di Neil Novello
Victor Claass, Giochi di posizione. Breve storia dei biliardi dipinti, Bibliotheka, 2024, euro 15,00
Un privilegiato luogo di incontro tra la storia dell’arte e il cosiddetto «serio ludere» del gioco del biliardo, il pittore e il giocatore lo ritrovano espresso nel concetto di «ginnastica della visione». Essa riguarda, come nel caso di Edgar Degas, anzitutto la passione dell’artista per il gesto compiuto dall’arteficie del tavolo verde. Nel virtuoso del biliardo, e anzi nella lingua del gioco biliardistico, si è dinanzi a un luogo in cui l’atto di vedere equivale quasi a una profezia, all’immaginazione visionaria con cui le bilie, dapprima immobili, colpite per via diretta o animate indirettamente dalle sponde, iniziano a muoversi percorrendo un tracciato geometrico, un cammino predestinato.
Il libro di Victor Claass, dal titolo rubato ad un’opera di Degas e tramite la mediazione della «carambola» francese, compone un ritratto dell’iconografia pittorica del biliardo. Da Degas, appunto, decorre un discorso. Perché il crinale di confine tra la storia dell’arte e il tema del biliardo, tra pittori che hanno dipinto il biliardo e pittori che hanno giocato, necessariamente passa da una serie di più e meno celebri artisti: Chardin, Caillebotte, Courbet, Duchamp, van Gogh, Man Ray, Braque, per citare solamente la prima sequenza elencata da Claass.
Il gioco del biliardo, dunque. E la storia dell’arte, cioè il punto di vista, sul gioco e i giocatori, i tipi umani e le scene di genere, le posture, le dinamiche sociali, gli atti e i motivi, insomma lo sguardo da parte dell’artista sulla realtà del biliardo. A riguardo, si inizia con un’opera di James Ensor, Scheletri che giocano a biliardo del 1904. Su un fondo giallo oro, circa al centro geometrico del quadro, Ensor traccia la silhouette di un biliardo, mentre una dozzina di scheletri, tra spettatori e giocatori, sopra, intorno e persino sotto il biliardo, gravita nei paraggi del tavolo di gioco. È evidente che nell’intenzione di Ensor l’atto è dissacrante e coincide con una lettura, un’interpretazione del gioco sospesa tra l’ironia e la vis sarcastica. D’altra parte, il «caricaturista» Georges Meunier, nel suo Partita di biliardo del 1899, identificando le tre bilie del gioco con i relativi sederi di tre donne comodamente accovacciate in un prato verde, favorisce una lettura, e non solo in apparenza, di tipo sessista. Il gioco del biliardo, dunque, informa l’immaginario sociale di un luogo comune, o meglio di uno stereotipo di genere, per cui il biliardo è un gioco maschile, non è un gioco femminile, ed essendo un gioco cosiddetto «cerebrale» è per gli uomini e non è per le donne.
Per contraddire il nesso sessista, tra l’indistinta folla di circa trenta persone e alcuni animali nella Partita di biliardo di Louis-Léopold Boilly del 1807, l’artista francese sceglie di porre in primo piano una giocatrice. Essa è colta nel supremo atto di imprimere, con la stecca, il colpo alla bilia. Tale centro drammatico, nella sua evidenza simbolica, esprime il luogo in cui convergono gli sguardi e gli ammiccamenti degli osservatori, come se occultamente la figura femminile sia il centro di un ordito allegorico e psicanalitico, richiamando così un’implicita lettura che va al di là dello stesso gioco. Attraverso la delicata, esile colpitrice di Boilly, infatti, si spiega anche L’emancipazione delle donne di Eugène Ladreyt del 1842. Qui è messo in scena il rovesciamento dello schema fallocentrico, poiché la giocatrice al biliardo è certamente una donna, ma il marito, incuriosito dall’esecuzione tecnica della moglie, è alle prese con il maldestro e goffo tentativo di allattare una bambina, la figlia. Lungo tale tracciato, la quadreria di Claass figura un breve viaggio sull’evoluzione del ruolo femminile in società attraverso la rappresentazione offerta dal gioco del biliardo. E ciò non senza l’analisi di passaggi discriminatori riguardanti i «meccanismi della seduzione», la «sfida erotica», i «piaceri lesbici» intrinseci alla relazione tra la figura femminile e il mondo del biliardo.
