di Franco Pezzini

Marilù Oliva, L’ Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre, pp. 217, € 16, Solferino, Milano 2020.

1968: dopo un’abboffata di peplum da grande schermo – i “sandaloni”, come venivano chiamati – che del mondo antico e particolarmente di quello mitico regalavano all’Italia popolare versioni simpaticamente fumettistiche tra bicipiti, rossetti similhollywoodiani & tunichette con le greche, la RAI propone agli spettatori qualcosa di molto diverso.

Il fatto è che nel 1950 si era verificato un evento capitale nella riproposta dei poemi omerici. Dagli uffici Einaudi Pavese aveva voluto con forza una nuova versione dell’Iliade affidandola a una traduttrice giovane ed entusiasta, Rosa Calzecchi Onesti (1916-2011): scopo, scrostare la lettura del poema da tutta l’ampollosità trombona sedimentata in secoli di traduzioni “solenni” per ritrovare il vero Omero, arcaico e scabro, con le sue formule ritmate da un Mediterraneo remotissimo. Quest’Iliade meravigliosa, che oggi alla lettura accusa un po’ il passare degli anni ma resta godibilissima e comunque un modello di lavoro – ormai le traduzioni sono tante, alcune davvero stupefacenti per un rigore filologico che apre continue domande e può talora rispondervi solo in termini ipotetici – era uscita poco dopo la morte di Pavese, appunto nel 1950; e nel 1963 con la stessa formula viene edita l’Odissea.

Inevitabile che tutto ciò approdi anche agli schermi nel clima di sperimentazioni di quegli anni. Nel 1967 Pasolini propone un Edipo re del tutto eversivo, cui farà seguire nel 1969 il famoso Medea con Maria Callas (sul progetto, come già ricordato in altra sede, è oggi preziosa la ricostruzione offerta da Paolo Lago nel bellissimo Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Mimesis, 2020); e nel 1969, con un’operazione diversa ma in qualche modo parallela, Fellini e l’assai meno noto Gian Luigi Polidoro muoveranno a decostruire una certa visione del mondo romano imperiale nelle rispettive e diversissime trasposizioni del Satyricon.

Ma se tutto ciò riguarda il grande schermo, il boom della comunicazione di quegli anni passa attraverso la televisione, e l’Odissea – presentata l’anno dopo l’Edipo re di Pasolini, e l’anno prima del suo Medea e dei due Satyricon – annuncia un nuovo corso nello sguardo ai classici. Articolata come sceneggiato in otto puntate, vede una coproduzione tra Italia, Francia, Iugoslavia e Germania occidentale, la prima della Rai a venir realizzata a colori. Al timone, il regista quasi cinquantenne Franco Rossi con robuste esperienze teatrali e cinematografiche, e una formazione nell’orizzonte del neorealismo (tra l’altro ha diretto un Calypso nel 1958 e Odissea nuda nel 1961), supportato per singole puntate da Piero Schivazappa e Mario Bava; mentre alla sceneggiatura lavora un’intera squadra – Gian Piero Bona, Vittorio Bonicelli, Fabio Carpi, Luciano Codignola, Mario Prosperi, Renzo Rosso – riuscendo a restituire voce a Omero anche attraverso una dimensione corale di sottofondo supportata da un’ottima musica (Carlo Rustichelli, Bruno Nicolai). Per contro Dario Cecchi coi costumi, Luciano Ricceri all’Art Direction e Mario Altieri alla Set Decoration ripudiano in blocco lo stile peplum per seguire invece il regista in una lettura stilizzata, a tratti fiabescamente teatrale (l’episodio di Eolo, per esempio), ma in ogni caso felicemente armonizzata a tutto un orizzonte storico e antropologico. Insediamenti arcaici con focolari fuligginosi, maschere funebri da modellare sul viso, abiti ruvidi di lana e poi imbarcazioni, telai, cordami, vasi o oggetti di vita quotidiana… un mondo insomma ricostruito con attenzione agli scavi archeologici e alla linea ideale Pavese-Calzecchi Onesti, lontano e primitivo quanto è in effetti quello narrato da Omero. Un’impressione ora rafforzata dalla scelta di numerosi attori iugoslavi – tra i quali lo stesso protagonista, l’attore bosniaco trentaduenne Bekim Fehmiu (1936-2010, bello ricordare questo attore/intellettuale morto nel giugno di dieci anni fa) – coi loro tratti ruvidi e antichi, sconosciuti agli spettatori italiani e tanto diversi dai divi occidentali.

