di Giovanni Iozzoli

“Io vivo nell’epoca dopo Cristo tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa” (S. Marchionne)

Maria Elena Scandaliato, L’era Marchionne. Dalla crisi all’americanizzazione della Fiat, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2018, pp. 299, € 15,00

L’Era Marchionne di Maria Elena Scandaliato è un bilancio critico e rigoroso, più che sulla carriera e il destino di un manager, su una stagione intera delle relazioni industriali e delle politiche del lavoro, in Italia, nell’ultimo ventennio. Attraverso la vicenda di Sergio l’Americano, si può leggere in controluce la regressione sociale e culturale di un intero paese.

Uscito subito dopo la morte di Marchionne – riprendendo materiale già pubblicato e arricchendolo ulteriormente – il libro può essere considerato una specie di controcanto rispetto alla stucchevole esaltazione che i media hanno messo in campo ad accompagnamento del funerale del Ceo. L’autrice accomuna questo clima, alla reazione innescata cinquant’anni prima dalla morte del vecchio Vittorio Valletta:

I coccodrilli (gli articoli con cui la stampa commemora un personaggio appena morto) sono comparsi sui giornali e sui siti web quando il manager era ancora vivo, seppure in condizioni disperate. Quasi ci fosse l’urgenza di scriverne subito il panegirico, di erigere un unico intoccabile epitaffio del personaggio amministratore-delegato. L’uomo spezzato da una fine prematura, finisce per prevalere sulla sua funzione, sulle sue immense responsabilità sociali. Che non possono essere più discusse o criticate […] Ed ecco che “Repubblica” riporta come “voci dalle fabbriche”, un coro unanime di “ci ha salvato, ha fatto scelte coraggiose (p. 4)

Per non parlare dei commenti del mainstream imprenditoriale e politico: “Oscar Farinetti: era una persona straordinaria e tutti gli italiani gli devono molto” (p. 5). “Matteo Renzi: ha creato posti di lavoro, non cassintegrati. Ha subito l’odio ideologico di chi detesta le persone di talento” (p. 5). E giù editoriali ammirati e reportage melensi sui media di ogni ordine e grado.

Una simile rassegna di acritica unanimità non ha precedenti, se non nei casi di figure catartiche come Madre Teresa di Calcutta o Ghandi – un ossequio ideologico che si autoalimenta e si sublima, fino a trasfigurarsi in una dimensione meta-storica e sovra-umana. Sugli operatori del sistema informativo, la morte di Marchionne ha scatenato la stessa reazione automatica che la morte di Lady Diana innescò nel tele-popolino globale: là il mito eterno della Principessa Triste destinata alla nobile morte romantica; qua la rappresentazione del manager inflessibile e lungimirante, che si immola fino alla fine sull’altare del più puro degli ideali: la tutela dell’interesse degli azionisti.

Ma già prima della improvvisa dipartita, il marchionnismo, aveva impregnato negli anni la società italiana, conducendo una battaglia di forza ed egemonia, proprio contro la società stessa e la sua legge fondamentale, la Costituzione.

Questo libro lo scrissi sette anni fa, sull’onda della “rivoluzione Marchionne”. Che aveva mostrato come la lotta di classe fosse più che mai viva nel nostro paese, praticata non dagli operai, bensì dalla classe padronale, capace in pochi mesi di fare a brandelli diritti conquistati in decenni di battaglie. Sergio Marchionne era l’ariete che aveva demolito le vecchie relazioni industriali; che aveva portato la Fiat fuori da Confindustria e la Fiom […] fuori dalle fabbriche. Che aveva imposto agli operai le “sue” condizioni, con l’arma più potente offerta dalla Globalizzazione, quella della delocalizzazione: o accettate o sposto la produzione in Polonia. (p. 5)

Nel corso di questi sette anni passati dalla prima stesura del libro, il veleno è penetrato sempre più profondamente nel corpo sociale e alcuni arretramenti appaiono irreversibili, soprattutto sul piano culturale e ideologico: è lì che Marchionne ha sfondato, sbaragliando le residuali difese immunitarie di un sistema che aveva già accettato di considerare diritti, tutele, retribuzioni e dignità del lavoro, come variabili dipendenti dalle ragioni d’impresa.

