di Walter Catalano 

Finalmente la HBO promuove una serie lovecraftiana ? Il titolo lo lascerebbe pensare. Ci siamo quasi, ma non del tutto. In realtà Lovecraft Country, realizzata dalla showrunner Misha Green, già sceneggiatrice di Heroes e Sons of Anarchy, e prodotta tra gli altri, da Jordan Peele per la sua Monkeypaw Productions con J.J. Abrams e la Bad Robot Productions, non attinge direttamente all’immaginario del Visionario di Providence ma all’omonimo romanzo del 2016, opera di un autore statunitense giovane e contemporaneo, Matt Ruff, che prende ispirazione, ancor più che dagli incubi di HPL, dalla cultura pulp di Weird Tales in generale, e ne riutilizza il contesto orrorifico e fantastico come allegoria sociale e politica: il mostro, il vero mostro, qui è l’America segregazionista di Jim Crow. Come ha scritto l’autore, la sua intenzione era “creare un ponte fra l’horror paranormale dei racconti di Lovecraft e l’orrore reale del suo razzismo”.

Ovvio che un progetto del genere solleticasse l’interesse di Jordan Peele, regista nero, apertamente radical, a cui dobbiamo l’ottimo Scappa-Get Out del 2017 e l’interessante ma meno riuscito Noi (Us) del 2019, entrambi horror nei quali il tema razziale e la denuncia del razzismo sono elementi portanti della trama e addirittura dello scenario e del contesto visuale. Un elemento determinante, quest’ultimo, che ritroviamo in abbondanza nella serie: serie interamente black (i bianchi ci sono sì, ma sono gli altri, i cattivi, i nemici…) che ci riporta con piacere alla mente i vecchi film della blaxploitation degli anni ’70, cose carine come Blackula o Shaft il detective. Anche in Lovecraft Country, l’iconografia, i modi, gli abiti e le acconciature, lo slang linguistico (si sconsiglia come sempre la versione doppiata…), le scenografie e gli ambienti, per non parlare della musica (una splendida koinè afro, assemblata dalla Music Supervisor Liza Richardson, che va dal blues del Delta all’Hip-Hop contemporaneo, passando per il Motown), rimandano totalmente alla cultura afroamericana.

Lovecraft, il razzista, il suprematista bianco, l’autore dell’infame poesiola On the Creation of Niggers (citata esplicitamente nella serie) rappresenta un po’ il simbolo letterario di quella magia nera con la quale i bianchi hanno schiavizzato i neri, una magia che però non appartiene ai bianchi e che i neri possono sempre recuperare e usare a loro volta come difesa. “Come fai ad amare tanto questi libri?” – chiede già nella prima puntata lo zio al nipote appassionato di narrativa fantastica pulp mentre sfoglia la mitica e oggi introvabile prima edizione Arkham House di The Outsider and Others, l’esordio in volume di HPL, con l’indimenticabile copertina di Virgil Finley “Gli autori sono tutti bianchi e razzisti” – “Lo so” risponde il nipote – “ma mi piacciono lo stesso”.

Il libro di Matt Ruff è, più che un romanzo, una raccolta di otto storie interconnesse con gli stessi protagonisti, struttura che già si presta bene alla trasposizione seriale. Matt Ruff è bianco però, e Misha Green, la sceneggiatrice del serial, nera: non le bastava ereditare il materiale del testo letterario, voleva espanderlo e adattarlo per lo schermo potenziandone gli aspetti provocatori. La trama resta comunque a grandi linee la stessa, eccettuato il finale, ma vengono apportate piccole e grandi modifiche alla struttura generale e a gran parte dei personaggi. La discriminazione, che è il tema centrale e la ragion d’essere della narrazione, inoltre nella versione della Green non si ferma solo alle differenze di colore della pelle ma include anche quelle di genere (ad esempio nei frequenti cambi di sesso maschile/femminile dell’antagonista) e di orientamento sessuale (il personaggio del padre/patrigno omosessuale del protagonista), in una denuncia decisamente più stringente e diffusa.

In breve la trama è questa: nell’America dei primi anni ’50, un ragazzo di colore, Atticus “Tic” Turner (nella serie il cognome diventa Freeman) reduce dalla guerra di Corea, si mette alla ricerca del padre, Montrose, misteriosamente scomparso. Lo accompagna all’inizio lo zio George, autore del The Negro Travelers’ Green Book, guida turistica sicura per viaggiatori di colore motorizzati (non si tratta di un’invenzione: la guida fu davvero pubblicata annualmente dall’impiegato delle poste newyorchese Victor Hugo Green dal 1936 al 1966: nella fiction, in un ellittico riferimento, zio George, invece di Victor Hugo, cita più volte Il Conte di Montecristo, omaggiando Alexandre Dumas padre, scrittore non a caso mulatto). Durante il viaggio che lo porta ad Ardham, parafrasi “reale” della Arkham lovecraftiana, sfuggirà, insieme all’amica Letitia Dandridge (nella serie Leti Lewis, che non è più solo un’amica ma la fidanzata, aggiungendo così quel tocco di eros e scene piccanti HBO che mancavano al libro), alle insidie dei poliziotti bianchi a alle creature mostruose che emergono evocate dalla magia degli adepti della congrega dello stregone Samuel Braithwhite (figura che può ricordare il Joseph Curwen del lovecraftiano Il caso di Charles Dexter Ward) e dei suoi discendenti Caleb e Christina. Il potere dei bianchi è sostenuto dalla magia del sangue: un gruppo dominante è tale proprio perché sfrutta in senso letterale il sangue delle minoranze. Ma quel sangue che scorre nelle vene di Atticus, discende anche dal figlio naturale che Braithwhite ha avuto con una schiava: i destini dei Braithwhite e dei Freeman (o Turner) sono indissolubilmente e vampiricamente legati.

