di Armando Lancellotti

Zalmen Gradowski, Mi trovo nel cuore dell’inferno, Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, Oświȩcim, 2017, pp. 167, 35,00 PLN

I motivi che rendono i manoscritti di Zalmen Gradowski – qui presentati nella traduzione italiana edita dal Museo Statale di Auschwitz-Birkenau – una testimonianza di importanza difficilmente quantificabile sono davvero numerosi. Zalmen Gradowski era un ebreo polacco di Suwałki che come tre milioni di suoi connazionali rimase intrappolato nella morsa genocida nazista, nonostante nel 1939 con la moglie e la famiglia si fosse trasferito nella zona di occupazione sovietica. Dall’arrivo dei tedeschi nell’estate del 1941 conseguirono per l’intera famiglia di Gradowski la concentrazione e la reclusione nel ghetto di Lunna, il successivo invio al campo di transito di Kiełbasin, presso Grodno (oggi Hrodna in Bielorussia), nel novembre del ‘42 e dopo un mese l’invio ad Auschwitz, dove il convoglio giunse l’8 dicembre. La moglie e tutti i suoi famigliari non superarono la prima selezione sulla Judenrampe di Auschwitz e furono immediatamente condotti alle camere a gas; Zalmen – giovane e fisicamente robusto – fu selezionato per il Sonderkommando, cioè costretto alla mansione più atroce che si possa immaginare, il lavoro in uno dei Crematori di Birkenau, dove entrò per la prima volta il 10 dicembre del 1942, per rimanervi fino alla morte, avvenuta presumibilmente il 7 ottobre del 1944, il giorno in cui gli uomini del Sonderkommando tentarono una disperata insurrezione e finirono tutti uccisi dalle SS del campo.

Zalmen Gradowski, pertanto, faceva parte di quel ristretto gruppo di detenuti resistenti che in condizioni proibitive tentò l’organizzazione di qualche forma di opposizione e questo aspetto contribuisce a rendere le pagine dei suoi scritti ancora più illuminanti. A questo si aggiunga che Gradowski, almeno per intenzioni ed interessi espressi e praticati in libertà e prima della deportazione, è da considerarsi uno scrittore, che per pura passione si cimentava soprattutto con la poesia. Dopo alcuni mesi di Sonderarbeit, venne scelto come scrivano del suo Kommando e quindi incaricato del compito di tenere il registro dei prigionieri e delle vittime. Dalla seconda metà del 1943, insieme ad altri membri della resistenza interna, decise che si sarebbe fatto carico di una missione di importanza primaria, forse l’unica azione di resistenza effettivamente possibile in quelle disperate condizioni: documentare, raccontare, tramandare ai posteri gli orrori, i crimini di cui era quotidianamente testimone oculare. Le pagine nelle quali rendicontava il più precisamente possibile le cifre del genocidio perpetrato a Birkenau e quelle in cui descriveva lo svolgimento delle attività dei crematori furono nascoste in contenitori, come borracce di alluminio e sotterrate nel lager, confidando l’autore nel loro ritrovamento a guerra conclusa.

Solo due manoscritti di Gradowski si sono salvati e – come altri documenti e testimonianze simili, si pensi al caso del Diario di Ponary di Kazimierz Sakowicz [su Carmilla] – hanno conosciuto una storia molto travagliata prima della divulgazione e della pubblicazione: uno, dissotterrato subito dopo l’arrivo dei sovietici e trasferito al Museo di Medicina Militare di San Pietroburgo dove ancora oggi si trova, fu reso disponibile agli storici polacchi solo all’inizio degli anni Sessanta; l’altro arrivò in Israele insieme all’ebreo polacco di Oświȩcim, sopravvissuto allo sterminio, che lo aveva acquistato dopo il suo ritrovamento casuale e che lo aveva trascritto, così evitando che andasse irrimediabilmente perduto a seguito di un furto che ha ridotto a sole cinque il numero delle pagine dell’originale rimaste e conservate. Il secondo manoscritto conobbe la pubblicazione alla fine degli anni Settanta.