Marchionne viene scelto nel 2005 dalla famiglia Agnelli (sempre più simile alla tribù parassitaria e anacronistica dei Saud) alla morte del vecchio Umberto. Non è un outsider, negli ambienti internazionali il suo nome è già conosciuto. Il suo biglietto da visita è a due facce: da una parte abile e spregiudicato manovratore finanziario, dall’altra disponibile al dialogo sindacale e alle istanze operaie. Le manovre di bilancio servono a tamponare immediatamente la crisi di liquidità del gruppo e farsi legittimare dagli azionisti; le aperture sociali servono a lanciare segnali verso il mondo sindacale e la sinistra di governo, in un momento di grande fragilità dell’universo Fiat, bisognoso di consenso e pacificazione. Raccoglie successi immediati su entrambi i fronti. Bravo e fortunato nelle faccende finanziarie (il suo vero mestiere, altro che metalmeccanico, come amava definirsi per dare una vocazione industriale alla sua biografia di manager), si trova bella e pronta davanti a sé la famosa clausola che, sulla base di piani falliti e accordi già stipulati dalle gestioni precedenti, obbliga la General Motors a sborsare un miliardo e mezzo di dollari, in alternativa all’obbligo di acquisto del comparto auto Fiat: l’esercizio di tale opzione porta una provvidenziale boccata di ossigeno nelle casse dell’azienda torinese. I fondamentali del gruppo cominciano a stabilizzarsi rapidamente. Anche gli investimenti nel miglioramento delle condizioni di lavoro, soprattutto nello stabilimento simbolo di Mirafiori, provocano reazioni positive e vincono le diffidenze dei sindacati. Marchionne non risparmia i segnali e gli ammiccamenti in tal senso:

I risultati raggiunti da Fiat dimostrano che simili trasformazioni sono possibili anche in un paese con forte coscienza sindacale. La maggior parte degli analisti finanziari ritiene che le riduzioni di organico siano per definizione positive, ma sono fissazioni. Il costo del lavoro incide solo per il 6-7%. Quindi certe richieste di tagli sono indiscriminate. (p. 35)

L’autrice recupera dichiarazioni che sembrano uscite da un’altra era geologica. A parlare è lo stesso Marchionne che qualche anno più tardi fonderà un’intera stagione sulle “richieste di tagli” e sulla distruzione manu militari di quella “forte coscienza sindacale” che all’inizio sembrava voler rispettare.

Nella fase del Marchionne progressista i politici, soprattutto di centro sinistra, non vedono l’ora di genuflettersi al borghese illuminato con cui rinnovare l’eterno “patto tra produttori”. “Liberazione” scrive che: “c’è un manager che dice che licenziare non va bene. Non vedo perché non dobbiamo essere d’accordo” (p. 35). Valentino Parlato dice di lui: “è uno con cui farei volentieri una chiacchierata” (p. 35). Cesare Damiano, ineffabile ministro del Lavoro, afferma: “dobbiamo saper distinguere tra manager e manager, tra chi ha una vocazione industriale, e così difende anche l’occupazione, e chi pensa solo alle stock options e ne ha fatto una filosofia dagli effetti perversi” (p. 35).
Senza troppi fronzoli, il lungimirante Fassino lo definisce direttamente “un socialdemocratico”; mentre Dario De Vico sul Corrierone scrive che l’avvento di Marchionne conferma come il “darwinismo sociale” applicato al personale d’impresa, dimostra la bontà della selezione della specie. Insomma un tripudio liberal-progressista nel quale tutto un mondo sembra aver trovato il suo eroe metalmeccanico.

A rompere l’idillio sono proprio i metalmeccanici e proprio a Mirafiori, dove Marchionne ha speso soldi per migliorare mense e spogliatoi.

L’idillio tra Lingotto, Governo Prodi e sindacati confederali, infatti a qualcuno dà fastidio. Sono gli operai di Mirafiori – quelli veri – che alla fine del 2006 accolgono i rappresentanti di Cgil CISL UIL in un coro di fischi e contestazioni. Epifani, Angeletti e Bonanni erano andati a parlare – per la prima volta dopo 26 anni – all’assemblea dello stabilimento Fiat, per spiegare i contenuti della Finanziaria e le ragioni per cui l’avevano appoggiata. I lavoratori, però, quelle ragioni le sentivano premere già da un pezzo sulla loro carne: riduzione delle pensioni, allungamento dell’età lavorativa e salari stagnanti; in compenso il Governo aveva adottato una serie di misure liberiste – dal taglio del cuneo fiscale, all’utilizzo del TFR come investimento – a favore dell’impresa. (p. 38).

