di Emanuela Cocco

Veronica Galletta, Nina sull’argine, pp. 224, € 16, minimum fax, Roma 2021.

Non sa cosa fare. Prova un sollievo diffuso, interrotto da picchi di terrore, come il diagramma di un pluviometro che registra scrosci improvvisi, imprevedibili.

Caterina è un ingegnere alle prese con il suo primo incarico, la direzione dei lavori per la costruzione dell’argine di Spina, nella Pianura Padana. Il cantiere la mette alla prova, prevede l’impegno di misurare, scavare, demolire, erigere, è la sua chiamata all’avventura, alla quale lei vorrebbe sottrarsi. Da subito, però, avvertiamo il segno esorbitante di questo mandato. La dimensione del cantiere esonda e travolge senza scampo ogni aspetto della vita della protagonista. Caterina si trova a dover dismettere, prima di tutto, la sua storia con Pietro, storia di lungo corso ormai deteriorata, che cade a pezzi, i cui detriti sedimentano nella mente della donna, con pensieri ricorsivi, domande e macerie che occupano lo spazio fisico della casa in cui vive, ingombra degli oggetti di una vita insieme, rimasti a presidiare senza scopo uno spazio che lui stesso ha disertato. Tutto è cantiere, nella vita di Nina, a partire dal luogo in cui lavora, nel quale è costretta a confrontarsi con uomini che forse la vorrebbero destinata a una posizione di mera rappresentanza, un mondo che la fraintende e la indispone, obbligandola di continuo a prendere la misura di relazioni che sembrano starle strette, fino, a volte, a toglierle il respiro.

L’uomo emerge dalla nebbia come da una vasca di acqua e calce.

E proprio nel cantiere avviene l’incontro con la dimensione del fantastico, che appare nelle vesti di Antonio, l’uomo dello scavo, un operaio che in quel cantiere ha speso parte della sua vita, fino a perderla del tutto, un uomo che di quella dimensione di lavoro e fatica, di precarietà e diritti negati, diventa il simulacro perfetto. Ma Antonio, un uomo stritolato dalla contingenza, dalla materia, morto mentre svolgeva il suo lavoro, è qualcosa in più del suo corpo, qualcosa di impalpabile, come un’idea di giustizia e dignità umana che non può fare altro che restare ancorata al luogo dove è stata negata, dove la verità è rimasta occultata, sepolta sotto un cumulo di  macerie, di bugie, di omissioni, fino a diventare un’apparizione ricorrente, una fantasia riparatoria o forse solo il riflesso intermittente di una domanda che spetta proprio a Caterina raccogliere. Un’ ombra, forse uno spettro, forse una guida immaginaria, Antonio diventa l’interlocutore privilegiato di Caterina in un momento difficile della sua vita, personale e lavorativa, un mentore, una presenza impalpabile, ma insostituibile, che la accompagnerà nel corso delle stagioni diverse che compongono un anno nella vita di una donna che è costretta a cambiare pur essendo terrorizzata dall’idea cambiamento.

Galletta continua il lavoro iniziato con il suo romanzo d’esordio Le isole di Norman (Italo Svevo, 2020), con il quale si era aggiudicata il Premio Campiello Opera Prima 2020, oltre che la finale della al XXVIII edizione del Premio Calvino, di servirsi degli elementi costitutivi delle storie del mistero per strutturare un racconto che lambisce il genere sul piano del dibattito tematico senza mai affondarci dentro come linea principale dell’intreccio. In Nina sull’argine, opera finalista al Premio Strega 2022,  l’autrice utilizza il codice della narrazione fantastica per trattare il tema delle morti sul lavoro rivelando una maturità stilistica e una capacità di visione fuori dal comune. Mentre il linguaggio tecnico si deposita sul fondo delle frasi creando le fondamenta del discorso, gli stilemi della narrazione fantastica lavorano in verticale alla stratificazione del senso. Galletta trasforma, così, la sensazione di tensione e paura che si ha davanti a un evento inesplicabile, nella manifestazione profonda di un senso di colpa collettivo davanti a una struttura del mondo che schiaccia, soffoca e opprime i lavoratori.

