di Roberta Cospito

Premiato alla scorsa edizione del Festival di Cannes con il Premio Speciale della Giuria, Il seme del fico sacro è l’ultimo film del regista iraniano Mohammad Rasoulof. Nel 2020 il suo film Il male non esiste, dedicato alla pena di morte, aveva vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino. lI seme del fico sacro è stato girato senza il benestare del governo iraniano, condizione che ha costretto il regista, già arrestato nell’estate del 2022 e poi detenuto nel carcere di Evin, divenuto noto ai più dopo la vicenda di Cecilia Sala, a ripiegare spesso in ambienti interni protetti e in pochi esterni lontani dai controlli del regime. Oggi, a eccezione di Soheila Golestani che interpreta la moglie del giudice protagonista, tutti gli attori e la troupe non si trovano più in Iran, dove è in atto un processo in corso nei confronti di tutti coloro che hanno preso parte al film, accusati di propaganda contro il regime, attentati contro la sicurezza pubblica, diffusione della prostituzione e corruzione sulla Terra.

Il seme del fico sacro è un coraggioso racconto che, descrivendo i dissidi all’interno di una famiglia, narra della vita quotidiana nello stato teocratico iraniano. Iman, il pater familias, ha da poco ottenuto l’ambita promozione a giudice presso il Tribunale della Guardia Rivoluzionaria Iraniana, proprio mentre un’ondata di proteste contrarie al regime dilaga per tutta la nazione. Quando il giudice si rende conto che la sua pistola d’ordinanza, simbolo del potere violento, è misteriosamente scomparsa dal cassetto del comodino della sua camera da letto, sospetta sia della moglie sia delle due figlie. L’episodio è centrale, ma privo d’importanza per lo spettatore, è il classico “espediente MacGuffin”, un pretesto che funge da propulsore dell’intera vicenda. Le due giovani, con in mano i loro telefoni cellulari, che diffondono senza filtri le immagini della protesta e la violenta repressione della polizia, vivono una realtà molto diversa rispetto a quella della madre che subisce l’informazione televisiva di Stato, ma soprattutto diversa da quella del padre che, contrariamente alla donna che prova ad avere un dialogo con le figlie, non dimostra nessun segno di apertura e comprensione. L’uomo, unico portatore di reddito all’interno della famiglia è nella posizione di stabilire le regole di comportamento delle figlie, condizionando il comportamento di sua moglie che cerca, con una tenacia che man mano va attenuandosi, di mantenere unita la famiglia. Il suo compito si rivela, però, impossibile poiché l’uomo, spaventato dal rischio di rovinare la sua reputazione e di perdere il lavoro, diventa sempre più paranoico e inizia, in casa propria, un’indagine in cui viene oltrepassato ogni limite. Il giudice, infatti, diverrà sempre più violento finendo con l’applicare alle figlie e alla moglie le pratiche riservate ai dissidenti politici.

La maschera del padre e marito premuroso cede velocemente il posto all’inquisitore, non appena la famiglia mette in discussione il credo e l’operato di Iman che, altrettanto rapidamente, è riuscito a tacitare la parte onesta della sua coscienza per condannare a morte quanti vengono considerati nemici del sistema senza neppure una verifica delle prove a loro carico. Il film si concentra sulla famiglia, ma non si tratta di un semplice scontro generazionale. Mai come in questo caso il personale è politico, anzi il privato è politico e i normali rapporti familiari e sociali vengono sostituiti con metodi di coercizione e di controllo violenti, divenendo così il perfetto doppio dello Stato teocratico, dove la religione si è trasformata da fede in ideologia politica e, infine, in repressione violenta.

La pellicola mostra come la società eserciti forti pressioni sulla famiglia del giudice – da quelle subite dall’uomo sul posto di lavoro, alle urla di protesta della folla in rivolta che entrano in casa dalle finestre che affacciano sulla strada – e racconta quanto sia fondamentale l’opposizione a questo stato di cose, con particolare attenzione alla forza delle protagoniste femminili il cui simbolo è diventato ormai Mahsa Amini, la ragazza assassinata in Iran nel 2022 dalle forze dell’ordine morale islamico, perché non indossava correttamente il velo.

Sono le giovani il motore della rivolta in famiglia, non solo perché hanno a disposizione i video girati con i telefoni, ma soprattutto per la scelta di non ignorare quanto accade. Quando la repressione colpisce un’amica delle ragazze, il cui volto tumefatto riempie lo schermo, le due sorelle decidono di accoglierla in casa e prendersene cura, coinvolgendo la madre nell’opera di soccorso. E da quel momento che la donna non riesce più a ignorare la realtà.

Nel film è evidente lo scarto tra le immagini della propaganda ufficiale del regime trasmesse e diffuse dalla televisione, e quelle riprese coi cellulari dai partecipanti alle manifestazioni di protesta, diffuse grazie ai social. Alcune di queste sequenze sono state utilizzate per il film e si riconoscono sia dal formato verticale dell’inquadratura sia dalle scene particolarmente violente e caotiche che culminano con un uomo in divisa che spara verso la telecamera di un telefonino.

Il seme del fico sacro che parrebbe essere un titolo avulso dalla storia, nasce da un’esperienza del regista che, conosciuto l’albero in una delle isole meridionali dell’Iran, prende il fico sacro come simbolo di resistenza. Il ciclo di vita di questa pianta ha colpito l’immaginario di Mohammad Rasoulof: i semi della pianta cadono sui rami di altri alberi attraverso gli escrementi degli uccelli che di questa si cibano, germogliano e crescono penetrando con le radici il fusto della pianta ospite, spaccandola dall’interno.

Le nuove generazioni, i nuovi semi che nascono nel regime degli ayatollah si sostituiranno a esso cancellandolo e rimpiazzandolo, pare volerci dire il regista.