I lavoratori fischiano il tavolo dei sindacalisti, tenuto a distanza chilometrica dalla platea, difeso da transenne. I destinatari delle contestazioni sono innanzitutto vertici sindacali e “governo amico”. Ma quei fischi arrivano diretti, anche alle orecchie di Sergio. Sono un campanello d’allarme, le chiacchiere possono bastare per i politici e i sindacalisti in perenne crisi di legittimazione. Ma per la forza lavoro non bastano: in Fiat bisogna irrigidire e verticalizzare le gerarchie se si vuole ottemperare al mandato (e ai piani operativi) che gli azionisti gli hanno affidato. Scandaliato è molto efficace nel raccontare la brusca “inversione a U” del socialdemocratico Marchionne:

Sergio Marchionne, però, con la crisi ha cambiato completamente volto. Non è più l’uomo della speranza, del “sindacato-partner”, dei licenziamenti come “fissazioni” del mercato. Il “borghese buono” ha lasciato il posto al borghese senza aggettivi, all’amministratore delegato che fa il suo lavoro e che sa farlo bene, tutelando l’interesse dell’azienda e del profitto. (p. 90)

Eclettismo padronale? Estri caratteriali? No, meglio parlare di flessibilità nei metodi di gestione e capacità di leggere in tempo la crisi che in quegli anni si profila e che provocherà un terremoto terribile nel mercato mondiale dell’auto. Da questo sconvolgimento, la Fiat può uscire solo con due mosse: unirsi a un partner di peso internazionale, per raggiungere quella soglia minima dei 5 milioni e mezzo di veicoli giudicata indispensabile per stare a galla, e sganciare del tutto il settore auto dall’asfittico mercato nazionale, ripristinando nel contempo un pieno comando sugli stabilimenti, le retribuzioni e la prestazione lavorativa in Italia. Così è il capitalismo: le maschere socialdemocratiche cadono in un attimo, quando il gioco si fa duro

Emblematico il racconto sulla ristrutturazione dello stabilimento G.B. Vico di Pomigliano:

Tanti credono che il piano Marchionne sia stato realizzato formalmente nelle fasi dell’accordo del 2010 […] Noi crediamo, al contrario, che […] sia iniziato ben prima e per la precisione con l’introduzione dei famosi corsi di formazione che si sono tenuti tra l’inizio del gennaio 2008 e il marzo dello stesso anno. Entrammo in fabbrica ognuno nel suo reparto d’appartenenza, ognuno sulla propria linea di produzione […]. Uno spiegamento di vigilantes mai visto prima a cui nessuno riusciva a dare un motivo […]. Iniziarono le pseudo lezioni dove capi e team leader, unitamente ai vigilantes che controllavano il regolare svolgimento dei corsi quasi come se si fosse a un colloquio con detenuti, volevano farci percepire, prima di ogni cosa, il significato di far parte di una squadra vincente e soprattutto cosa si rischiasse a non farne parte. […] I vigilantes, presenti in numero di due o tre sulle varie linee di montaggio, avevano il compito ben preciso di individuare chi durante i corsi esprimeva un semplice dissenso nei confronti delle regole, spiegate vagamente e spesso inventate dai capi. Avevano il compito di individuare tutti coloro che con il progetto Nuova Pomigliano e più tardi con Fabbrica Italia, avrebbero potuto essere pericolosi ostacoli per il processo di desindacalizzazione. Stava iniziando quella che oggi si può definire la “deFiommizzazione” della fabbrica. […] Il terzo giorno, i lavoratori iniziarono a capire che quel corso era una farsa, infatti dopo la teoria rieducativa, iniziava quella pratica. Iniziarono a farci ridipingere l’intero reparto con vernici e solventi chimici. (p. 148)

Questo termine – deFiommizzazione –, lo sradicamento e l’espulsione dal mondo Fiat del sindacato più rappresentativo, ricorrerà spesso negli anni successivi, dentro reportage e pensosi editoriali. Lo si accetterà come un normale neologismo – una parola nuova per definire un’esigenza nuova del sistema –, senza riflettere minimamente sulla portata epocale delle sue implicazioni: il fatto che il padrone scegliesse i sindacati con cui trattare ed espellesse quelli non graditi, in modo pubblico e conclamato, dentro il più grande gruppo industriale del paese, rappresentava il più grave attentato ai diritti politici degli italiani, perpetrato nella storia repubblicana.

