di Sandro Moiso

Pochi giorni fa, all’età di 71 anni, un visitatore alieno ha definitivamente abbandonato il nostro pianeta per raggiungere i suoi compagni nel cosmo infinito che ci circonda.
Rocky Erickson, nato Roger Kynard Erickson (Dallas, TX, 15 luglio 1947 – Austin, TX, 31 maggio 2019) è stato sicuramente uno degli eroi minori della cosmogonia underground americana.
Una figura sicuramente aliena per gran parte dell’establishment musicale statunitense, in bilico perenne tra realtà e delirio, normalità grigia e crudele e immaginari di serie B movimentati da misteriose piramidi, zombie, vampiri, alieni provenienti dagli spazi esterni, cani a due teste e, soprattutto, sospesa tra acidi e ricoveri ospedalieri con tanto di trattamenti con elettroshock.

Una vita certamente fuori dai canoni, spesso condotta nella miseria più nera, che ricorda per molti versi quella di Syd Barrett, stralunato e inarrivabile genio dei primi Pink Floyd, anche se, a differenza del secondo, Rocky ha continuato almeno fino al 2010 (data di uscita del suo ultimo album con gli Okkervil River) a produrre la sua musica. Sempre sospesa tra psichedelia e rock’n’roll.
Portavoce di un cosmo tutt’altro che ordinato e armonico, il nostro iniziò la sua carriera ancor prima che ventenne componendo, nel 1965, quello che sarebbe diventato il suo brano più famoso e dal titolo profetico, You’re Gonna Miss Me, che incise una prima volta con il gruppo degli Spades.
Figlio di un architetto che avrebbe voluto diventare cantante d’opera, aveva iniziato a suonare il piano a dodici anni per poi proseguire con la chitarra, nel clima ruggente del rock’n’roll texano che proprio a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta avrebbe prodotto personaggi come Buddy Holly, Dough Sahm e Bobby Fuller, tutti segnati dall’originalità compositiva ed esecutiva e da vite mediamente brevi e sfortunate.

Sarà il suo secondo gruppo, i Thirteenth Floor Elevators, a fornirgli un minimo di celebrità, soprattutto dopo la riscoperta che ne fece Lenny Kaye (chitarrista e amico di Patti Smith e giornalista musicale) nella prima metà degli anni Settanta attraverso la sua mai abbastanza celebrata antologia Nuggets – Artifacts from the First Psychedelic Era, tutta dedita alla riscoperta dei gruppi garage e psichedelici americani della seconda metà degli anni Sessanta.

La storia di quei gruppi da sola, basterebbe a dimostrare quanto fosse difficile la vita dei giovani rockers, di provincia e non, sospesi tra ricerca del successo sull’onda di quella che era stata definita come British Invasion, nuovi orizzonti di vita illuminati dai bagliori della controcultura hippie e dalle lotte per i diritti civili e la guerra in Vietnam che inghiottì un milione di giovani americani tra il 1965 e il 1975. Rispedendone a casa più di settantamila rinchiusi in un sacco nero e diverse centinaia di migliaia con lesioni fisiche permanenti, disturbi mentali da stress, dipendenze da eroina e morfina e degenerazioni genetiche legate all’uso indiscriminato del diserbante e defogliante Agent Orange da parte dell’U.S.Army, che avrebbe lasciato le sue tracce cancerogene sul territorio vietnamita e nei corpi dei soldati americani per i decenni a venire.

Per esempio, erano texani anche i membri di Kenny and the Kasuals, un altro gruppo ripescato da Kaye per la sua antologia, che sciolsero precipitosamente il gruppo dopo che la chiamata alle armi era giunta per quasi tutti loro. Alcuni scelsero di obbedire all’ordine giunto dall’alto, mentre altri preferirono darsi alla macchia, probabilmente rifugiandosi in Canada, per non dover combattere, uccidere e morire per Uncle Sam, come tanti altri draft dodgers (renitenti alla leva) fecero a quell’epoca.

Rocky non andò in Vietnam, ma nel cuore dell’Home of the Free, nel Texas di Alamo e delle violenze contro i neri, i nativi, gli immigrati messicani, i “rossi” e chiunque portasse con sé qualche elemento di diversità (ad esempio i capelli lunghi), subì un trattamento ancora peggiore.
Con il suo gruppo, formato oltre che da lui alla chitarra ritmica e voce anche da Stacy Sutherland alla chitarra solista, Tommy Hall alla fiasca (jug, sì quella resa celebre in Italia dal brano In the Summertime dei Mungo Jerry) amplificata e all’armonica a bocca, Benny Thurman e John Ike Walton alla sezione ritmica (poi sostituiti, dopo il primo album da Danny Galindo e Danny Thomas), il giovane Rocky diede vita ad un rock psichedelico povero, ma efficace e ancor oggi travolgente all’ascolto.