Nulla è mai detto in questo romanzo, nulla è argomentato con tutto l’apparato retorico che un discorso del genere potrebbe portarsi dietro. La responsabilità avvertita dalla protagonista come un peso insostenibile, il fragile equilibrio della sua vita, l’angoscia che dal suo sguardo dilaga sul paesaggio, su cose, e persone, il senso di estraneità che avvolge la storia, che fa calare sul volto dei suoi personaggi un velo di minaccia, tutto questo vive come manifestazione sensibile di qualcosa che non può essere detto se non portando sulla scena delle frasi questi oggetti, questi colori, questi volti, questi corpi che mancano all’appello, queste domande specifiche annunciate da apparizioni inquietanti.

Il cantiere diventa, così, lo spazio di raccordo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, ma anche tra quello in cui i vivi si separano da coloro che hanno abbandonato fisicamente lo spazio della relazione per diventare delle ombre, persone che abbiamo conosciuto e che ora ci sono estranee, ma cantiere è anche un luogo che sprofonda nella terra, nel buio recesso di una scavo, il luogo, intimo e privato, in cui ognuno di noi prova a costruire una nuova identità che regga l’impatto con la vita concreta, lì dove è necessario abbattere le nostre costruzioni di adattamento, sradicare vecchie strategie di sopravvivenza, abbandonare una volta per tutte quello che siamo stati per provare a essere semplicemente quello che siamo diventati.

In Nina sull’argine Galletta crea un manufatto di parole che riescono a dare forma tangibile alla nostra comune esperienza umana di inspiegabile compresenza di vita e di morte, di sicurezza e spaesamento, di vicinanza e estraneità rispetto ad altri che avvertiamo allo stesso tempo nostri simili ma dei quali non possiamo fare a meno di avvertire una irriducibile diversità.  Il vero mandato di Nina, quello segreto e profondo, a cui lei non sa sottrarsi, è proprio quello di vedere, mandato al quale l’autrice risponde esibendo nel testo proprio la materia di cui è fatto il mondo, attraverso la vivida presenza del paesaggio, accompagnata dal suo riflesso, la sua ombra e la sua proiezione.

Pioppeti, fiumi, monti, ombre. Il colore dell’acqua da cui affiora il fondo sabbioso, il giallo brillante degli escavatori. La neve. Residui di neve come “piccoli tocchi, getti di vernice.”

Il romanzo si apre in soggettiva dello sguardo della protagonista, occhio che vede e inquadra il paesaggio. Galletta mostra di aver fatto suo l’insegnamento di Flannery O’Connor, che nel suo saggio sulla scrittura, Nel territorio del diavolo, invitava a cogliere il senso della realtà approfondendo il suo contatto con il mistero attraverso la visione, rendendo giustizia, scriveva, la più alta possibile, all’universo visibile. 

Caterina si era guardata indietro.

Alle loro spalle il fiume si allungava fino alla città, stesa sotto ai monti. Due grandi cime dal profilo simile, quasi sdoppiato, come ombre rivelate da un movimento inatteso nello scatto di una fotografia.

Il rigoroso montaggio di dettagli prepara la scena di volta in volta all’irruzione dell’inatteso, realizzando quel movimento verso l’inesplicabile che allontana Nina sull’argine da qualsiasi forma di narrazione cronachistica o pittoresca per far invece approdare il racconto a una resa dei conti tra la realtà sensibile e quella fantasmatica, tra il corpo (della storia, del territorio) e il suo fantasma.

Le strategie di messa in scena di questo incontro, come abbiamo detto, si servono degli stilemi propri del genere, invece di subirli. Le persone reali, appaiono alla protagonista come spettri di una landa psichica messa a dura prova mentre gli incontri con il mondo capovolto, il dialogo con la morte, che ha le sembianze di Antonio, sono immersi in un’atmosfera domestica e tranquilla, a tratti lieve.

