di Franco Pezzini

Orazio Labbate, L’orrore letterario, pp. 120, € 15,  Italo Svevo, Trieste-Roma 2022.

“Qualità primaria è la lingua: da essa ha fondamento e conio quest’orrore letterario. Le opere esemplari, difatti, sono innanzitutto la prova di una voce”. Così in epigrafe, sulla quarta di copertina: una frase che, se non può sintetizzare in formula unitaria la rutilante ricchezza di spunti di questo vertiginoso piccolo libro – una clavicula, poco più di cento pagine densissime sui riti di un lavoro letterario eccellente – ne offre senz’altro lo snodo fondamentale. A dispetto di una certa timidezza corrente nell’uso del riferimento all’orrore – pudicamente sostituito in tanta editoria e in eventi pubblici con altri termini meno compromettenti (come noir o un più vago “nero”, che possono ben dire altro ma tant’è) –, questo grimorio letterario addita con coraggio rabdomantico una cifra identificabile anche nella letteratura italiana, senza ribadire l’ovvio e invece scavando in percorsi vergini, o almeno vergini da questo punto di vista.

Ci viene dunque offerta una serie di schedature critiche, ciascuna con un “cuore”, un exemplum dal testo che evidenzi alcune linee di fondo: e l’aspetto che salta all’occhio è la considerazione di opere mainstream, consacrate senza dubbi come letteratura, a fianco d’altre che almeno negli scaffali della grande distribuzione verrebbero collocate più prossime al genere. Perché la scelta, sacrosantamente, non è nel segno di una classificazione astratta ma di quella qualità di scrittura che, unica, è requisito di “letterarietà” (concetto complesso, sfuggente ma ancora utile, che investe ricerca formale e consapevolezza narrativa, qualità di voce – appunto – e vitalità respirante di un testo).

Qualcosa che può apparire una provocatoria – ma mai sterile – risposta insieme a certa critica pudibonda (di orrore non è bene parlare, certe sottolineature orride sono ineleganti…) e per contro alla spocchia di cerchie chiusissime di un fandom di genere orgogliosamente ripiegato sul proprio ombelico, anche in fatto di horror. Laddove proprio la contaminazione e la ricerca senza pregiudizi di una qualità alta dovrebbero non porre steccati tra “noi che ci siamo sempre occupati di questo” (a volte con linguaggio da strapaese, rinvii d’ascensore tra adepti di conventicole, autopromozioni a pezzi mediocri grazie a pletore di nickname e legioni di taggature, grandi proclami sulla cultura che “all’estero è ancora una cosa seria” abbinata a dichiarazioni imbarazzantemente poco informate, ammiccamenti grati a qualche figuro che hai visto mai, mi fa pubblicare sulla sua rivistina…) e i “salotti” della letteratura. Quel che Le strade di Alphaville di Evangelisti esalta, cioè la vocazione di una paraletteratura ruspante e vitale a trattare dei grandi temi, negletti nei teatrini modaioli di certa grande editoria (eterne paturnie di coppia ed esangui masturbazioni mentali da salotto, appena glassate da una fittizia patina engagé), non è purtroppo comune – ma Evangelisti lo dice chiaro – in questa Italia. Dove mainstream e genere, letteratura e paraletteratura, classici e non, sono spesso oggetto di confusioni grottesche, e non solo sui social. Per cui da un lato si costruiscono teorie barocchissime per giustificare una pochezza nell’uso di strumenti d’analisi (non è necessario sostenere che Tolkien non sia genere, non sia fantasy perché è letteratura: può esistere un genere letterario, cioè le distinzioni letterario/non letterario e mainstream/genere non si sovrappongono automaticamente). Dall’altro, per contro, si è costretti a sottolineare che i classici della letteratura non sono strumenti da venerare nella polvere, ma presentano una funzione ideale di macchina per pensare nell’oggi, con tutte le finezze del buon senso, del rigore storico e dell’onestà (nonostante il sofista di turno sia sempre pronto a saltar su dalla propria poltroncina, pontificando che il profugus dell’Eneide non si identifica nei profughi che vediamo soffrire ai nostri giorni: nomina nuda tenemus). Il fatto è che i classici ci permettono di andare un passo oltre i letteralismi asfittici e aiutano riflessioni più profonde e dialettiche del rozzo strumento dell’equivalenza…

Chiaro che l’orrore di cui parla Labbate sia un concetto più sottile di quello oggi spesso banalizzato a base di effettacci: e richiede, vorrei dire, un’apertura alla complessità e una vita mentale (e interiore) del lettore abbastanza allenata. D’altra parte, pensare di ridurre oggi l’orrore a una semplice virulenza di gore o a maledettismi da poseur (magari quelli che strombettano l’astio per il politicamente corretto onde potersi titillare col politicamente infame) è, prima ancora che becero o infantile, radicalmente sprecato. E invece ha tanto più senso indagare su cosa l’orrore possa dirci, nella ricchezza d’echi del relativo concetto. A partire, come sostiene Labbate in modo convinto e convincente fin dal tessuto febbricitante della sua narrativa (cfr. qui e qui), dalla lingua, dalla voce.