E arriviamo alla parte più nota della storia, quella che, a suo tempo, attraverserà, spaccherà e riorienterà l’intera società italiana: lo scontro che si consuma tra Marchionne e la Fiom, sul terreno di una piena riconquista del comando d’impresa sul lavoro.
Tra il 2008 e il 2009 Marchionne elabora un suo piano, Fabbrica Italia, in cui si ridisegna il peso e il ruolo del segmento industriale propriamente italiano del gruppo. Il gioco è subito scoperto: mani libere, oltre e contro il contratto nazionale, in cambio della promessa di mantenimento dei posti di lavoro nella penisola. Per sancire la piena accettazione di questo scambio, Marchionne non si limita a firmare accordi separati con i soliti sindacati complici: chiede di passare attraverso due consultazioni in stabilimenti chiave, Pomigliano e Mirafiori. La spietatezza del cowboy-capitano d’impresa – l’icona americaneggiante che Sergio ama incarnare – qui si rivela in tutta la sua brutalità simbolica: i lavoratori non devono solo cedere nella pratica del rapporti di forza, devono anche sottoscrivere politicamente, attraverso un umiliante passaggio referendario, la loro resa senza condizioni. Mirafiori e Pomigliano risponderanno con grande dignità: nonostante da una parte della bilancia Marchionne abbia posto una pistola carica puntata contro di loro, la vittoria scontata dei SI sarà assai inferiore alle aspettative e la prova di forza si ritorcerà contro la Fiat, a livello di immagine pubblica. Soprattutto la classe operaia dell’ex Alfa Sud darà una significativa prova di orgoglio: centinaia di lavoratori votano NO pur sapendo che una eventuale chiusura della stabilimento G.B. Vico li lascerà allo sbando in un territorio socialmente devastato.
Quella di Marchionne è una sfida a morte contro i diritti politici e sociali dei cittadini-lavoratori, una picconata devastante alla Costituzione e allo Statuto dei lavoratori.

In questa opera demolitoria, l’uomo del maglioncino blu si troverà al suo fianco schierati quasi tutti gli attori politici e sociali che contano: i sindacati complici, i governi prima di destra e poi di centrosinistra, tutte le grandi penne del giornalismo italiano, tutti gli economisti mainstream, tutti i partiti:

A Sinistra, poi, il sostegno al piano Fiat era diventato incontenibile, a tratti imbarazzante. Sergio Chiamparino, allora sindaco di Torino e famoso per le partite a carte con il suo omonimo canadese, dichiarava: non mi pento degli apprezzamenti che ho rivolto a Marchionne. Anzi non capisco come il sindacato non possa cogliere l’occasione che viene offerta. Piero Fassino, originario proprio del Piemonte operaio, faceva eco al collega di partito: se Marchionne non avesse fatto quello che ha fatto finora , non ci troveremmo qui a discutere di Fiat perchè la Fiat non esisterebbe […] Walter Veltroni, ex segretario del Pd, affrontava la questione con fatalismo definendo l’accordo inevitabile e specificando che non avveniva sotto ricatto, bensì a causa di una condizione obiettiva che è figlia della nostra globalizzazione diseguale. (p. 125)

Anche la maggioranza della Cgil si schiera confusamente con Marchionne: qualcuno invoca la “firma tecnica” per non restare fuori dai giochi, qualcuno lavora ad ammorbidire e metabolizzare l’anomalia Fiom, nel passaggio di consegne tra Rinaldini e Landini.

Unico salvagente nella tempesta restava la Fiom, che si ostinava a non avallare la resa di Pomigliano. Non solo: il sindacato metalmeccanico aveva respinto la logica stessa del referendum giudicando illegittimo mettere ai voti dei diritti fondamentali, tutelati dalla stessa Costituzione italiana (p. 122).

La Fiom, sconfitta nelle urne, scacciata dalle salette sindacali, esclusa dai tavoli di trattativa aziendali del gruppo, con diversi delegati licenziati politici da Melfi a Modena a Torino e i suoi iscritti oggetto quasi ovunque di continui ricatti e intimidazioni per abbandonare quella tessera, resiste per alcuni anni, promuovendo scioperi, convegni, mobilitazioni, raccolte di firme, alleanze sociali per rompere l’assedio. Sono anni frenetici in cui il sindacato metalmeccanico si gioca, letteralmente, l’esistenza.
Entrando poi progressivamente nel tunnel della “normalizzazione” delle sue posizioni, oggi pienamente compiuta, almeno sul piano della cultura politica e sindacale.

Il ventaglio delle posizioni e l’elenco dei passaggi politici e sociali passati in rassegna dall’autrice, è veramente ampio e completo. E rappresenta una documentazione narrata “in diretta” di una lunga stagione di strappi e rotture che l’Italia subisce più o meno passivamente, lasciando soli i metalmeccanici e il loro sindacato più rappresentativo.

