di Dziga Cacace

ov4-1.JPG58-Deus e o diabo na terra do sol di Glauber Rocha, Brasile 1964

Finalmente posso vedere, e su grande schermo, uno degli idoli dell’amato Bertolucci, quel Rocha passato alla storia come uno dei fondatori del glorioso Cinema novo. Il dio nero e il diavolo biondo viene presentato nell’ambito di una rassegna che vuole far conoscere il cinema dei paesi del “sud del mondo”, ed è organizzata dal Comune e dalla Provincia di Genova con l’aiuto di una marea di cineteche, sponsor, enti, etc. Prima sorpresa: costo della proiezione 8000 lire tonde, più di una qualunque prima visione pomeridiana. Vabbeh. Mi accomodo in sala e si gela letteralmente. Siamo in venti freak e prendiamo posto su delle seggioline in legno degne di una camera di tortura. E guarda il caso, nonostante la sala desolatamente vuota, un furbacchione mi si siede dietro e puntella le sue forti ginocchia sul mio schienale garantendomi un’ora e rotti di sedia a dondolo. Siccome sono timido e non ho voglia di litigare subisco il beccheggio in silenzio. Inizia la proiezione e l’operatore ci mette cinque minuti a trovare il fuoco, tralasciando che monta un mascherino sbagliato e il film è proiettato con qualche grottesco taglio delle inquadrature. Allora mi chiedo: ma io, qui, che cazzo faccio?


Maldiçao! Ci sono venti sfigati in sala, l’organizzazione fa venire anguscia e il tutto si suppone sia ricoperto di finanziamenti e appoggi. Se penso che noi riempiamo il Lumière come un uovo con un misero milione e mezzo che l’Università ci concede caritatevolmente… ma vaffanculo, va’. Comunque, torniamo al film: l’attesa è grande, ma non nascondo qualche timore. Claudio ed Enrico mi hanno avvertito: i brasiliani non sono da meno dei portoghesi, i film dei quali hanno una ponderosità pari a un menhir scagliato con virulenza tra i testicoli. E in effetti… Alcune scelte stilistiche sono assolutamente esaltanti e la povertà di mezzi della regia è sfruttata intelligentemente. Certe invenzioni fotografiche o l’utilizzo dell’agile cinepresa stupiscono, ma per gustare queste cose bisogna anche sorbirsi una trama delirante, piena di simbolismi che, per noi europei lontani anni luce dall’intreccio tra carnalità e spiritualismo che pervade l’epica brasiliana, risultano alquanto indigesti. Siamo nel sertão, dove il vaqueiro Manuel si fa abbindolare da un santone nero che conduce i suoi seguaci a un insensato massacro per opera di Antonio Das Mortes. Manuel, fallita la rivolta, si mette al seguito di Corisco, un cangaçeiro cattivo come l’aglio che uccide i poveracci per evitargli di morire di fame. In un delirio narrativo condito di scene lunghissime e di dialoghi incomprensibili, arriviamo allo spiazzante finale, quando Das Mortes, sicario al soldo dei proprietari terrieri (che però idealmente parteggia per i poveri rivoltosi), uccide Corisco nella speranza che un nuovo martire serva alla causa ribelle. Stranissimo, folle e intrigante, ma anche assolutamente palloso. (Sala Germi; 24/3/97)