Ovvio che per noi, figli dei primi anni Sessanta, quest’Odissea circonfusa di sogno avesse una valenza affabulatoria unica. Anche se vigeva il coprifuoco con Carosello, l’operazione aveva fatto emergere sui banconi delle librerie versioni bellissime anche per ragazzi (come una Storia di re Odisseo proprio di Calzecchi Onesti, edita da Piccoli nel 1966 e regalatami nel 1968, con un Odisseo dai lunghi capelli quasi annunciante la svolta di un’epoca) e persino una splendida cartina del viaggio dell’eroe sul Corriere dei piccoli, puntualmente appesa sopra il mio letto. Se con gli anni mi sarei convinto che l’Odissea è forse – senza far torto a nessuno – il romanzo più bello mai scritto, Odisseo era al tempo per me un grande modello (lo sarebbe rimasto, ma questa è un’altra storia): l’uomo simpatico, fantasioso fino alla visionarietà, astuto, saggio, dalle mille risorse, che a volte sbaglia ma lo ammette e sa ripartire… E ci sarà tempo per incontrare il suo volto terribile nei tragici greci e poi nel mondo romano, il Grande Consigliere che Dante renderà un fatale affabulatore. Ma insomma quello sceneggiato che poi avrei visto infinite volte in repliche e in seguito in VHS e in DVD, come pure quelle riduzioni per ragazzi, e i racconti stessi ricevuti in casa con mio padre e mio nonno che mi disegnano Ciclopi, sono stati per me d’importanza capitale: e se cito l’esperienza personale è perché sono convinto di essere solo uno tra i tantissimi figli di quell’epoca ad aver vissuto (in forme diverse) una simile fortuna. Di aver ricevuto – sintetizzo – il racconto dell’Odissea.

Perché l’Odissea, come già l’Iliade ma in modo diverso e più universale per la varietà di registri, è fatta per essere raccontata. Letta, certo, ma ancor prima raccontata, perché ai bambini ci si avvicina col loro linguaggio: penso che la storia del Piccolo Furbo e del gigante Chiacchierone (Polifemo significa in fondo questo) venga ancora narrata nell’Egeo in chiave folklorica, ma di questa storia abbiamo bisogno anche noi, gente metropolitana del terzo millennio. Alla deriva di una crisi globale come i nostri predecessori al tempo del collasso dell’Età del bronzo (quello a cui, in soldoni, si ascrive la fine di Troia e degli Achei stessi che l’avrebbero espugnata), ereditiamo da loro le storie con cui si sono salvati: cioè da un lato l’epos che per convenzione diciamo greco, ma fiorito da un Mediterraneo miceneo e comunque meticcio, e dall’altro i canti di liberazione e di gesta alle basi del Pentateuco, legati ad altri incontri di genti.

Abbiamo bisogno di confrontarci con l’eroismo del porsi questioni – questo fa Odisseo – e del sapersi assumere l’urto della realtà senza eccessive lamentele, anche se a volte possiamo scoppiare in pianto senza vergognarci (Odisseo alla corte dei Feaci). Abbiamo bisogno, in questo mondo di narcisismo vuoto, di poter dire “Io sono Nessuno” e far la nostra parte fuori dai riflettori – persino quelli del nostro teatro privatissimo. Abbiamo bisogno di saper scegliere tra algide immortalità e invece faticosi ritorni a una dimensione segnata dal tempo, ma esistenzialmente “nostra” (Odisseo che rifiuta l’immortalità di Calipso per tornare a un’Itaca dove neppure sa cosa l’aspetti). Abbiamo bisogno come Odisseo di collocare i padri e i figli al loro giusto posto, in chiave di sana autonomia generazionale e insieme di sana solidarietà. Abbiamo bisogno come lui di affrontare con dignità, intelligenza e – perché no – astuzia i problemi pratici della vita, e a volte di lottare contro i Proci fuori di noi o anche dentro di noi…