Non vi è un esempio, nella scelta dei dipinti di Claass, tutti o quasi legati al «biliardo francese», riguardante rappresentazioni pittoriche del biliardo in cui la disciplina giocata sia l’italiana o la goriziana. Tutti i tavoli da gioco presentano tre bilie, due bianche e una rossa, e al centro del tavolo il grande assente è il castello, sia nella forma a cinque birilli, appunto dell’italiana, sia in quella a nove, propria della goriziana. Anche il Caffè di notte di Vincent van Gogh del 1888 non sfugge alla scelta della carambola. Di nuovo vediamo due bilie bianche, una rossa, e l’assenza del castello centrale. Ma nel dipinto di van Gogh è rappresentata la fine del gioco. Le bilie sono adunate in un angolo, una sola stecca è adagiata sul biliardo, gli avventori traccheggiano seduti ai tavolini, una figura umana fissa lo spettatore in una misteriosa espressione interrogativa. Più di ogni altro artista, van Gogh ha ritratto il carattere di ambiguità e di profondo mistero del gioco. Solo coloro che giocano a biliardo, nella disciplina della carambola, dell’italiana o della goriziana, loro malgrado conoscono il profondo senso di indefinità del gioco, la sua legge transumana, così estranea al nostro mondo, la sua lingua fatta di enigmi ed epifanie, persino la sua impercettibile voce demoniaca, quando combina caso e sciagura, fortuna (come Man Ray titola il suo dipinto del 1938 a tema biliardistico) e bellezza, meraviglia e magia.
Nel biliardo di van Gogh, di per sé un tavolo pittoricamente ingiocabile, nessuna passione umana è veramente spenta. La sua mancata rappresentazione in termini di attività biliardistica e il riposo apparente del biliardo, in realtà evocano un ambiente placido fissato alla fine di una guerra, il teatro muto di un conflitto umano e sentimentale (come nei dipinti di Jacqueline de Jong), la scena di un feroce duello in punta di fioretto, l’agone silente e disperato tra anime che giocando hanno abitato, nel breve e sfuggente tempo della partita, l’inferno. Così l’idea di biliardo espressa da van Gogh (come il Café à Arles di Paul Gauguin del 1888), in realtà appare come il residuo ambientale e umano dopo una fine di mondo, quasi che un’apocalisse, avendo stregato e abbandonato l’umanità, abbia finalmente distrutto ogni volontà e accecato ogni visione. E ancora: come se il gioco, la sua potenza mortifera, finalmente abbia ricondotto ogni cosa alla sua dimensione defunta, trapassata. Con puntuale perizia Claass parla, in van Gogh e Gauguin, di allegoria. E d’altra parte, un passo già dentro la Grande guerra, Otto Dix, nel suo Giocatore di biliardo del 1914, restituisce tutto il pazzo accanimento, la passione bestiale, l’investimento erotico, e diciamo pure la tormentata, lugubre spiritualità del giocatore di biliardo. Nel dipinto di Dix, in cui il giocatore è il solo protagonista della scena al tavolo, si è dinanzi a una creatura idealmente risalita dall’inferno. I suoi occhi sbarrati e allucinati sul punto palla, il suo corpo proteso in una furia, nel giocatore è figurata così l’ombra di un’anima posseduta, un’anima spiata da anonimi voyeurs sparsi nell’oscurità della sala. Ed è in atto, nel folle e abbacinato piegato sul tavolo, qualcosa di più, un pubblico, anzi un plateale rapporto erotico con il mobile in legno, la stecca, la bilia.
Il biliardo abbandonato, vuoto, non giocato, è una scelta anche di Félix Vallotton nel suo dipinto su cartone del 1902. E i giocatori, raffigurati sullo sfondo, giocano un altro gioco, il bridge. La sua riduzione a oggetto di arredo, in realtà non racconta propriamente una storia meramente scenografica. Il biliardo continua a esservi spettatore di se stesso, forma creaturale alle prese con il proprio mistero (Mistero è il titolo di una tela del 1977 di Jacqueline de Jong dedicata al biliardo), oggetto vivente la cui parola è il silenzio e il cui silenzio è un enigma. Nel biliardo di Vallotton, quasi un objet étranger venuto da un altro mondo, è la sua stessa identità infernale a essere penetrata in uno spazio borghese per autorappresentare, nella sua solitudine di realtà già transumana, ciò che ammalia e perturba, ciò che seduce e spaventa, qualcosa che addirittura imperversa. Proprio come il «tavolo spezzato» di Braque (1944), una clamorosa esemplificazione della sua estraneità al nostro mondo, in cui il «rettangolo inamovibile», spezzato, muta in un «poligono a sei lati». Non è più un oggetto piano ma due superfici reclinate, e separate da una linea divisoria, quasi due ali verdi di un mitologico animale borgesiano, un uccello in atto di prendere il volo per ritornare, entro il quadro di un’inclinazione sempre matadiscorsiva, allusiva, nel proprio mondo, in quell’aldilà di fiamme e patimenti, da cui è venuto.