di Francisco Soriano

Il 2 maggio è morto nelle carceri egiziane Shadi Habash. Il giovane regista era stato incarcerato e torturato per la sua collaborazione artistica con il cantante Ramy Essam, esiliato in terra svedese dal 2015 a causa delle persecuzioni per le sue attività dissidenti nei confronti del regime egiziano. Habash aveva realizzato nel 2018 un video musicale dal titolo “Balaha”: significa “dattero” ed è il nomignolo che gli egiziani hanno riservato al loro dittatore. In realtà il riferimento sarcastico si riferisce al personaggio di un film degli anni ottanta in cui si narra la storia di un malato psichiatrico di nome Balaha, finito in isolamento proprio per il suo disagio mentale. La canzone che ha reso Habash un detenuto dissidente conteneva parole di denuncia sociale e non semplicemente di ilarità nei confronti del regime: “Tu vivi nei giardini e noi, invece, dentro le celle… ti hanno rubato le terre promettendoti grappoli d’uva, ci hanno rubato il nostro Nilo e ti hanno lasciato qualche goccia …”.

Per comprendere il grave stato di persecuzione, tortura e violazione di qualsiasi diritto umano in Egitto è necessario riportare qualche statistica ufficiale. Nel mese di aprile di quest’anno sono stati giustiziati nove prigionieri: erano accusati dell’uccisione di altrettanti agenti durante gli attacchi al commissariato di Kerdasa nell’agosto del 2013. L’esecuzione è avvenuta nel mese sacro del ramadan e ha visto coinvolto nella mattanza anche un uomo di 82 anni. A causa di questa spirale di vendetta il sistema giudiziario egiziano ha triplicato le esecuzioni che, nel 2020, ha portato l’Egitto al terzo posto nel vergognoso primato dei Paesi che applicano questa orribile pratica. Le ultime esecuzioni sono solo una parte di quelle riservate a un gruppo di 183 persone condannate a morte con sentenza emessa nel 2014 da un tribunale di Giza e confermate dalla Corte di Cassazione. Nei due mesi di ottobre e novembre del 2020, secondo fonti di Amnesty International, ci sono state 87 esecuzioni di cittadini condannati alla pena di morte. Il Committee for Justice (CFJ) è una associazione indipendente dei diritti umani con sede a Ginevra e attiva negli studi e ricerche sulle violazioni dei diritti umani nell’area MENA, acronimo di Medio Oriente e Africa del Nord. Questa associazione ha stilato un ultimo report dal titolo emblematico: The Giulio Regenis of Egypt. Il documento rappresenta un quadro inquietante perché fa emergere il grado di disumanità delle autorità egiziane che, dalla seconda metà del 2013 (anno del golpe del generale Abdel Fattah Al-Sisi) all’ottobre del 2020, hanno intensificato nelle carceri le loro pratiche repressive: sono deceduti almeno 1.058 prigionieri a causa di torture o morti provocate dal rifiuto di prestare le adeguate cure mediche. In questo caso la pandemia da Covid-19 ha dato una mano al regime. La volontaria astensione da parte delle autorità alle cure mediche nei confronti dei detenuti è una delle modalità preferite dal regime del faraone Abdel Fattah Al-Sisi per spegnere il dissenso dei prigionieri politici. Infatti secondo le stime ufficiali delle associazioni umanitarie il 71% dei decessi totali nelle prigioni, dal 2013 al 2020, è determinato dalla carenza di cure mediche. Nel 2021 la percentuale potrebbe essere addirittura superiore: questa tragedia denota un’inaccettabile deriva umanitaria senza precedenti nel mondo.

Queste sono le stime ufficiali che non tengono conto delle sparizioni e delle detenzioni nei centri di carcerazione “informali”: attività che avvengono secondo modelli di tortura di tipo “sudamericano”, tristemente ricordati per il fenomeno dei “desaparecidos”, cioè persone uccise dopo strazianti torture e occultate in fosse comuni o lanciate ancora in vita nell’oceano da aerei in volo.