Ma l’occhio del Grande Fratello Poliziesco vigilava e fin dai primi concerti il gruppo fu sottoposto a particolari attenzioni che portarono il gruppo ad essere spesso minacciato dagli agenti delle forze del dis/ordine oppure ad essere arrestati per il possesso di quantità, anche lievi, di marijuana. Durante i loro spettacoli i membri della band sapevano che da un momento all’altro e per qualsiasi ragione addotta da uno sceriffo e da un poliziotto avrebbero potuto vedersi condotti in cella.

Nonostante ciò, quella che fu una delle prime etichette discografiche indipendenti del Texas mantenne il contratto con il gruppo. La International Artists di Lelan Rogers, fratello del più celebre Kenny, cantante pop-country di una certa rilevanza e notorietà, pubblicò infatti tre album in studio ed un live dei Thirteen Floor Elevators: The Psychedelic Sounds of the 13th Elevators (1966), Easter Everywhere (1967), Live (1968) e Bull of the Woods (1968).
L’unica rogna, purtroppo molto comune all’epoca, fu quella conseguente al fatto che, nonostante il successo in ambito locale, i componenti del gruppo e Rocky in particolare, in qualità anche di autore di molti dei brani eseguiti dalla formazione, non ottennero mai le royalties provenienti dalle vendite dei dischi.

Già tra i solchi dell’ultimo album pubblicato è possibile avvertire il senso di disagio e frustrazione derivante da tutti quei problemi legali ed economici e anche la sempre più forte dipendenza di Rocky dalle droghe e dall’acido lisergico in particolare.
Così nel 1969 avvenne l’autentica catastrofe destinata a segnare per sempre la vita del cantante.
Arrestato ancora una volta per il possesso di un unico joint, Rocky dichiarò di essere mentalmente instabile per evitare i termini, pesanti, della ormai inevitabile detenzione carceraria. Per questo motivo fu rinchiuso per tre anni e mezzo in un manicomio criminale statale dove gli fu diagnosticata una schizofrenia, in seguito curata con sedute intensive di elettroshock e un trattamento farmaceutico a base di Torazina ed altri psicofarmaci.

Una volta rilasciato dall’ospedale nel 1973, Erickson non fu mai più lo stesso.
Avrebbe continuato a comporre ed incidere dischi con il gruppo degli Aliens, ma le sue canzoni a base di horror movies e viaggi interplanetari avrebbero incontrato soltanto il favore di un gruppo di fedeli ammiratori, tra i quali non mi vergogno affatto di essere annoverato.
La sua voce altra, il suo immaginario alieno, il suo essere straniero in terra straniera, la sua follia furono in seguito sfruttate da manager senza scrupoli che approfittarono delle sue condizioni psichiche e fisiche per i propri vergognosi affari, anche se mi rimane il dubbio che la sua mente “reale” abbia galleggiato sempre ben al di sopra delle miserabili beghe mercantili della società dello spettacolo. Basterebbero soltanto la sua versione di Heroin, forse la migliore in assoluto dopo quella dei Velvet Underground, oppure la sua magnifica Before the Beginning a farci sentire tutto questo dolore e questa distanza.

La sua voce portava in sé un dolore infinito e forse il cane a due teste di cui parla in uno dei suoi brani (Two Headed Dog) era proprio lui. Diviso non dalla schizofrenia, ma dall’essere in due posti diversi contemporaneamente: in questo mondo schifoso e allo stesso tempo in un altro, molto più lontano e diverso. Un mondo che solo coloro con gli occhi pieni di stelle, che hanno anche suggerito il titolo ad una delle sue canzoni più belle, possono vedere o intuire.

Fu forse per questo motivo che il cantante texano, nel 1982, firmò una dichiarazione giurata con valore legale in cui sosteneva che un Marziano aveva preso possesso del suo corpo.
Un modo come un altro per sparire dalla scena per almeno un decennio oppure dal mondo reale per sempre.

Arrivederci, dunque, caro candido, tormentato e sfortunato eroe: sicuramente la materia di cui è fatto lo spazio interstellare ti riserverà un destino migliore di quello incontrato su questo temporaneo ed abusato pianeta.