di Luisa Catanese

giuliano.jpgGli ultimi anni della sua vita fu mia vicina di casa. Abitava al piano di sopra, proprio qui sopra a chi scrive. Mi consegnò un manoscritto, l’autobiografia del marito. La voce del defunto sarà nelle mie parole. Perché parlino i morti, mi hanno spiegato, bisogna respirare nelle loro bocche.

Catanisi si era appena sposato. Aveva manifestato alla Direzione generale della Polizia il desiderio di essere trasferito in una questura dell’Italia meridionale, magari in Calabria, nei pressi della cittadina dove vivevano i genitori. Fu accontentato, se così si può dire, nell’aprile del 1939. Fu inviato, con sua grande meraviglia, in una delle sedi più disagevoli e pericolose della Sicilia, al commissariato di Corleone, ove erano stati sempre assegnati dei funzionari di grado superiore al suo, l’ultimo dei quali ci aveva rimesso le penne, dal punto di vista professionale, perché si era lasciato sorprendere da un’improvvisa manifestazione della massa bracciantile.

Quando mise piede in quell’ambiente infocato, in cui dominava l’ingiustizia e l’omertà, Catanisi, anche se all’inizio della sua carriera, non si scoraggiò. Nemmeno quando si presentò al questore di Palermo, che, dopo avergli chiesto se si fosse dato da fare per ottenere il trasferimento in quella sede, dove, a suo parere, un funzionario di primo pelo non avrebbe resistito molto a lungo, gli rivolse l’augurale ed eloquente frase: «Figliolo, che Dio gliela mandi buona!»
Catanisi si mise subito all’opera: in breve tempo conquistò la fiducia e la stima del suo questore, nonché la simpatia di quel comandante dei carabinieri, capitano Erennio D., che aveva avuto serie divergenze con l’ex dirigente di quell’ufficio di polizia. I pezzi grossi della mafia e la popolazione rurale, racconta Catanisi, lo studiavano con cautela e diffidenza. Quando le contingenze belliche e la presenza del Comando di Corpo d’Armata a Corleone lo misero nella favorevole condizione di far molto bene alla popolazione e di procedere, senza arbìtri, alla raccolta del grano, agli ammassi, la sorte di Catanisi, «cavaliere per antonomasia», era stabilita: nessun delinquente avrebbe potuto, in quel comune, arrecare il minimo torto a quel galantuomo, anche se, per fedeltà al dovere, era un rigoroso esecutore della legge. Fu questo l’ordine della mafia, secondo notizie confidenziali, riferisce Catanisi.
Il questore prese tanto a benvolere quel dinamico giovanotto, come soleva chiamarlo, che non soltanto gli affidò diversi incarichi speciali di natura riservata, ma lo propose come dirigente del Settore di Polizia. Composto da poliziotti e carabinieri, provvisto di mezzi meccanici e di cavalli, il Settore di Polizia (istituito dal Ministero dell’Interno il 1° aprile 1940), come poi l’Ufficio interprovinciale di Polizia (istituito dal Comando alleato, su proposta della questura di Palermo, e attivo dal gennaio 1944 al 25 aprile 1945), aveva il compito di combattere a oltranza il banditismo in genere e l’abigeato in ispecie. Catanisi, che diresse prima il Settore di Polizia, poi l’Ufficio interprovinciale di Corleone, dispiegò, in quel periodo difficile, un’intensa e pericolosa attività repressiva, portando a felice compimento innumeri e importanti operazioni di polizia giudiziaria, assicurando alla giustizia punitiva gli autori, confessi e mai presunti, di efferati delitti e addivenendo alla cattura di temibili pregiudicati latitanti. Nella sua vasta giurisdizione, racconta Catanisi, egli dette tangibili prove di coraggio e di sprezzo del pericolo, mise centinaia di volte a repentaglio la propria vita, sfuggì miracolosamente a numerosi agguati, soprattutto nel caos successivo all’occupazione della Sicilia, quando i fuorilegge erano venuti in possesso di armi di ogni sorta.