Come altri scritti di memorie di membri dei Sonderkommando dei campi di sterminio nazisti – si pensi all’intenso e lucidissimo Sonderkommando Auschwitz dell’italiano Shlomo Venezia, pubblicato da Rizzoli nel 2007 – i manoscritti di Gradowski sono una testimonianza preziosissima, perché fornita dall’interno della macchina criminale peggiore che mai la storia umana abbia conosciuto; chi scrive è suo malgrado ingranaggio del meccanismo di eliminazione industriale di milioni di uomini, costretto ad osservare la morte dei propri fratelli e compagni, del proprio popolo e a vedere migliaia di volte anticipata e replicata in quella altrui la propria tragedia. Ma quelle di Gradowski non sono memorie messe per iscritto a liberazione avvenuta, non interviene la distanza di un lungo o breve periodo di tempo a facilitare la trattazione di una materia così gravida di dolore; la sua è una testimonianza in “presa diretta” che registra l’orrore quotidianamente vissuto. Nonostante questo, degli scritti di Gradowski stupiscono la profondità delle analisi e la lucidità delle riflessioni da un lato e dall’altro lo sforzo di dare dignità letteraria, poetica alle proprie parole, di portarle oltre il piano della documentazione testimoniale.

La militanza di Gradowski nella resistenza interna al campo e la pianificazione dell’attività di documentazione dello sterminio certamente contribuirono a rendere la sua scrittura analitica e critica, capace cioè, nonostante le condizioni estreme in cui veniva elaborata, di andare oltre la registrazione empirica delle procedure genocide per affrontare lo sforzo della comprensione e del giudizio.

Nel primo manoscritto, che racconta della sua deportazione dal campo di transito di Kiełbasin a Birkenau, Gradowski osserva come secoli di civilizzazione umana possano scomparire in poco tempo e come un popolo civile e colto quale quello tedesco possa comportarsi come la peggiore bestia sanguinaria.
Mentre l’animale si civilizza stando a contatto con l’uomo, questo, quando si abbrutisce, degrada a livelli infimi, ben più bassi di quelli della bestia e diviene capace dell’inconcepibile. Alcuni meccanismi fondamentali del processo di sterminio vengono individuati con estrema precisione dall’autore, come la disumanizzazione della vittima: gli ebrei, impoveriti, affamati, brutalizzati vengono svuotati della loro umanità, ridotti alla loro nuda e semplice corporeità a tal punto che si trasformano in massa indistinta, gregge, mandria condotta a comando, sono “robot” ridotti a pensare alla loro minimale sopravvivenza, di qualche giorno o di qualche ora in più. Lo stesso effetto è prodotto dal tatuaggio del numero di matricola del campo: «Da questo momento hai perso il tuo “io”. La tua natura umana è stata trasformata in numero. Non sei più quello che eri un tempo. Adesso sei un numero che si muove, silenzioso, senza valore» (p. 54)

Le menzogne sistematicamente ripetute dai carnefici per fuorviare le vittime, a cui viene raccontato di trasferimenti in luoghi migliori e verso fabbriche in cui lavorare o a cui viene fatta balenare, ancora sulla soglia della camera a gas, l’illusione della sopravvivenza, costituiscono efficacissimi strumenti di realizzazione del processo genocida, insieme alla disperata disponibilità delle vittime stesse a farsi ingannare. L’istinto di sopravvivenza – ragiona Gradowski – porta gli ebrei a non credere a quello che si dice sul loro destino. Paradossalmente vanno incontro alla carneficina nel tentativo disperato di attaccarsi alla vita, non volendo credere all’ineluttabile destino di morte che li attende. Ma come si sarebbe potuto immaginare che una cosa del genere fosse anche solo concepita – si domanda Gradowski – e che l’intero popolo tedesco si rendesse disponibile per la sua realizzazione?