59-Ni d’Eve ni d’Adam di Jean Paul Civeyrac, Francia 1996

Vista la simpatia e disponibilità del regista (che è intervenuto dopo la visione del film) spiace parlare male di questo film. Beh, innanzi tutto non è che sia indecente, anzi. Però m’ha lasciato insoddisfatto: pieno di buone intenzioni rimaste sulla carta, boh. Io, francamente, non ho capito dove si volesse arrivare. Gilles è un quattordicenne autenticamente stronzo: vive nella banlieue tra Saint Etienne (che ho modestamente riconosciuto: bravo!, direte) e Lione e non ha particolari problemi familiari. Insomma il regista non cerca giustificazioni: Gilles è un ribelle e basta (peraltro interpretato da un adolescente che recita in modo scomposto e ha un’insopportabile faccia da schiaffi). Senza motivi particolari è insofferente alla scuola, alla famiglia e all’ordine costituito. Ruba, compie azioni sconsiderate e rischia di rovinare l’unico rapporto decente che ha saputo costruire, quello con Gabrielle, una virginale ragazza che da questo bastardo è intenerita. Per conto mio a questo fuckin’ little punk basterebbe una bella serie di cinghiate ben assestate. Nessuno si premura di dargliele in tempo, finché Gilles inizia una disperata fuga, con Gabrielle al seguito, in una provincia ostile e fredda. Non c’è un vero finale né una morale precisa né il regista, più tardi, mi ha illuminato sugli obiettivi del film. Mah, non ho capito. Il famigerato dibattito è introdotto da Claudio G. Fava e si trasforma presto in uno spassoso show del critico che, però, dimentica il suo originario compito: far parlare il regista. Tra l’altro il buon Civeyrac non capiva una parola d’italiano e vedersi una platea che sghignazza alle battute del tuo intervistatore non deve essere stato piacevole. Detto questo, inviterei tutte le sere Fava, possibilmente a bersi un cicchetto a casa mia. (Cineclub Lumière; 25/3/97)

60-Premonizioni di Brett Leonard, Usa 1996

Serata horror con un prodottino di quel cane di cui avevo recensito l’anno scorso l’orrendo Il tagliaerbe. Anche stavolta si fa ricorso massiccio a computer graphics in 3D ma, per fortuna, il film non è malaccio e il regista si merita una menzione per aver saputo costruire un discreto film di genere che ci ha tenuto ben svegli (Barbara, Simona e io, mentre Enrico dormiva come una pietra). Il redivivo Jeff Goldblum viene riportato alla vita da un coma profondissimo (il cui racconto ricorda da vicino le testimonianze del libro La vita oltre la vita) e, recuperate le sue abituali funzioni vitali, inizia a vedere con gli occhi di uno psicopatico che ha subito il suo stesso disperato intervento operatorio. Grazie a questa possibilità riuscirà a smascherarlo. L’idea non è male e la tensione è ben amministrata. Purtroppo il finale trasforma questo thriller fantastico in una baracconata che non sa rinunciare a tirar fuori, per l’ennesima volta, lo scontro tra bene e male. Se si sopporta questo ruzzolone il film è godibile. Se no, v’incazzate. Avvertiti. (Vhs; 29/3/97)

61-Maledetto il giorno che t’ho incontrato di Carlo Verdone, Italia 1992

Seconda visione a distanza di qualche anno. Tutto sommato piacevole e decisamente meglio del Verdone sbracato degli ultimi tempi. Un giornalista affetto da varie nevrosi insegue uno scoop sulla morte di Hendrix; sulla sua strada, ad aiutarlo o, involontariamente, ostacolarlo, un’altra nevrastenica (la Buy, sospettosamente sempre in parte quando si tratta di isteriche). Decente costruzione della vicenda nel primo tempo, poi, avvicinandosi a un finale che puzza happy lontano un miglio, la trama si sfilaccia. Verdone indulge a fotografare il paesaggio della Cornovaglia e abusa di litigi e rappacificazioni tra i due personaggi. Comunque gli attori sono simpatici, la vicenda (un Harry ti presento Sally all’amatriciana) più o meno funziona e, visto il recente livello della commedia italiana, non c’è che da adeguarsi. E poi, va detto, nel primo tempo si ride abbastanza. (Vhs; 30/3/97)