Catanisi rimase a Corleone per sei lunghissimi anni, mentre nessun altro suo predecessore era riuscito a reggere per lungo tempo. Si sottopose ai più duri sacrifici e a ogni privazione materiale e spirituale. L’unica sua gioia era la famiglia, e non chiedeva altro. Ma anche questo conforto venne meno. Dopo il trasferimento del Corpo d’Armata da Palermo a Corleone, Catanisi, consigliato dal comandante generale Arisio, ritenne opportuno, nell’aprile 1943, di inviare la moglie e i due figli maschi, nati a Corleone, a casa dei suoceri, sui monti della Carnia. I bombardamenti degli Alleati, racconta Catanisi, non tardarono a lungo.
Catanisi restò solo, solo come non si era mai sentito, e se non impazzì di dolore fu per la dedizione viscerale al lavoro. Si fece forza e resistette per un anno, sempre più esasperato perché della moglie e dei figli non gli giungevano più notizie, quelle rare notizie che per qualche tempo, anche dopo l’8 settembre, la Croce Rossa talvolta gli portava. Ma poi, conclude Catanisi, non sopportando di continuare a vegetare, privo di ogni svago, in quel paese che risvegliava il ricordo dei cari lontani e lo inchiodava al più nero pessimismo, chiese al nuovo Direttore della Polizia per la Sicilia di essere trasferito in un’altra località dell’isola. In un primo tempo gli venne dato per certo che sarebbe stato destinato a Caltagirone (paese di origine dell’onorevole Scelba, annota Catanisi in una lettera del ’61), come ricompensa per la proficua attività svolta, ma poi non se ne fece più nulla.
Fu proprio in questo periodo che il Direttore della Polizia per la Sicilia, il dottor commendatore M., per farlo distrarre, gli propose, previa facoltà di accettazione o di rifiuto, di recarsi in missione a Partinico, nella cui zona agiva, quasi indisturbata, racconta Catanisi, la temibile banda di Salvatore Giuliano. Avrebbe dovuto riorganizzare quell’ufficio interprovinciale e rendere più efficienti i servizi di polizia. In quel comune si erano deplorati gravissimi incidenti: era stato ucciso un maresciallo dei carabinieri, e immobilizzato, sotto la minaccia delle armi, anche il commissario di polizia del posto, soprannominato il Ras, forse, precisa Catanisi, per la sua alta statura, la barba nera e l’aspetto truculento. A Partinico il 31 gennaio del ’44 contadini e braccianti erano scesi in piazza per protestare contro gli accaparratori di grano. I carabinieri avevano sparato e avevano ucciso un ragazzo di sedici anni. Vennero poi arrestati numerosi comunisti, ritenuti responsabili dei disordini.
Un altro funzionario di polizia, soprattutto se bisognoso di riposo, di cure e di conforto, sicuro peraltro di non andar soggetto a grandi pericoli nell’abitato di Corleone, avrebbe forse aderito alla proposta fatta a Catanisi, magari a fin di bene, dal commendatore M.? Si può supporre il contrario, sostiene Catanisi, visto che la proposta racchiudeva la seria minaccia di mettere a rischio la vita, e che non si trattava certo di un ordine categorico impartito dal superiore diretto al subalterno. Non si pecca di esagerazione, continua Catanisi, se si afferma che certi atti di coraggio, che si risolvono in una sola azione più o meno eroica, scaturita il più delle volte da circostanze fortunate, e compiuta inconsciamente o per legittima difesa, sono stati premiati dal Ministero dell’Interno con promozioni straordinarie o con notevoli ricompense pecuniarie. Orbene, il coraggio di cui dette prova, in quella contingenza, il Catanisi, con la semplice ed entusiastica accettazione della proposta fattagli, passò del tutto inosservato. Eppure il commissario Catanisi era cosciente di quello che faceva, perché all’atto della ricezione della suddetta proposta, i suoi occhi si velarono di profonda tristezza. Il suo pensiero volò alle Alpi, alla moglie e ai figli. Nel caso di una disgrazia sarebbero caduti nella più fonda miseria.