La nebbia fa perdere i punti di riferimento, la realtà appare insidiosa e il resoconto degli eventi sempre riformulabile, incerto, i rimandi al mondo animale traslano di stato: una farfalla fatta di stoffa è nascosta nella terra, un uomo vivo e vegeto, l’amante perduto di Caterina, si materializza come figura inanimata e silenziosa sulla scena di un rilevo. La troppa luce rende la vista di Caterina annebbiata, per continuare ad avanzare nella storia lei deve socchiudere gli occhi e accettare di vedere sotto la superficie opaca delle cose.

In tutto questo abitare il territorio viene fuori anche la difficoltà di inserire se stessi nel quadro, del sentirsi a casa all’interno del paesaggio che, invece che essere abitato, abita i protagonisti, loro malgrado. Galletta intesse un racconto che integra al suo interno anche la dimensione di spaesamento propria di chi lascia la sua terra, e la sua veduta, per inserirsi in un quadro diverso che d’ora in poi a fasi alterne, ma senza mai approdare a una salda continuità, lo comprenderà. Nina e Antonio si sentono anche loro, sia che facciamo ritorno a casa, che restino nel luogo che li ha accolti, a casa d’altri, sempre in cerca di un equilibrio impossibile tra quello che sono stati e quello che sono diventati.

La scrittura di Galletta costruisce una storia che è anche un romanzo di formazione in bilico tra due mondi, quello che si manifesta come fenomeno percepibile attraverso i sensi, e quello compreso all’interno di uno scenario mentale. Sospesa tra queste due dimensioni, Caterina, che è alle prese con la progettazione, la costruzione e la verifica di un argine, una barriera di difesa che ha a che vedere con la costruzione identitaria, verrà a patti con la sua fragilità rispecchiandosi negli altri, uomini e donne, come lei spaventati, fallibili, soggetti a cedimenti e cadute, edifici imperfetti che celano al loro interno la falla che prima o poi li farà cedere.

La riuscita di questo uso del fantastico sta proprio nel radicare la sua entrata nel racconto attraverso una sottile omissione riguardo l’attendibilità della percezione della protagonista. Sola, in crisi, in balia delle stagioni, dei traumi affettivi, delle crescenti responsabilità lavorative, e degli inaspettati eventi che la porteranno a fare luce su un caso di morte sul lavoro, Caterina non ha al suo fianco nessun testimone di controllo che possa avvalorare o sconfessare il suo racconto. Al lettore non resta altro che fidarsi e coltivare una disposizione d’animo aperta al mistero e alle sue infinite ingannevoli manifestazioni.

Rimangono a guardare i colori del cielo che si trasforma per la sera, disponendosi in lunghe strisce orizzontali. Un ritmo di campana arriva, prima piano, poi forte, come portato dal vento.

Un romanzo sulla difficoltà di crescere, costituirsi come persona e incontrare l’altro, su quanto la vita stessa sia fragile, esposta al ricatto, soggetta a uno scacco, un incidente, un abbandono, sempre dietro l’angolo pronto a ferirci. Tematiche vaste che Galletta riesce a rendere impalpabili, come la visione registrata da uno sguardo puntato su una vasta distesa di nebbia, oltre la quale si intravede il mondo o forse solo la sua rappresentazione.

Lo straniamento, l’aria sinistra che assumono a volte i ricordi, le rivelazioni, il riverbero perturbante di un tradimento della fiducia, la paura insita nella responsabilità, il senso di colpa, la vergogna, tutto quanto fa della vita di ognuno un viaggio pieno di prove e ostacoli, di fugaci incontri viziati dall’inevitabile possibilità di un fraintendimento, si concretizzano nel testo in una storia dallo stile impeccabile, piena di visioni, avviluppata in un mistero denso, pieno di pericolo e di fascino che non possiamo fare a meno di avvertire come universale, comune a ognuno di noi, che semplicemente viviamo, a occhi aperti o chiusi poco importa, sempre in balia di eventi e di incontri che spesso distorciamo o che ci travisano completamente.