62-Quattro delitti in allegria di Alain Berberian, Francia 1995

Grande attesa e, purtroppo, grande delusione: sono tre mesi che il Lumière propina il trailer di questo demenziale film francese e l’immortale battuta “del dito” (lui, seducente: “gradisce un whisky?”, lei, intimidita: “…mm, solo un dito…”, lui, insistente: “Non vuole prima il whisky?”) faceva presagire grandi cose. E il film — interpretatato dai Les Nuls, gruppo comico dal grande successo televisivo — non parte male: per i primi venti minuti si sghignazza piacevolmente, rischiando il colpo apoplettico nella scena dell’aeroporto (due tizi si presentano: “Lei è…?” – “All’aeroporto!”; ma detta così fa cagare, scusate) e nella lunga sequenza che si diverte a parodiare l’inseguimento tra le case di Point Break. Poi il film perde progressivamente ritmo, i lampi d’umorismo diventano gocce nell’oceano e la trama si risolve abbastanza banalmente. Però, nonostante fosse assolutamente una cazzata, s’è fatto vedere (a fianco a Enrico Musso). (Cineclub Lumière; 31/3/97)

63-La scuola di Daniele Luchetti, Italia 1995

Dai divertenti racconti di Starnone, l’ultima giornata di scuola di un Istituto Tecnico: è tempo di scrutini e di bilanci. Il prof. Vivaldi, l’adorabile Silvio Orlando, è preoccupato per la sorte dei suoi allievi: partecipa la loro vita e, unico tra i membri del collegio docente, vorrebbe salvarli tutti dalla bocciatura. Preso da questa missione non s’accorge che l’insegnante di matematica (la Galiena), di cui è da tempo invaghito, lo ricambia. L’atmosfera pesante e oppressiva dello scrutinio, lo scanzonato ambiente dei ragazzi poco preoccupati del loro futuro, le frustrazioni dei docenti, le aspirazioni bruciate e un lavoro “costretto” in una scuola che va letteralmente a pezzi… Ben costruito (anche se il finale è un po’ stanco), ben recitato e girato con sobrietà. Tutto sommato quello che ci si poteva aspettare da Luchetti. (Vhs; 1/4/97)

ov4-2.JPG64-R.D.F. – Rumori di fondo di Claudio Camarca, Italia 1996

Ricordate Andrea Occhipinti? È quel personaggio fortunato che ha mimato stilizzati amplessi con Bo Derek nell’abominevole Bolero Extasy. Più avanti nella sua carriera ha presentato, in compagnia della bonona Fenech, un bel Festival di Sanremo. Esaltante pedigree (perché attorialmente si parla di un cane), no? E invece, oggi, redento e recuperato alla funzionalità cerebrale, il buon Occhipinti si dedica alla produzione e alla distribuzione cinematografica, non di rado tirando fuori dal cappello qualcosa d’interessante, come il film in questione. Rumori di fondo è un film ben strano, dicevo. Girato con poche lire ma con molte idee, è un tentativo pasoliniano/tarantinato abbastanza riuscito, con una connotazione stilistica molto particolare e personale. Si intravedono i cascami del linguaggio dei videoclip e c’è un po’ un abuso di close-up e grandangoli, ma nonostante queste “deviazioni” giovanilistiche che avrebbero potuto irritarmi, il film è intrigante. Parte lentamente per poi subire una bella accelerata: Zago è un disperato che non s’accontenta, alle porte di Roma, del mestiere di pastore del fratello. Decide, con la sua ragazza, di rapinare un laido usuraio (un bravo Fassari che o fa il bastardo – Camerieri, Pasolini etc. – oppure recita nei film di Vanzina: bello schizofrenico). La rapina si trasforma in massacro e sul posto interviene l’ispettore Tiresia (Occhipinti), corrotto superpoliziotto con il vizio del gioco, indebitato e inseguito dai creditori. Finale immorale e convincente. Insomma: meritevole, anche se Camarca sembra che creda troppo nella sua autorialità e solo a tratti liberi un po’ di senso dell’ironia. (Vhs; 2/4/97)