Fu così che il commissario Catanisi partì, il 24 giugno 1944, alla volta di Partinico, seguito dal suo fedelissimo maresciallo di polizia Francesco M., con l’intesa che la missione sarebbe durata un mese. Invece fu trattenuto a Partinico fino al 31 agosto, dove riorganizzò, anzi quasi creò, un nuovo ed efficiente ufficio interprovinciale di polizia — già a Corleone, alcuni anni prima, aveva fatto ristrutturare una vecchia caserma, ricavandone dei locali che, per la loro ripartizione, erano considerati tra i migliori del genere allora in Sicilia. A Partinico diede un impulso a tutti i servizi e, quel che più conta, catturò numerosi latitanti. Di volta in volta fece proposte, peraltro sempre accolte, ai suoi superiori, di concedere ricompensa pecuniaria agli agenti e ai carabinieri che l’avevano coadiuvato, senza mai chiedere nulla per sé. Anzi, durante gli anni trascorsi alla direzione delle cosiddette Squadriglie mobili, ci volle il bello e il cattivo tempo per fargli accettare le spese confidenziali che solevano essere concesse ogni mese ai dirigenti degli organismi speciali di polizia.
È superfluo ripetere che soprattutto a Partinico il commissario Catanisi rischiò più volte la vita. Vi è un episodio di quei mesi, significativo ma ignorato. Un epilogo diverso, sostiene Catanisi, avrebbe fatto risparmiare nel dopoguerra molto denaro e, quel che più conta, molto sangue e vite umane.
Un giorno Catanisi, come spesso faceva, si recò da Partinico a Palermo per conferire con il Direttore della Polizia per la Sicilia e per avanzare una delle solite proposte di ricompensa pecuniaria a esclusivo favore del personale dipendente. Quel giorno ebbe il preciso incarico dal suo superiore diretto di studiare e suggerire un piano per ingaggiare battaglia, diciamo così, con la banda Giuliano e tentare di decimarla o almeno di assottigliarne le fila. Il commissario Catanisi raccolse attendibili voci confidenziali, racimolate dai suoi uomini, nonché avute personalmente dal giovane F. D., ch’egli aveva tenuto a cresima e che, come proselite del Movimento separatista, afferma Catanisi, conosceva Finocchiaro Aprile e l’avvocato Varvaro. Si persuase che la famigerata banda Giuliano fosse ormai composta da circa centocinquanta elementi e provvista di mitragliatrici, fucili mitra e bombe a mano. Così il commissario, presi accordi con lo zelante e coraggioso ufficiale dei carabinieri che comandava quella tenenza, fece dopo pochi giorni un’assennata proposta al suo superiore.
Gli disse che avrebbe diretto risolutamente un’operazione in grande stile, purché avesse avuto un numero di armi e di uomini almeno pari a quello della banda, e aggiunse, senza ironia, credo, che le probabilità di vittoria sarebbero state infinite, se, nel contempo, il signor Charles Poletti, rappresentante degli Stati Uniti a Palermo, e l’ufficiale superiore americano addetto alla Polizia Militare, avessero concesso un aereo da ricognizione, per perlustrare le rocce e gli anfratti della zona tra Montelepre e Partinico, dove si trovava il quartier generale mobile del bandito. Il comando delle truppe alleate, a cui il Direttore della polizia si rivolse, non volle saperne. Senza la minima intenzione di trarre conclusioni affrettate, mi permetto di aggiungere che il colonnello Poletti, rappresentante degli Stati Uniti a Palermo, aveva come aiutante, come interprete ufficiale, Vito Genovese, padrino della mafia italoamericana. Così il commissario Catanisi, dopo essere riuscito a ottenere che il Comando alleato concedesse alle forze di polizia italiane almeno qualche fucile mitragliatore, con relative munizioni, ritenne di aver assolto nel miglior modo possibile alla sua missione a Partinico. Chiese e ottenne il permesso di rientrare a Corleone e in seguito l’autorizzazione a recarsi in Calabria, in provincia di Cosenza, per rivedere i suoi cari genitori.
