possibili delitti che non potevano essere scoperti, e che proprio per questo motivo la maggior parte dei delitti restavano non soltanto impuniti ma anche insospettati.

È davvero così? Vediamo meglio: non c’è questo tipo di legame, anche con risvolti torbidi, in ogni ricerca della verità che vuol risolvere, razionalizzare a ogni costo? E quindi in ogni conflitto strumentale a una narrazione condizionata dal nascondimento tattico e dal disvelamento strategico, insomma in ogni conflitto funzionale al depistaggio e al chiarimento libresco? Se si dovesse rispondere di sì, allora ci sarebbe uno stregone in ogni Leonardo Sciascia. Per me, non sarei disposto a pagare questo prezzo amaro.

Il poliziotto diventa giudice, ma già ha sottomano un boia per regolare i conti, e l’esito sarà spietato. Ma non è neanche questo, il punto. Dei due, fra il criminale per vocazione e il poliziotto, in fondo il romantico è il primo, quando rievoca i bei tempi:

E continuammo a lungo a bisticciare, animati dal fuoco della grappa che l’oste ebreo ci versava e poi, forse trascinati dalla nostra giovinezza, nell’euforia, abbiamo fatto una scommessa, mentre la luna tramontava sull’Asia Minore, una scommessa di cui chiamammo a testimone il cielo.

Non c’è simpatia in nessuno dei due, non ci deve essere, perché non è questo che serve, non è questo il fuoco del discorso. Piuttosto, la questione vera brilla decentrata, quando il criminale insulta l’uomo d’ordine per la sua vita grigia e prevedibile; il delinquente si vanta, invece, della propria. È una vita appetibile, trasgressiva; è imperiosa e divina, corre libera senza le catene della coscienza:

Ora nell’oscurità, nel folto di città perdute, ora nella luce di posizioni splendide, colmo di onori; mi sono divertito a fare il bene quando ne avevo voglia e tornavo a fare il male quando mi saltava in testa. Uno spasso avventuroso[2].

Questo ci avvicina alla meta e insieme ci respinge. I due personaggi, tanto legati fra loro, sono forse due volti di un personaggio solo? O meglio. I tipi umani che rappresentano – ed è un po’ il colmo, che l’immobile Svizzera degli anni Cinquanta faccia da sfondo – esprimono la stessa inquietudine, le stesse origini burrascose, inappagate, traumatiche? Se fosse così, il dispositivo della trasgressione e quello della repressione finirebbero per integrarsi quasi sino a combaciare, con un sottotesto scottante. L’opera in giallo di Dürrenmatt non affronta questo interrogativo, e il suo finale geometrico serve a chiudere una trama, non a schiudere un problema. Ma può, la letteratura, affrontarlo?

Forse sì, se accetta una certa trasversalità, proprio sul filo di quella domanda. Lasciamo la misurata Svizzera e andiamo in Francia: quella dei Miserabili. Victor Hugo descrive così l’ingresso nella polizia di Javert, figlio di gente misera e irregolare:

[La società] tiene irrevocabilmente lontano da sé due categorie di individui, coloro che la attaccano e coloro che la custodiscono; non aveva scelta che fra queste due categorie; in pari tempo sentiva dentro di sé un fondo di rigidità, di regolarità, di onestà complicato da un odio inesprimibile per questa razza di fuorilegge cui apparteneva. Entrò nella polizia[3].

L’intuizione di Hugo è forte, anche se potrebbe non essere del tutto originale. Per tratteggiare questo punto di fondo, che Dürrenmatt lascia a noi come estremo enigma quando tutto sembra risolto, proviamo a finire l’ampio giro – siamo partiti da una bettola di Istanbul – e arriviamo in Italia, ad ascoltare una voce che non ci saremmo aspettati.

A suo modo, nota la stretta parentela fra uomini d’ordine e delinquenti anche Giuseppe Parini, nell’arguto resoconto del viaggio nell’India Pastinaca, quando si fa beffe degli intellettuali prostituiti, delle accademie, delle ipocrisie. Ecco gli uomini di cultura che fingono disinteresse:

Io ne colsi un dì uno attorno ad una eterna dedicatoria d’un suo libro ad uno appaltatore, a cui egli aveva trovato una genealogia sino alla torre di Nembrotte, senza che vi fosse accennato né anche il menomo sbirro o il menomo manigoldo[4].

Al potere ufficiale non piacciono le parentele coi devianti, e per il potere illustre, in fondo, non ci sono molte differenze fra i trasgressori e le guardie.

Il giudice e il suo boia, come in Dürrenmatt, finiscono per procedere intrecciati, perché quella sfida al cielo continua a unirli. Però, un momento. Lo sfondo svizzero della questione, all’apparenza così incongruo, a questo punto si rivela esatto, calzante. La sfida reciproca sotto il cielo, a ben vedere, ha bisogno di una reggia, di un baluardo apicale affacciato come un terrazzo di lusso. Quella canzone di Lucio Dalla, Angeli, è ambientata a Lugano: «Muore la notte quando il vecchio con la scopa / la butta in cielo e splende il sole sull’Europa…».

 

 

[1] Friedrich Dürrenmatt, Il giudice e il suo boia, Feltrinelli, Milano 1993, tit. orig. Der Richter und sein Henker, 1952, pp. 61-62.

[2] Ivi, p. 64.

[3] Victor Hugo, I miserabili, trad. di Marisa Zini, Mondadori, Milano 1988, p. 174.

[4] Giuseppe Parini, Discorso che ha servito d’introduzione all’Accademia sopra le caricature, in Giuseppe Parini, Prose, a cura di Egidio Bellorini, Gius. Laterza & Figli, Bari 1913, p. 334.