65-Grace of My Heart di Allison Anders, USA 1996

Edna Buxton è un’ereditiera con la passione della musica. Entra nel mondo discografico con l’intenzione di interpretare le canzoni che scrive, ma non è ancora il momento per le cantautrici, per cui, cambiato il suo nome in Denise Weaverly, si dedica esclusivamente alla composizione, ottenendo un buon successo. I tempi cambiano: amanti, matrimoni, sodalizi artistici, il pop bianco e nero, la British Invasion, il sound californiano… bah! Alla fine arrivano gli anni Settanta, la Me Decade, e il primo disco cantautorale della Weaverly vende uno sbrego di copie, un po’ come è accaduto a Carole King, autrice per tanti grandi interpreti (come Aretha Franklin) e infine baciata dal successo in prima persona con il palloso e intriso di melassa Tapestry. Girato bene e soprattutto fotografato e montato in maniera superba (la Schoonmaker), Grace of My Heart risente però di una trama molto edulcorata, popolata da personaggi generici e poco credibili. A quando un bel film intriso di sangue e merda sugli Allman Brothers, invece? E riuscite a immaginare quale figata potrebbe essere un film su Roy Buchanan? Bah! Mai che si scelgano le storie giuste. E poi, che io sappia, negli anni Sessanta, non esistevano ancora le chitarre solid body della Yamaha e semmai fossero esistite nessun americano le avrebbe mai comprate, ignoranti. (Cineclub Lumière; 3/4/97)

66-Le scarpe d’oro di Franck van Passel, Belgio 1996

Bello! Storia di un amore impossibile tra due giovani, in una Bruxelles fredda e piovosa. Girato molto bene e fotografato ancor meglio – con una grande attenzione ai colori saturi e alle luci riflesse – Le scarpe d’oro, pur essendo un film belga, sferza di tanto in tanto alcune belle mazzate svedesi (vedi la sommaria definizione data nella recensione n°33/34), ma non per questo rinuncia a una felice ironia che stempera il palpabile senso tragico della vicenda. Consigliato, anche se non so dove e come. (Cineclub Lumière; 4/4/97)

67-Testimone a rischio di Pasquale Pozzessere, Italia 1996

Parlare male di un film come questo sembra un po’ una carognata, però… Insomma: soggetto civile, civilissimo, e conseguente adozione di un linguaggio cinematografico scarno e sobrio che nulla deve concedere alla spettacolarità e al gusto pacchiano del pubblico. OK, va bene, ma poi? Dopo? Insomma, siamo dalle parti di un documentario romanzato molto impersonale, dove la firma del regista – in questa asetticità che vuole semplicemente rendere conto del dramma di un cittadino che fa il suo dovere e prende soltanto mazzate nei denti – viene a scomparire. Certo: non mi va mai bene niente, però, chessò un qualche sforzo per rendere meno anonimo il prodotto si poteva fare. Almeno credo. E poi, dopo aver visto tanti recenti film stranieri, ci si chiede come mai il sonoro e la direzione della fotografia siano sempre così sciatti. Ogni tanto un sussulto di indignazione per questo stato di pagliacci che è l’Italia diventa salutare, ma, ripeto, nella migliore tradizione del cinema di denuncia di oltre vent’anni fa, bisognerebbe osare qualcosa di più. (Cineclub Lumière; 6/4/97)

ov4-3a.JPG68-Sciuscià di Vittorio De Sica, Italia 1946

Dopo qualche secolo, complice un pochissimo ispirato articolo per la rassegna del Lumière di quest’anno, rivedo uno dei tanti premi Oscar di De Sica. Ricordavo poco e la visione è risultata piacevole anche se, forse, I bambini ci guardano m’è sembrato ancor meglio. Comunque ancora una volta un disinvolto utilizzo di carrelli e gru e soprattutto una capacità straordinaria di far recitare i bambini, chissà con quali stronzate nei loro confronti (vedi il famoso episodio citato in C’eravamo tanto amati). (Vhs; 7/4/97)