Poco tempo dopo, mentre il commissario beneficiava del breve periodo di licenza, l’ufficiale dei carabinieri che comandava la tenenza di Partinico, spinto dal giovanile entusiasmo e forse desideroso di fare una brillante carriera, fidandosi ciecamente di alcune notizie confidenziali, secondo le quali il bandito Giuliano sarebbe sceso in pianura con un solo pugno di uomini, si portò con una ventina di militari nella località indicatagli. Si racconta che il bandito tese un agguato all’ufficiale e lo freddò personalmente, senza alcuna remissione. Poi, fatto medicare un carabiniere ferito (gli altri militari erano fuggiti), gli avrebbe detto: «Tu non hai nessuna colpa. Per questo ti risparmio e ti lascio libero. Di’ ai tuoi superiori che per combattere Giuliano ci vogliono ben altre forze». Il commissario Catanisi racconta questo aneddoto per poi ribadire che avrebbe preso senz’altro l’iniziativa di ingaggiar battaglia contro Salvatore Giuliano, se avesse avuto un numero maggiore di uomini fidati e di armi idonee. Riteneva che il noto fuorilegge, ispirato dai maggiori esponenti del Movimento separatista siciliano, poteva contare sull’ausilio di numerosi confidenti insospettabili, disseminati ovunque, che gli segnalavano tempestivamente ogni mossa delle forze di polizia, che in quei tempi erano peraltro soggette al beneplacito del Comando americano.
Il commissario racconta che maturò la decisione di evadere dalla Sicilia, appena possibile, anche perché il suo figlioccio F. D., l’informatore, gli aveva proposto di presentarlo a Finocchiaro Aprile, che gli prospettava una brillante e rapidissima carriera, se avesse aderito al Movimento separatista. Il commissario, pur astenendosi dalla politica, mal tollerava le utopie dei separatisti, tanto che non solo scartò la proposta, ma proibì al figlioccio di importunarlo ancora, anzi gli disse di non farsi più vedere. Per molti anni Catanisi non rivelò la parte che aveva sostenuto in Sicilia, ma in cuor suo deplorò d’aver rischiato tante volte, inutilmente, la vita. Durante la sua permanenza a Corleone, infatti, il commissario ebbe due vantaggiose proposte che rifiutò. Gli chiesero se volesse trasferirsi alla questura di Palermo: una prima volta per assumere il ruolo di Vice Capo di Gabinetto e in seguito per la carica di Capo di Gabinetto presso la Direzione di Polizia per la Sicilia. Rifiutò cortesemente entrambe le proposte e preferì rischiare di buscarsi qualche pallottola di moschetto o raffica di mitra anziché far vita sedentaria.