Bisogna però sottolineare il fatto che l’intreccio dello show parte bene, prosegue meglio, ma via via si ingarbuglia troppo e si perde, procedendo verso la conclusione, in un accumulo eccessivo di trame e sottotrame, di riferimenti e citazioni, di deviazioni tortuose. E’ palese la stessa tendenza all’eccesso, al barocchismo gratuito e un po’ confusionario che già era uno dei difetti di Us, il secondo film di Peele, meno efficace del primo, il più semplice e lineare Get Out. Il messaggio politico molto chiaro e coraggioso in alcune puntate, si stempera e perde gradualmente mordente, cedendo il passo verso la fine al puro divertissement fantastico e all’action più immediata. La serie così risulta estremamente discontinua e ondivaga: sempre efficacissima nelle ambientazioni d’epoca, nella qualità della recitazione, regia, scenografia, fotografia, soundtrack, ecc. (caratteristica portante di tutte le produzioni HBO), ma sul piano della sceneggiatura, altalenante tra puntate entusiasmanti e deludenti, originali e scontate. Alcuni critici statunitensi hanno anche accusato gli autori di aver ricostruito a sproposito dolorosi eventi storici reali solo per fare scalpore, ad esempio il funerale di Emmett Till – il quattordicenne afroamericano linciato in Mississippi nel 1955 sotto l’accusa immotivata di aver offeso una donna bianca – o il massacro di Tulsa – un pogrom che per due giorni infuriò sulla comunità nera in Oklahoma nel 1921 – entrambi usati come contesti romanzeschi in alcune puntate dello show.

Sul piano formale invece, come abbiamo anticipato, la serie viaggia alla grande. I riferimenti tematici e visuali alla cultura pulp, ai fumetti horror E.C. Comics e Creepy, e a tutto il cinema di serie B sono la costante e il punto forte dello show, che spazia di puntata in puntata dall’horror, allo splatter, fino alla fantascienza. Se le prime puntate rimandano più direttamente a Lovecraft – ma soprattutto a quello magico del Caso di Charles Dexter Ward o dell’Orrore a Red Hook, piuttosto che a quello cosmico di Cthulhu o di Yog-Sothoth –  nella quarta la ricerca del Libro dei Nomi (che è cosa ben diversa dal Necronomicon) da parte dei protagonisti Tic, Leti e Montrose, ci porta ad un’avventura in pieno gusto Weird Tales: non tanto quello sofisticato alla Lovecraft, quanto quello più sbracato alla Seabury Quinn, a base di passaggi segreti, catacombe infestate, ponti instabili da oltrepassare su insondabili abissi, tribù indiane mummificate e resuscitate e così via; nella puntata cinque, una pozione magica produrrà la metamorfosi temporanea di una donna nera (Ruby la sorella di Leti) in donna bianca, permettendole di condurre una doppia vita sulla falsariga del binomio Jekyll/Hyde; nella puntata sette e nove si balza invece nella fantascienza con soglie dimensionali e viaggi nel tempo: nel passato, ad incontrare i propri nonni nella Tulsa del ’21, e nel futuro, dove il figlio di Atticus consegna al padre il libro che ha scritto su di lui, Lovecraft Country, che coincide con il vero romanzo di Mutt Ruff, diverso dalla storia appena vista sullo schermo.

A proposito delle principali differenze fra romanzo e serie, i personaggi maschili di Ruff tendono a diventare femminili nella rilettura di Misha Green: il villain della storia non è più l’arianissimo Caleb Braithwhite (interpretato da Jordan Patrick Smith, non a caso uno dei figli di Ragnarr Loðbrók nella serie Vikings), ma l’altrettanto platinata sorella Christina (l’algida Abbey Lee, ancora più cattiva che in The Neon Demon di Refn), che lo manterrà in coma per usarne magicamente il sangue e prenderne l’aspetto seducendo Ruby, la sorella di Letitia; Horace, il figlio di Hyppolita e zio George, appassionato di fumetti, diventa una pestifera ragazzina, Diana “Dee” Freeman (interpretata dalla giovane Jada Harris), sarà proprio lei a dare il colpo di grazia alla malvagia Christina nel finale; zio George (Courtney B. Vance) muore quasi subito nella serie, ma è un personaggio forte, nel libro invece non muore ma è molto meno importante; Ruby Baptiste (l’anglo-nigeriana Wunmi Mosaku), la sorella di Letitia, dopo aver provato la vita da donna bianca grazie alla magica pozione la rifiuterà recuperando la sua black pride, nel libro invece ne viene assuefatta come una tossicodipendente e non torna più alla sua natura originaria; Montrose (Michael K. Williams, già famoso per The Wire, Boardwalk Empire, Hap&Leonard), il padre di Atticus, non è troppo diverso dal personaggio letterario se non per essere omosessuale e condividere alcuni dei poteri magici dei Braithwhite; Letitia Lewis (Jumee Smollett) e Atticus Freeman (Jonathan Majors) i protagonisti, infine, restano quasi uguali ai personaggi dal diverso cognome del libro, se non per essere qui anche amanti e non solo amici e per il destino finale meno allegro di uno di loro, che però è meglio non anticipare evitando di rovinare la visione allo spettatore.