69-Un colpo di silenzio di Allen Baron, USA 1961

Fuori Orario regala questo originale film del mai sentito Allen Baron: si tratta di un classico hard boiled con la voce off del protagonista a commentare la vicenda. Purtroppo il doppiaggio, molto impostato, non riesce a rendere l’ironia dei pensieri del protagonista e rende il tutto un po’ farsesco. Accettato questo difetto, il film è la godibile cronaca dell’assassinio che un killer deve portare a compimento per un potentato di New York. L’amareggiato protagonista, scontento della sua vita e deciso a smettere di uccidere per vivere, è interpretato da un illustre sconosciuto dalla faccia che ricorda un incrocio tra il Lino Ventura più perplesso e il De Niro più sorridente. Girato con buon gusto fotografico in una New York natalizia livida e piovosa, vediamo Manhattan, Harlem e altri interessanti scorci della città. Interessante. (Vhs; 7/4/97)

70-Due sulla strada – The Van di Stephen Frears, Irlanda/Gran Bretagna 1996

Consigli per la visione: non vedetelo. Siamo in Irlanda: due disoccupati s’industriano, nell’euforica atmosfera dei campionati del mondo del 1990, per mettere su una piccola attività imprenditoriale. Il van dal quale vendono fish and chips porta soldi ma anche problemi e l’amicizia tra i due rischia di andare a farsi benedire. Scontato finale dolce-amaro e falsamente lirico, per un film assolutamente deludente. I primi 20 minuti lasciano interdetti, sperando che la vicenda prenda quota. Ci si illude con le divertenti scene relative ai mondiali e al tifo indiavolato degli irlandesi (si vede anche il De Ferraris, dove l’Irlanda eliminò la Romania ai rigori), per poi ripiombare in uno squallore narrativo veramente ammorbante. Per rendere un film divertente non basta dare al protagonista una maglietta con su scritto Schillaci fuck off. (Vhs; 8/4/97)

71-Il vestito di Alex Van Warmerdan, Olanda 1996

Film difficile da recensire, o quello che faccio io che non so bene cosa sia. Comunque: un vestito dalla genesi abbastanza tormentata (disegnato da un tizio appena abbandonato dalla compagna, ispirato da un sari indiano, rifiutato da un esperto di marketing – poi licenziato – e infine confezionato da uno stilista mentalmente e sessualmente deviato) diventa il pericoloso testimone che numerose personaggi si scambiano durante il film. Il vestito cambia forme e misure, ritagliato dai possessori e dalle vicissitudini che deve affrontare, ma sempre porta con sé un pericoloso connubio di eros e thanathos. Scatena nelle sue proprietarie un languido richiamo alla vitalità e, in chi le guarda, passioni disparate: dall’ispirazione artistica alla demenza feticista. Passando il vestito di mano in mano, s’intrecciano diverse vicende che nel finale vengono “chiuse” dalla disperata ricerca d’amore del manager licenziato nelle prime scene (ormai in rovina e ridottosi a fare il barbone) e dall’arresto del maniaco che, alla vista della stoffa azzurra con motivi gialli e rossi, perdeva la trebisonda. Dicevo, film difficile da recensire: m’è piaciuto senza entusiasmarmi e, leggendo le varie critiche, trovo che sia stato un po’ sopravvalutato. Non so: è come se la notevole intelligenza che gli riconosco, si concretizzi formalmente solo a tratti in modo convincente. Per esempio: la prima scena, che mostra la nascita sotto una pessima stella dell’indumento in questione, è orchestrata magistralmente, come tempi, battute, inquadrature e montaggio. E così funzionano altri brani del film (i raptus del maniaco, affettuosamente inconcludente). Altre volte, questo equilibrio viene totalmente a mancare, pur non mancando il buon materiale su cui darsi da fare. A lampi di genio (di scrittura e di realizzazione), seguono tanti momenti risolti frettolosamente. E poi, per quanto sia il messaggio che più ha commosso gli spettatori e la critica tutta, trovo che la finale disperata ricerca d’affetto del manager in rovina — quel bacio che dovrebbe ridargli fiducia —, sia troppo poco spontanea per essere credibile. Ho preferito decisamente i graffianti spunti grotteschi (p.es. la casa della tizia che vive sulla diga, che è una salutare ditata kitsch in un occhio). Ma si sa, de gustibus. E alla fine ho ragione io. (Cineclub Lumière; 9/4/97)