Qui incontriamo, per la prima volta in modo esplicito, uno dei temi principali degli scritti di Catanisi: l’attività di polizia preventiva. Catanisi, scrive Catanisi in una lettera del gennaio 1961, non si limitò soltanto a esercitare, a Corleone, un’attività repressiva, ma dispiegò anche un’ininterrotta attività preventiva: conseguì proficui risultati e riscosse l’apprezzamento, la fiducia e la simpatia di quella popolazione rurale, nella quasi totalità onesta e laboriosa. E pensare, prosegue Catanisi nella stessa lettera, che la stampa italiana, qualche anno fa, in seguito alla soppressione di alcuni “capoccioni” di Corleone (in primo luogo il dott. Michele Navarra, medico di Corleone e medico anche della famiglia di Catanisi, mi riferì la vedova), aveva definito quella zona addirittura come “il triangolo della mafia”. Catanisi invita poi a confrontare le statistiche sui reati di violenza avvenuti a Corleone dal 1940 all’aprile 1945 con quelli successivi alla sua partenza da quel comune. Trascura, è vero, i fattori oggettivi (la guerra, gli equilibri politici, l’intesa tra mafia e forze alleate) per evidenziare i meriti soggettivi, ma almeno non manca di spiegare come si era conquistato i favori della popolazione. Il maggiore americano Drake, scrive Catanisi, e più tardi il capitano inglese Davis, ufficiale di polizia a Londra, insediatisi a Corleone dopo l’occupazione dell’isola, ritennero opportuno esprimere il loro più vivo elogio al commissario, perché nessun corleonese, di sua iniziativa o interpellato in merito, aveva mancato di lodarne il comportamento, al contrario di quanto era avvenuto in moltissimi altri comuni della Sicilia, dove, a dire di questi ufficiali alleati, erano stati arrestati diversi poliziotti e carabinieri, molti dei quali (senza essere riconosciuti responsabili, a onor del vero, di azioni contrarie alla legge) erano stati severamente ammoniti dagli angloamericani e indotti a usare verso la popolazione metodi più democratici. A Corleone, il commissario fu stimato un uomo onesto e retto nel vero senso della parola (Catanisi si compiace, credo, come ho già accennato, della sua condotta in occasione degli ammassi del grano); un uomo profondamente religioso ma non bigotto, incapace di commettere un atto illecito o difforme dalla morale. Ma la rischiosa e proficua attività repressiva e preventiva dispiegata, scrive Catanisi, durante la lunga permanenza in Sicilia, in periodi calamitosi e di carestia, non può essere conosciuta dalla Direzione generale della Polizia, ritiene Catanisi, perché la guerra aveva separato l’isola dal Paese e sospeso a lungo ogni contatto con il Ministero dell’Interno.
Prima della fine della guerra, Catanisi, desideroso, per i motivi già esposti, di evadere dall’isola e ansioso di avvicinarsi ai suoi familiari, supplicò più volte il suo superiore di fargli ottenere un trasferimento nel continente. Finalmente il 23 aprile 1945 un telegramma comunicò: «Commissario aggiunto (…) est at disposizione Ministero per assegnazione sede Italia Centrale suo gradimento punto Pregasi avvertire interessato at tenersi pronto at partire (…) In conseguenza di quanto sopra, la S. V., allo scadere del congedo che in atto fruisce, potrà lasciare la residenza di Corleone».
Catanisi partì per Roma il 26 aprile. A metà maggio chiese e ottenne un mese di licenza per recarsi in provincia di Udine e rintracciare i suoi familiari. Benché fosse ancora in vigore, scrive Catanisi, in quel periodo caotico, una sorta di cordone economico-sanitario, benché mancassero i mezzi di trasporto, egli, che non possedeva la patente di guida, dopo aver superato innumeri e difficili ostacoli, animato da un’indomita volontà, riuscì a trovare sani e salvi i suoi cari familiari e affrontò in loro compagnia, senza disanimarsi, l’arduo viaggio di ritorno, raggiungendo la capitale tre giorni prima che scadesse la licenza.
Fece in tempo a liberare da un carcere, mi raccontò la vedova Catanisi, il diciottenne Aurelio, il fratello di lei, che in Veneto era stato catturato dai partigiani mentre indossava la divisa della repubblica di Salò. Aurelio nel dopoguerra mise giudizio: divenne un imprenditore, fu presidente di una squadra di calcio, votò come il cognato partiti di governo; ma questa è un’altra storia. E un’altra storia sono le vicende del commissario che seguono la guerra. Se mi lasciate riprendere il fiato, forse il commissario Catanisi ve le racconterà.