Forte delle letture di Todorov (che non è verità rivelata, ma resta più interessante delle sussiegose critiche snocciolategli addosso anche in tempi recenti, e portatore a tutt’oggi di spunti utilissimi) e di Francesco Orlando, ma anche di un’intera serie di preziosi testi ispiratori (Gardini, Bufalino, Sciascia, Manganelli, Ceronetti, come pure Ligotti, Bernhard e Danielewski) e del riferimento persino a opere videoludiche di livello (Silent Hill di Konami) Labbate propone dunque tre “pance contenutistiche”: mito e gotico, inquietudine e horror teologico-esistenziale, perturbamento investigativo. Tre “pance” che possiamo utilizzare serenamente anche nello studio di altre declinazioni nazionali del fantastico e dell’orrore.

Prima cifra, il mito. Che il gotico – che ovviamente non è sinonimo tout court di horror, ma ne coglie alcuni aspetti fondamentali – possa avere a che fare con il linguaggio del mito, è sottolineatura essenziale: pena il ridurre a freudismi precotti figure che hanno assai più a che vedere con le parole importanti legate alla ricerca di un senso fondante della realtà, dei suoi archetipi e dei suoi pantheon (magari inferi). Cosa diventa il Gran Dio Pan di Machen se lo esauriamo in psicologismi da rotocalco o mode sociologiche sul sesso estremo?

Per cui ecco D’Arrigo, Horcynus Orca (“Romanzo planetario in cui dialetto siciliano e italiano si contrastano, combattono, con la mobilità archetipa dei referenti astratti di un immaginario mitico”); Consolo, Nottetempo, casa per casa (“Là dove le pagine potrebbero offrire subitamente una fantasia paranoica, in verità Consolo sta raccontando una possente fantasmagoria sulla metamorfosi e il suo rovinoso fardello in un territorio siciliano dove la completa disperazione della ratio accoglie, con passione, il Diavolo”); Manganelli, La palude definitiva (“l’opera è riflessa in sé stessa come una preziosa sala di specchi. Il romanzo opera un nuovo livello della forma gotica, perché la lingua è scritta per procurare una dissoluzione psicologica attraverso la trattazione di immagini teologiche e filosofiche”). E poi Gentile, L’impero familiare delle tenebre future; Morstabilini, Il demone meridiano; Di Monopoli, Nella perfida terra di Dio; Ortese, Il Monaciello di Napoli; Lipperini, La notte si avvicina (“A confermare l’orrore letterario sono due elementi: l’apparente innocuità del gruppo femminile, che rappresenta in verità una sostenuta manifestazione fisica del limbo in cui vivono e operano, e la lingua del libro, dal calibrato movimento spirituale, fondata su una all’apparenza mansueta cronaca del soprannaturale, che si affida alla concettosità di una storia realistico-finzionale”). Dove è interessante riprendere in mano un breve, gustoso volume varato anni fa proprio da Lipperini con Giovanni Arduino, Danza macabra. Un ballo nel fantastico sui passi di Stephen King (Bompiani, 2021), che dello scrittore americano riprendeva l’analisi degli archetipi presente nel famoso volume saggistico Danse Macabre, accostandovi però schegge narrative. Il tentativo insomma di ragionare oggi sulle categorie dell’orrore – e di farlo cercando forme non classicamente trattatistiche – non costituisce insomma un’eccentrica novità: l’originalità, in L’orrore letterario, è data dal tipo di indagine (uno specifico italiano con il dato scottante della letterarietà), dalla voce (ricchissima, labirintica, tutta sua) con cui Labbate analizza le altre voci,  e dall’identificazione – da clavicula, appunto – di alcune poche chiavi ermeneutiche.

Un secondo fronte, molto caro all’autore, e vertiginosamente rappresentato nella sua opera, riguarda inquietudine e horror teologico-esistenziale. Lo sappiamo, il fantastico (e in particolare le sue varianti orrifiche) ci sfida a riparlare del Male, a prenderlo sul serio almeno come impegnativa e misteriosa categoria simbolica su cui riflettere: qualcosa che erompe nella storia ma trova poi guizzi spiazzanti nelle singole vite. Vero, la manifestazione pura del Male nella vita quotidiana è rara (trovare una persona realmente malvagia è più difficile che trovare un santo, non foss’altro per lo sforzo antinaturale che comporta): ma se la letteratura è – com’è – laboratorio, permette di rifletterne in modo non inutile a fronte della vertigine di un Male assai più meschino che si fa demone nelle esistenze singole e associate, nelle realtà collettive, politiche, economiche (trattenendo magari con qualche adattamento la distinzione scritturistica tra demoni e diavolo, che implicano contenuti diversi). Aggiungiamo che Labbate tratta lo specifico di un’Italia (post)cattolica, dove un certo tipo di eredità giocata con orrore e ironia dal vecchio Walpole trova nonostante tutto un peso peculiare.