ov4-3.JPG72-Il cammino verso la vita di Nikolaj Ekk, URSS 1931

Aaah! Ogni tanto, per purificarsi, un bel film sovietico. Siamo dalle parti di Sciuscià, ma stavolta i ruoli sono invertiti: i bambini non sono tenere anime sfruttate dai grandi, ma delinquenti che un regime avveduto e intelligente recupera alla vita sociale. Tanto quanto nel film di De Sica, ci sono semplificazioni e scene retoriche, ma la cosa che fa assolutamente godere è il fantastico livello tecnico. Come un marchio di fabbrica ecco ottime scelte compositive, primi piani intensissimi, carrelli e un utilizzo molto espressivo del rallenti: un apparato tecnico che fa passare in secondo piano l’intento propagandistico dell’opera. Massì, siamo d’accordo che l’accattivante figura del commissario del Komsomol, Sergeevic, è buona da far schifo, ma tutto sommato è un film di 65 anni fa, Stalin faceva già sentire la sua voce da un bel po’ e il film non poteva che essere celebrativo (come quando interviene un didascalico commento che glorifica l’organizzazione della gioventù comunista). Però non c’è imposizione sui ragazzi, semmai fiducia e responsabilizzazione e visto oggi sembra tutto molto poco stalinista, semmai montessoriano, se capite cosa intendo. Cioè niente. Primo film sovietico sonoro, vinse a sorpresa, in pieno fascismo, il premio come miglior regia alla prima edizione del festival di Venezia, nel 1932. (Vhs; 10/4/97)

73-Parlando e sparlando di Nicole Holofcener, USA 1996

La maledizione del Sundance continua: ormai, qualunque porcata che abbia strappato un cacchio di riconoscimento nel festival organizzato da Redford, viene osannata come un capolavoro. E poi, va bene l’originalità di Clerks, ma qui cosa c’è di minimamente interessante, giovane, indipendente? Abbiamo due amiche con i soliti problemi di sesso, lavoro, affetti etc.: insomma una specie di Amori e altre catastrofi anagraficamente più maturo e il riferimento, anche qualitativo, purtroppo, ci sta proprio tutto. Le due piaghe sono due frignone né simpatiche, né interessanti, né, ultima speranza per trovare un fottutissimo motivo per vedere ‘sta schifezza, esteticamente interessanti (vulgo “fiche”). Tentate di comprendere lo squallore cui si abbassa il vostro bravo recensore, ma qui, veramente, non c’è niente da vedere né, tantomeno, da ascoltare. Il livello dei dialoghi è scadente, le battute latitano e l’esile traccia narrativa è anche tirata per le lunghe. Ma la cosa che irrita di più di un film come questo è la presunzione. Tutto questo parlarsi addosso, questo raccontarsi così compiaciuto, questo voler raccontare piccole storie “private” ammantandole di una emblematicità che si vorrebbe generazionale… Puzza tutto falso: ambizioni pseudo autoriali senza neanche avere la stoffa per girare i dialoghi in un episodio di Baywatch. Si può tollerare un filmaccio d’azione, un Maestro che fa un passo falso, un pasticcione che non riesce a portare a termine il suo onesto lavoro: tutto si può sopportare, con adeguato spirito paziente, ma niente urta di più delle tentazioni intellettualistiche di una ignorante yankee che vuole fare l’autrice. A mente fredda, questo film non è peggiore di tante altre schifezze che ho visto negli ultimi mesi ma, di pancia, è un’opera irritante e inutile. (Cineclub Lumière; 11/4/97)