Lui, che avrebbe di seguito preso parte all’insurrezione del Sonderkommando dell’autunno ’44, si chiede perché gli ebrei non siano stati in grado di opporre una qualche forma di resistenza efficace e individua una ragione innanzi tutto nel contesto ostile, ovvero nel radicato antisemitismo dei polacchi, che al massimo si chiedono preoccupati se, una volta eliminata l’odiata vittima per eccellenza, poi non tocchi proprio a loro di essere travolti dalla furia omicida nazista. Ed in secondo luogo, per mancanza di fiducia verso i propri vicini, gli ebrei si sono rinserrati nelle loro comunità, si sono stretti attorno alle proprie famiglie, ai propri parenti ed anche i più giovani sono rimasti, non sono fuggiti, non hanno cercato di organizzare una propria resistenza, così diventando una vittima ancora più debole e più facile da catturare per i predatori tedeschi.

Gradowski paragona la propria deportazione verso Auschwitz del 5 dicembre 1942 e per estensione tutti i convogli carichi di ebrei che in quegli anni attraversarono l’Europa occupata dalla Wehrmacht alla cacciata dei sefarditi dalla Spagna del 1492. Ma mentre quella di quattrocentocinquanta anni prima è immaginata come una partenza “orgogliosa” di ebrei che non vollero abbandonare la loro fede, questa da lui stesso subita è descritta come una dipartita piena di angoscia e smarrimento verso una meta ignota, che ben presto si rivelerà essere la peggiore possibile. I “pirati”, i “barbari”, gli “assassini del mondo” – con queste ed altre espressioni Gradowski chiama i nazisti – non pretendono da loro, come i cattolicissimi re di Spagna allora, la conversione, non discutono la loro fede, ma imputano a loro la colpa dell’esistere, che come unica pena prevede la morte, lo sterminio.

Nel secondo manoscritto – che si articola in due parti, in cui si raccontano prima la selezione e la decimazione subite dal Sonderkommando di Gradowski e poi l’eliminazione tra l’8 e il 9 marzo ’44 di circa quattromila ebrei di Terezin – colpiscono per lucidità di analisi le considerazioni dell’autore che denuncia l’insensatezza e l’irrazionalità del dispendio di energie tedesche per accanirsi su una vittima inerme, la cui eliminazione non potrà portare ad alcun vantaggio per le sorti della guerra. Gradowski trova la spiegazione nel cieco fanatismo instillato nella mente di un intero popolo dal “Führer-dio”, che ha convinto i “demoni” al suo servizio che ogni ebreo ucciso sia un passo verso la vittoria finale, proprio quando ad avvicinarsi sono invece l’Armata Rossa e la sconfitta del Reich millenario.

La scrittura di Gradowski non ricerca soltanto la lucidità e la profondità analitiche, ma anche la resa estetica, l’efficacia dello stile, l’espressività emotiva della lingua. È evidente lo sforzo dell’autore di andare oltre la registrazione e la documentazione e al di là anche della riflessione per accedere al piano dell’espressione letteraria e poetica. Alcune pagine contengono un pathos intenso, producono un forte coinvolgimento emotivo; insomma è chiaro lo sforzo che Gradowski sostiene di non essere solo un testimone, ma soprattutto un autore, uno scrittore.

In entrambi i manoscritti frequente è lo stile anaforico con cui l’autore insistentemente si rivolge all’immaginario lettore che ritroverà i suoi scritti o all’umanità altra, quella che sta oltre il filo spinato elettrificato e le torrette di guardia, quella che ancora può condurre una vita “umana”, fatta di affetti e gioie che chi è costretto a sopravvivere nell’inferno dell’orrore può solo ricordare con nostalgia.
«Avvicinati, vieni qui, felice cittadino del mondo […] Avvicinati, vieni qui, libero cittadino del mondo…» (p. 19). «Chi poteva credere che fosse possibile riunire milioni di persone […] Chi poteva credere che si portasse un popolo allo sterminio […] Chi voleva credere che si portasse un popolo come vittima…» (p. 28).
Oppure quando si rivolge all’indifferente bellezza della luna, metafora dell’incurante insensibilità di un mondo che trascura lo sterminio di un popolo. «Perché mandi i tuoi raggi […]? Perché splendi qui […]? Perché ti mostri in tutto il tuo magnifico splendore […]? Perché continui a passeggiare maestosa […]? …» (p. 72).