In particolare bisogna sottolineare il valore perverso di un articolo del codice penale egiziano, l’articolo 143, che prevede la custodia cautelare a tempo indeterminato quando si viene accusati di reati punibili con la pena di morte: terrorismo, sedizione, reati di opinione e pericolosità nei confronti dell’ordine pubblico. Come in Turchia il reato di terrorismo mantiene una volontaria ambiguità. Questo determina l’allargamento della sua sfera di applicabilità in pene severissime nei confronti di cittadini che, con il terrorismo non hanno nulla a che fare: è un atto pensato e programmato per poter perseguitare con maggiore legittimità e con una parvenza di “legalità”. Meglio sottolineare che, al contrario, i metodi di un terrorismo di stato si riconoscono meglio nei rastrellamenti, nella tortura, nella sparizione di inermi cittadini accusati di aver contestato il regime o, semplicemente, di averne studiato contraddizioni e illegalità. In questo quadro insopportabile di ingiustizie come non ricordare la vile messinscena della cattura e l’uccisione di fantomatici rapinatori accusati di essere coinvolti nell’uccisione di Giulio Regeni, al fine di depistare le indagini dei magistrati italiani nei confronti dei servizi di sicurezza egiziani. Secondo il Committee for Justice (CFJ), dal luglio al settembre del 2020 si sono verificati 557 casi di sparizione forzata nelle carceri e 20 casi di tortura che hanno provocato la morte o danni irreversibili nelle vittime. Questi sono numeri recenti che non considerano tutti i casi dal 2013. Un periodo in cui vi è stato un proliferare di migliaia di incredibili crimini nei confronti di cittadini inermi. Sembra a questo punto naturale sottolineare che le violazioni sono determinate e possibili in sede processuale dalla mancanza di indipendenza del potere giudiziario. Le persone vengono sottoposte all’insostenibile pratica delle carcerazioni preventive arbitrarie e prolungate secondo il sistema delle “porte girevoli”, condizione che si aggiunge alla mancanza di tutele ai fini di un processo equo fra chi accusa e chi si difende. Infatti è “normale” in Egitto la persecuzione dei difensori delle vittime anche attraverso la carcerazione con incriminazioni simili a quelle riservate ai propri clienti. In questo quadro come non ricordare la sorte riservata a Bahey El Din Hassan direttore del Center oh Human Rights Studies of Cairo, condannato in contumacia l’anno scorso a 15 anni di reclusione. Il caso di Patrick Zaki è ancora più paradossale se si pensa che il giovane studente copto è stato incarcerato e mai più rilasciato per aver scritto sui social media pensieri che offendevano e addirittura avrebbero messo in pericolo la sicurezza delle istituzioni egiziane. Il presidente del CFJ ben evidenzia, in molteplici interventi a mezzo stampa, che le autorità egiziane dispongono di elenchi che osiamo definire ‘preconfezionati’, contenenti una serie di accuse che possono essere mosse contro oppositori, difensori dei diritti umani e giornalisti: adesione e finanziamento di gruppi terroristici, spionaggio, incitamento alla violenza e al terrorismo. […] Sostanzialmente servono da pretesto per poter procedere con la custodia cautelare in carcere, da prolungare poi ad libitum, per sbarazzarsi dei cittadini scomodi”.

Nell’ottobre del 2019 Shadi Habash riusciva a far diffondere un suo messaggio con l’obiettivo di chiedere aiuto alle autorità internazionali e testimoniare la condizione dei detenuti politici in Egitto: Resistere in prigione significa resistere a te stesso. Proteggi te stesso e la tua umanità dall’impatto di quello che tu vedi ogni giorno. Ti fermi, vai di matto o lentamente muori perché sei stato buttato dentro una stanza due anni fa e sei stato dimenticato, non sapendo quando ne verrai fuori. Sono alcune settimane che l’attivista Alaa Abdel Fattah ha cominciato uno sciopero della fame e della sete per sensibilizzare l’opinione pubblica sul trattamento sanitario insufficiente o dolosamente assente nelle carceri, soprattutto nel contenimento del Covid-19. Ai familiari della donna sono state proibite le visite e la possibilità di farle pervenire medicinali. Altre due attiviste, Marwa Arafa e Kholoud Said, hanno subito una carcerazione dopo essere scomparse dalle loro abitazioni: sono ricomparse in mano alle forze di sicurezza egiziane qualche settimana dopo. Alle due donne viene tuttora riservato un trattamento davvero “speciale” perché detenute nella sezione Scorpion, che ospita detenuti politici accusati di reati d’opinione. Sembra segnato il destino di Patrick Zaki: nei suoi confronti le autorità si distinguono ancora una volta per la loro sistematica opera di annientamento psicologico e fisico dello studente. Il regime mostra sempre di più atteggiamenti paranoici, disumani e punitivi al limite della sopportazione. La verità è che il sistema economico egiziano getta sempre di più la popolazione in uno stato di depressione provocata da fame e disoccupazione: un sistema sfrontatamente liberista improntato alla corruzione e allo smantellamento dei servizi pubblici. Le risorse vengono spese in sistemi di controllo interno della popolazione e di acquisto di armi come deterrente esterno. Il Cairo è partner privilegiato dell’Italia nell’acquisto di strumenti bellici, secondo le stime più attendibili per un giro di affari di in decine di miliardi di euro. Secondo quanto riferisce la Rete italiana per la pace e il disarmo (Ripd), l’Egitto “è il Paese destinatario del maggior numero di licenze; è in aumento la propria quota fino a 991,2 milioni di euro grazie alla licenza di vendita delle due Fregate Fremm”. E questa è solo una parte delle spese egiziane nel nostro Paese.

Pertanto è evidente constatare che gli affari valgono molto di più della vita delle persone, anche se si tratta di un cittadino italiano come nel caso di Giulio Regeni. Una vergogna ben imbandita sull’altare dell’ipocrisia e della complicità silente a crimini efferati.