Dunque ecco analizzati Landolfi, Le più belle pagine scelte da Italo Calvino (“Si legge di un orrido psicologico, di una spremitura di divagazioni nella tragedia di una mente consimile a quella di un monaco intento a disegnare, nottetempo, impazzite miniature medievali”); Moresco, Gli esordi (“spezza la cornice del romanzo didatticamente sensibile, di mera fedeltà letterale, poiché suscita estasi e orrore dei sensi. Non permette che tali moti si sperdano in un sentimento indeterminato o fantastico, li eleva a simboli metaforici della morte umana”); Tonon, Il nemico (“scritto, potremmo affermare, da un dolciniano contemporaneo piuttosto che da un chierico istituzionale”); Pierantozzi, Uno in diviso (“Il supporto biblico, l’amuleto tatuato, in Pierantozzi è quindi un’occasione narrativa, una spinta secca per lordare il simbolismo religioso grazie al raptus delle visioni veraci tipiche di un santo durante il martirio”); Genna, Italia De Profundis (“Per effettuare questo racconto Genna deve per forza usare una lingua poetica, massimalista – direi spesso oltranzista –, che tocca con piacere il cut-up burroughsiano, in species quello di Nova Express e I ragazzi selvaggi”); Jaeggy, Le statue d’acqua (“L’orrore letterario si compie soprattutto nello stile, che mostra uno strano collegamento fra dolcezza e perturbante”); Bufalino, Le menzogne della notte (“Sentirsi il Diavolo, quindi esserlo, invocarlo al meglio, per esserlo. Non attraverso un nobile e borghese senso pirandelliano, ma in senso ontologico e dell’orrore”).

Il terzo fronte, il perturbamento investigativo, ci ricorda che, attraverso Poe ma anche Conan Doyle e persino Agatha Christie – quindi nella grande tradizione di genere universalmente riconosciuta –, ma già prima dei misteri alla Ann Radcliffe e altrove, la storia d’indagine come disvelamento di misteri e delle relative inquietudini promana senza dubbi dal medesimo ceppo del gotico. Ciò che non stupisce: l’ennesima mutazione letteraria della quest si consuma in quel labirinto di carni, morte & diavoli che è l’indagine, condotta o meno da un detective (basti pensare a L’uomo della folla di Poe, dove un detective vero e proprio non c’è). Potremmo dire che si indaga sempre in umbra, quindi un brivido nero – “l’orrore, l’orrore” – è inevitabilmente compreso.

Ecco dunque Mari, Fantasmagonia (“Mari decide di divertire usando il soprannaturale, che abbia origine dalla storia oppure dalla finzione romanzesca. […] Il soprannaturale è deriso. Una derisione, in sostanza, che ha una dignità fondativa”); Meldini, L’avvocata delle vertigini (“L’attenzione investigativa […] è rivolta al meraviglioso cristiano e al paganesimo archeologico attorno ai suoi codici. Un esperimento letterario che trova spazio attraverso un’erudita trattazione razionale e indagatoria”); Sortino, Elisabeth (“La cronaca viene rivisitata attraverso una scrittura dell’orrore quotidiano. Cruda, nevralgica ma composta”); Sciascia, La strega e il capitano (“Non è azzardato riscontrare la vicinanza di Sciascia ai toni indecisi tra la storia della realtà e la storia fantasmatica dei luoghi passati propri di uno scrittore dell’orrore letterario come W.G. Sebald”); Eco, Il cimitero di Praga (“A differenza dello stile metallico e preciso di William Peter Blatty – che dal reale serpeggia verso un credo pieno nei confronti del soprannaturale –, Eco si serve di una turbolenta erudizione che si legge come se fosse il verbale di una seduta psicanalitica di caratura hillmaniana sotto sotto parodistica […] Eco non dà effettivo credito alle manifestazioni del soprannaturale, preferendo un orrore donchisciottesco, non religioso, neppure filosofico. Risulta far parte pienamente, semmai, di una valida declinazione razionalistica dell’orrore letterario: il perturbamento investigativo”).

La clavicula di Labbate trattiene tutta la ricchezza autenticamente letteraria dei suoi romanzi – può essere in fondo anche apprezzata come tale, nella forma vertiginosa e godibilissima delle sue stazioni – e anche una certa complessità, per cui non è scontato che raggiunga le mani che più necessiterebbero di essa. Per cui è un libro da far girare, essendo stato varato – come la patafisica di Jarry, anche se con differenti contenuti – “perché ve n’era un gran bisogno”.