Insomma, l’Odissea va narrata, rinarrata continuamente. Ed è in questo spirito che tanta gioia dà trovare in libreria – e vedere letta, perché il volume sta “correndo” – l’ottima rinarrazione che ne offre Marilù Oliva, con un’attenzione particolare alle voci femminili. Attenzione, un approccio superficiale al poema omerico potrebbe condurre alla lettura distorta, machista di figure femminili quali semplici “oggetti” della narrazione: l’odissea dell’eroe figaccione vedrebbe singole donne – sedotte, usate e in pratica abbandonate serialmente – come semplici step e snodi narrativi. In realtà simili letture sono contraddette fin dall’antichità in nome della peculiare sensibilità del poema alle voci femminili, a porre domande radicali sull’opera e le ragioni di chi l’ha scritta.

Non torno qui all’ipotesi già vittoriana (Samuel Butler, 1897) di un Omero donna che produrrà riletture meravigliose come La figlia di Omero di Robert Graves (1955) e sviluppi ancora più recenti: sono suggestioni bellissime, anche se restano ipotesi. Mentre è un fatto che Odisseo sia in continuo dialogo con una dea – Atena – divertita e sollecita protettrice dell’eroe πολύτροπος (colui cioè che sa volgersi da molte parti, “versatile” è un po’ riduttivo) con un rapporto di complicità che non rende proprio possibile svilire il Femminile. Se poi pensiamo che Odisseo intende tornare da una compagna di pari accortezza – la storia della tela per ingannare i Proci rimanda al patrocinio di Atena sulla tessitura ma anche a un’astuzia da lei benedetta, cioè anche Penelope sa volgersi da molte parti secondo lo stile della dea  –, una compagna che anzi a sua volta metterà alla prova con astuzia il marito vittorioso prima di riaccoglierlo, allora ci rendiamo conto che forse l’Odissea andrebbe proposta persino di più di quanto oggi avvenga.

Se dunque tutti siamo Omero – senza barriere di genere – nel riproporre questa storia davvero sapienziale, pagine come quelle di Oliva uniscono a questo illuminante taglio al femminile una qualità di scrittura davvero alta. Però rigorosamente fedele al sapore omerico (al di là di qualche licenza comunque motivata e denunciata nelle Note finali), com’è nel gusto di chi da sempre frequenta letture classiche: fedele sia nei colori mediterranei – del resto Oliva nei suoi romanzi ha questa peculiare vocazione al colore – sia in una musicalità di ritmo che echeggia l’originale e non ne forza neppure i silenzi.

Non è strano che, nel taglio scelto da Oliva, Atena vanti ben tre ampi intermezzi, in modo da narrare parti sconosciute agli altri personaggi anche in grazia della sua vicinanza a Odisseo. Ma la storia è dipanata come una polifonia, da voci femminili diverse – ciascuna con una personalità propria, vivida, e in grazia di rapporti personalissimi con il viaggiatore. Da mattatrici spiazzate ma in nessun modo diminuite in dignità come Calipso e Circe alla tenerissima e incantata Nausicaa, dalle seduttrici Sirene a Euriclea provata dalla vita, fino ovviamente a Penelope; più caratteriste o semplici comparse, da Elena di Sparta ai mostri-femmina Scilla e Cariddi alle ancelle di Penelope e tante altre. Una polifonia che oltretutto ha il pregio di spingere i lettori, chiuse queste pagine bellissime, a cercare il testo-fonte. Alla luce di quanto detto, e tanto più in questo momento di diffusa, scarsa capacità critica, un ritorno alle fondamentali macchine per pensare dei classici, all’eroe πολύτροπος e alle sue fondamentali interlocutrici, è davvero un servizio prezioso.

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