Sia nei manoscritti sia nella lettera, ritrovata insieme al primo di questi e datata 6 settembre 1944, un mese prima della morte, Gradowski si rivolge accoratamente a coloro che ritroveranno le sue carte, affinché si adoperino per la loro pubblicazione e affinché il suo nome, quello dell’amata moglie, dei suoi famigliari siano ricordati. Riporta l’indirizzo di alcuni parenti emigrati negli Stati Uniti, dai quali chi curerà la pubblicazione potrà raccogliere informazioni su di lui e anche alcune fotografie, che esplicitamente domanda accompagnino lo scritto. Senz’altro in queste rassegnate preghiere, che sono le sue ultime volontà, c’è la speranza di dare vita postuma attraverso la scrittura, tramite il suo sforzo creativo ed artistico, alle persone amate e a se stesso, c’è il tentativo di vincere la morte, testimoniando l’esistenza di vite che sono state recise dalla disumana violenza di cui l’uomo si è dimostrato capace, ma c’è altrettanto la tenace volontà dell’autore, che scrive per la pubblicazione e per i lettori a cui consegna la propria opera.

Insomma, la scrittura di Zalmen Gradowski è tante cose contemporaneamente: è innanzi tutto testimonianza e documentazione della Shoah, è atto di fede nei confronti della parola che ricorda e mantiene in vita il suo autore, è letteratura ed è, infine, un’arma, l’unica di cui dispone per uccidere il suo nemico, il suo carnefice. «So che si sta avvicinando il giorno che fa tremare il mio cuore e il mio animo. Non tanto per la vita, anche se vorrei vivere perché la vita ci alletta, ma perché è rimasta ancora una cosa nella mia vita che non mi dà pace: vivere, vivere per la vendetta!» (p. 114). Le sue parole, le pagine scritte e nascoste sotto terra e che descrivono nei minimi particolari il funzionamento delle procedure di sterminio sono quella vendetta e quell’atto di giustizia a cui hanno diritto tutti i deportati dei lager, ma che potrà arrivare solo per via indiretta, attraverso la testimonianza che inchioda i carnefici alle loro responsabilità.

Le pagine più intense del libro sono quelle del secondo manoscritto, intitolate Trasporto ceco, che seguono passo dopo passo l’eliminazione in poche ore di quattromila ebrei di Terezin. Gradowski si sforza di descrivere nei minimi dettagli ogni momento dell’operazione e così facendo permette al lettore di apprendere con la massima precisione ogni particolare delle procedure genocide ripetute innumerevoli volte a Birkenau: lo svuotamento delle baracche, l’invio delle vittime al Crematorio, la discesa verso lo spogliatoio seminterrato, la spoliazione, l’ingresso nelle camere a gas, l’arrivo dei soldati tedeschi che salgono sul tetto del Crematorio, l’apertura delle botole in cui vengono gettati i cristalli di Zyclon B, l’atroce morte di vittime innocenti, l’apertura della camera a gas ad opera degli uomini del Sonderkommando che danno inizio al loro lavoro. Sono loro che devono trascinare i corpi fuori dalla camera, rasare i capelli delle donne, estrarre i denti d’oro, caricare i cadaveri sugli elevatori che conducono ai forni crematori e introdurveli con barelle di ferro.
La penna di Gradowski non si arresta e non perde il controllo nemmeno quando deve descrivere i particolari più ripugnanti, come il terribile silenzio che si avventa sugli uomini del Sonderkommando quando aprono le porte della camera a gas, dove poco prima si udivano le grida disperate delle vittime, ed ora l’unico rumore è quello dello scorrere dell’urina e del vomito sotto la catasta dei corpi avvinghiati l’uno all’altro come nel più terrificante dei gironi infernali.

Mi trovo nel cuore dell’inferno è un libro che deve essere letto innanzi tutto per la testimonianza unica che fornisce ed immediatamente dopo per conoscere il testimone, lo scrittore e soprattutto l’uomo Zalmen Gradowski.


I manoscritti di Gradowski in Italia sono pubblicati dall’editore Marsilio