Oltre ai personaggi anche un paio delle fin troppe storyline della serie – alcune assai riuscite, altre meno – non hanno corrispettivo nel testo di Matt Ruff.  Ad esempio tutta l’avventura al museo che introduce la digressione fantascientifica e il viaggio nel tempo della nona puntata. Molto più riuscito invece e totalmente inedito rispetto al romanzo, tutto l’episodio sei, con il flashback del protagonista durante la guerra di Corea: qui si raggiungono i momenti più forti dello show quanto a sesso e violenza. Le scene più hot sono affidate alla giovane attrice coreano-americana Jamie Chung che interpreta il ruolo di Ji-ah, un Kumiho, cioè una volpe a nove code: in apparenza una ragazza qualsiasi ma in realtà un demone femminile che succhia l’anima del partner durante l’atto sessuale. Per tornare umana Ji-ah dovrà accoppiarsi con 100 uomini diversi inglobandone personalità e memorie: nel momento dell’orgasmo da tutti gli orifizi del corpo della bella diavolessa emergono, code di volpe o peduncoli tentacolari che penetrano i corrispettivi orifizi del compagno aspirandolo dentro di sé. L’attività sessuale della ragazza pertanto è piuttosto frenetica e complicata così come la sua ricerca spasmodica di partner occasionali. Per il resto è una giovane normale con una matrigna (che la spinge ad arrivare a 100 vittime prima possibile e liberarsi), delle amiche ignare della sua vera natura e che lavora come infermiera in un ospedale di guerra sud coreano. La sua migliore amica, una collega infermiera, è però una spia comunista che verrà individuata dagli americani.

La scena più impressionante – amplessi a parte – vede tutte le infermiere coreane inginocchiate in fila, l’ufficiale yankee pistola alla mano minaccia di sparare in testa a tutte, una per una, finchè la sospetta spia non rivelerà la sua identità: per dimostrare che non sta scherzando, abbatte la prima innocente ragazza che stramazza a terra, poi chiama un soldato nero della scorta a proseguire il lavoro, Atticus Freeman, e gli ordina di sparare alla successiva, proprio accanto a Ji-ah. Atticus impassibile spara un colpo alla nuca alla seconda ragazza che a sua volta cade in una pozza di sangue. A questo punto l’amica di Ji-ha non regge più, si autodenuncia interrompendo l’eccidio e viene trascinata via verso un peggiore destino. Ji-ha sconvolta vuole vendicare l’amica e quando in seguito ritrova Atticus ferito in ospedale lo sceglie come centesima vittima e lo seduce. Atticus le si rivelerà però in tutta la sua fragilità. E’ancora vergine e in realtà intimamente devastato dal rimorso della sua manovalanza criminale: agli ordini di ufficiali bianchi ha ucciso e torturato numerosi prigionieri. Il Kumiho finirà per innamorarsi di lui, perdonarlo e rinunciare ai suoi propositi. La rappresentazione crudele dell’esercito americano i cui metodi vengono equiparati a quelli dei carnefici nazisti e l’impatto destabilizzante di mostrare un personaggio positivo nella spietatezza di azioni riprovevoli, funzionano egregiamente rendendo questo episodio probabilmente il più riuscito di tutta la serie. Come abbiamo già detto, purtroppo, questo livello di qualità non viene mantenuto e da questo episodio in poi cala sensibilmente.

Pur con le riserve che abbiamo evidenziato e la parziale delusione del finale, Lovecraft Country resta comunque una serie ineccepibile sul piano estetico e coraggiosa su quello civile: usare i tòpoi del Pulp e di una presunta cultura del disimpegno per ritorcela contro se stessa e agitare il problema razziale in un’America ancora in fiamme, mostrando la spirale ininterrotta di violenza che dalla Tulsa del 1921 conduce alla Minneapolis del 2020, dal linciaggio di Emmett Till all’uccisione di George Floyd,  denunciare le stesse facce di sbirri e vigilantes, i veri mostri del Paese di Lovecraft, è impresa lodevole e condivisibile a priori: specialmente in una Disneyland in cui Mickey Mouse ha il parrucchino di Trump.