di Filippo Violi

[Riportiamo un assaggio del romanzo di Filippo Violi, Frammenti di fuoco nel deserto del Sud Europa (Pav, 2019, pp. 340, € 16,00). La narrazione, costituita da cinque vicende, è ambientata ai giorni nostri in Calabria ed è connotata da un tono provocatorio e ironico. L’autore affronta, con un sottile, ma indistruttibile filo di speranza, temi quali la fabbrica, la burocrazia, l’immigrazione, il caporalato, l’usura e la ‘ndrangheta.]

***

Frammento III – I Banditori del Passovecchio

La vita, la malattia, la sventura, l’isolamento, la povertà sono campi di battaglia che hanno i loro eroi che lottano a denti stretti con tenacia e resistenza; eroi oscuri ma più grandi a volte di quelli più illustri.
[…] Per la storia e i fatti che mi accingo a raccontare, non sarei sorpreso se a lungo andare fossi considerato semplicemente folle o, comunque, persona non gradita ad una nutrita schiera di uomini e donne benpensanti, immuni a farsi disturbare nel cantuccio dorato del loro cammino. Mai pertanto potrò aspettarmi, da codesta brava gente, bontà di credito alcuno.
Sarei matto ad aspettarmelo in un caso in cui i miei stessi sensi respingono quanto hanno direttamente sperimentato. Matto non sono e certamente non sto sognando, ma domani non so se ci sarò e oggi ho l’urgente bisogno di liberarmi l’anima. Il mio scopo immediato è quello di esporre, al mondo, il proseguo degli eventi successi in questo angusto luogo di periferia. La storia si è divertita ad accavallarli, senza badare a spese, insegnando però ai posteri gli orrori passati e i tristi presagi presenti e futuri.
Ora non resta che guardare, girarsi attorno, osservare malinconici come la città sia regredita nel corso di un ventennio. Vaghi col pensiero, cammini e nelle stradine del centro urbano noti alcuni negozi storici che ormai hanno chiuso i battenti, mentre altri, con piglio e orgoglio, stanno in attesa, chissà per quale tumulto giornaliero!
I saldi non fanno più eco né testo e nemmeno presa come un tempo, i cartelli con la scritta “cedesi attività” sono in aumento….
Si emigra e lo si fa tutti insieme, uniti, indistintamente, verso altre terre, verso altre mete, verso altri campi minati. L’opera di desertificazione nelle periferie d’Europa è da tempo iniziata, lo spazio vitale di hitleriana memoria è in via di completamento.
L’esercito dei disperati è già in cammino, va spedito, verso l’inferno teutonico.
Un esercito di riserva, come bacino di precari, rappresenta l’eredità di un territorio martoriato che così a noi ora si consegna: ultra cinquantenni, eternamente espulsi dal mercato del lavoro, da mesi e mesi non percepiscono alcun assegno, anche la “mobilità in deroga” non rappresenta più per loro garanzia di sostentamento, ma solo un triste avanzo di miseria.
Questo è il lascito che si consegna al popolo, quale opera truce e violenta di mestieranti della politica, alcuni dei quali stazionano sempre indisturbati sugli scranni del civico consesso.
[…] Il resto è storia d’oggi, così come quella di tutti i giorni: la gente chiude bottega e scappa, emigra. Il deserto nel Sud-Europa avanza, indisturbato. Restano solo cumuli di macerie a cielo aperto, veleni e lutti per esalazioni, miseria e precariato a vita. Un costo immane, amaro e salato da pagare, lasciato in dote al popolo pitagorico.
[…] Si moriva di cancro in quel distretto di provincia l’urgenza di bonificare subito quell’area industriale e salvaguardare la salute pubblica del territorio, dopo dieci lunghissimi anni di stagnazione burocratica e letargo politico, sembrava passata nel dimenticatoio, messa in secondo piano, i casi di tumore triplicavano di anno in anno, ma la gente sembrava quasi non accorgersene o far finta di niente. Almeno fino a quando un conoscente stretto o un familiare veniva attaccato da quell’orrendo morbo che quasi mai lasciava scampo.
La fabbrica era chiusa da tempo, i fumi delle ciminiere messi per sempre a tacere, l’ambiente sembrava potesse riprendere fiato, eppure si moriva sempre di più, a ritmo incessante e, la morte, oltre a non rispettare età, non guardava in faccia nessuno. I malcapitati, gli sfigati che la sorte stabiliva per loro l’atroce destino, venivano schiantati, schiacciati a terra come fossero bruchi, larve umane ridotti a cenere, dopo tanta sofferenza.
Sì, è vero, si respirava pure un certo benessere in quel cantone di provincia, ma la sofferenza di quella terra veniva nascosta, mascherata, come fosse pura vergogna.
Una cascata sonante di liquidità aveva inondato quel territorio e radunato, intorno all’abbeveratoio politico, una folla vorace di privilegiati: ordini professionali sparsi di qua e di là, organizzazioni sindacali e padronali, enti di formazione, agenzie immobiliari, di prestiti, di assicurazioni, e poi ancora concessionarie, società finanziarie; insomma quell’avanguardia parassitaria e ben nutrita di quel milione di famiglie che vivono in Italia di politica e mediazione sociale, ora si vedevano gingillare pure in quel posto.
L’edilizia era affetta da bulimia: spopolava, furoreggiava, prendeva i suoi frutti da quel nutrimento. Le lottizzazioni fioccavano come coriandoli, cemento su cemento la città s’inorgogliva e s’ingrassava. L’architettura urbanistica, opulenta e grigia, era sostanza che prendeva forma.