La storia ci dice com’è andata a finire: la Fiat non esiste più – sostituita dal nuovo gruppo globale Fca. Il piano Fabbrica Italia fu definito dallo stesso Marchionne una sciocchezza, stravolto più volte e abbandonato strada facendo; alcuni importanti stabilimenti italiani del gruppo sono stati chiusi e centinaia di migliaia di ore di cassintegrazione sono tutt’ora in fruizione per un settore importante di forza lavoro, da sud a nord. Negli stabilimenti della ex-Fiat, un minimo di agibilità sindacale è stata ripristinata solo grazie ad una sentenza della Corte Costituzionale (Marchionne aveva letteralmente sbattuto fuori tutte le Rsu, arrivando persino a collocare in cassa a zero ore gran parte degli iscritti Fiom). Uno tsunami disgraziato che non solo “non ha salvato la Fiat”, ma che ha spostato decisamente verso il basso l’asticella dei diritti e delle aspettative per tutti: una nuova codificazione dei rapporti di forza dentro la società italiana che ha accelerato bruscamente una tendenza già in atto, verso il rafforzamento delle ragioni e degli interessi padronali. Dal Libro Bianco di Sacconi, ai contratti separati, agli accordi più o meno condivisi sui modelli contrattuali, fino ad arrivare al terribile Jobs Act renziano: la politica ha inseguito e assecondato il marchionnismo, dimostrandosi serva, complice e sostanzialmente inutile. Il sindacato confederale, dal canto suo, ha tristemente imboccato la sua deriva finale verso l’approdo aziendalista, fatto di servizi, enti bilaterali, previdenza e sanità integrativa, collateralismo d’impresa.

Niente più rivendicazioni,niente più lotte o inutili contrapposizioni. Il sindacato avrebbe trovato la sua ragion d’essere in una proficua collaborazione con la classe imprenditoriale, naturale avversaria fino a pochi decenni prima. I “padroni” avrebbero smesso di essere tali, e i lavoratori si sarebbero saggiamente impegnati per la competitività dell’azienda, nonostante i profitti rimanessero nelle stesse tasche di sempre. Il ministro Sacconi , d’altronde, lo aveva scritto senza troppi giri di parole:”bilateralità e partecipazione rappresentano la soluzione più autorevole e credibile per superare ogni residua cultura antagonista nei rapporti di produzione. (p. 122)

Quello di Maria Elena Scandaliato è un libro serio e utile, in un paese dalla memoria corta. Infatti fa bene l’autrice, a ricordare, en passant, la dimenticata vicenda di Walter Molinaro, che non c’entra direttamente con Marchionne, ma può dare la misura di una regressione profonda. E’ una storia che ci riporta al 1988, all’Alfa Lancia di Arese, in un paese già abbondantemente pacificato ma ancora innervato da sani elementi di consapevolezza e tenuta democratica.

Walter Molinaro, operaio specializzato all’Alfa Lancia di Arese, è convocato nell’ufficio del direttore del personale. Il dirigente dell’Alfa – passata dall’Iri alla Fiat quasi due anni prima – propone al suo dipendente un incredibile salto di qualità: da operaio specializzato “provetto” (questa era la qualifica) a designer del Centro stile, uno dei reparti più prestigiosi dell’azienda. L’offerta non è casuale: Molinaro è un trentatreenne di belle speranze. Pur lavorando in fabbrica dall’età di sedici anni, sta per laurearsi in Architettura, dove è impegnato in un progetto di riqualificazione dell’area del Portello, storico stabilimento dell’Alfa Romeo. (p. 2)

L’unica condizione che l’azienda pone per questa prestigiosa promozione è che il suo dipendente abbandoni la tessera Fiom. Un piccolo gesto che gli aprirebbe grandi opportunità di carriera e guadagni. L’operaio quasi-architetto, nell’Italia rampante degli anni ’80, risponde no con serena fermezza, pubblicamente. Il suo partito, il Pci, lo trasforma in un caso nazionale attraverso interrogazioni parlamentari e petizioni, riaccendendo i riflettori sul mondo Fiat, otto anni dopo la marcia dei quarantamila. La domanda (retorica), che alimenta la discussione pubblica, è se i meriti professionali del singolo dipendente possano essere subordinati al giudizio politico-sindacale delle gerarchie aziendali. “L’Espresso”, “Repubblica”, il Ministro Formica, tutte le sinistre, si schierano contro “l’arroganza aziendalista”. Il dibattito sui diritti sindacali e politici divampa. Persino il più influente filosofo italiano vivente – Norberto Bobbio – si sente in dovere di intervenire, schierandosi a fianco della dignità del lavoro e del diritto di espressione.
E’ il 1988. Un anno prima della caduta del Muro di Berlino.