74-Tutti dicono I love you di Woody Allen, USA 1996

“L’immense frivolité des mourants” diceva Proust e ricordava Bertolucci a proposito di Nicholas Ray in Nick’s Movie di Wenders. Non so bene perché, ma la leggerezza dell’ultimo Woody Allen risponde pienamente a questa definizione, e lo dico con ammirata bonomia perché sono uscito dal Lumière contento e appagato (anche se i detrattori del film potrebbero leggere la citazione con accezione pienamente negativa). Perché morente? Mah! Forse perché Woody ricorre a cliché narrativi e a soluzioni formali che lo contraddistinguono da più di vent’anni, forse perché è fisicamente invecchiato o forse per il tenero senso di bilancio che il film propone. Ma, dicevo un mourant dall’immensa frivolezza: Allen si autocita (e richiama con evidenza alla memoria due momenti del suo primo film – l’inseguimento di Tim Roth e le maschere di Groucho – come a concludere tutto il tragitto fin qui percorso) e omaggia la tradizione del musical hollywoodiano con dolce ironia. Come non ritrovare, rivisitati con sublime frivolezza, le coreografie che da Berkeley ad Astaire hanno fatto grande un genere? Come non coglierne la leggerezza ironica, al punto che Goldie Hawn si libra per aria o i morti escono dai feretri per concedersi un ultimo scanzonato ballo? E poi, certo, sarà la centesima volta che troviamo questo interno newyorchese ricco di cultura liberal (dove solo un aneurisma cerebrale può far sbandare a destra), questo senso dell’amicizia che travalica l’amore fisico, ma quanta dolcezza, quanta levità mescolate a un sottile rimpianto per il tempo che fugge. Esile ma tenerissimo, divertente e, talvolta, anche struggente, in una confezione più accurata di alcune recenti prove che sembravano pallide copie degli originali. È bello ritrovare Drew Barrymore secoli dopo E.T.; è una sorpresa Lukas Haas con le stesse orecchie di quando era un semplice Witness: è come se Woody ci dicesse che è passato tutto ‘sto tempo, ma i problemi esistenziali, gli amori irrisolti, le gioie e le malinconie della vita continuano a esserci. Ma la voce narrante non è quella di un maturo signore; Woody sceglie come portavoce una ragazzina volubile, curiosa e ansiosa di vivere, e il mourant torna ad avere vent’anni e a riprendere possesso di ciò che Harry, ti presento Sally aveva scippato: tutti i colori delle stagioni di New York e della vita. Sempre piacevoli le battute, sostenuto il ritmo, divertenti le musiche e, per una Parigi un po’ stereotipata (ma chissenefrega: viva le cartoline!), ecco una Venezia minore e nascosta. Preoccupato dagli ululati di godimento della Bignardi, messo in guardia dalla delusa Hilda, spaventato dall’entusiasmo di Pier, mi ritrovo felice e rincuorato: Woody è ancora tra noi. (Cineclub Lumière; 12/4/97)

75-Giochi di potere di Phillip Noyce, USA 1992

Porcatina di genere senza grandi pretese. Consenziente, l’ho subita in una serata in cui non avevo voglia alcuna di scegliere dalla pila di mattoni che ho accumulato nella mia personale videoteca. Trama prevedibile, confezione decente, recitazione (tra gli altri Harrison Ford) composta. Insomma aurea mediocritas che si fa vedere senza irritare, anche se suscita qualche doverosa osservazione. Come si vede, sono abbastanza tollerante nei confronti di questa schifezzina, eppure questo film non è altro che l’inconsapevole zio d’America di Testimone a rischio che ho giudicato qualche settimana fa forse con troppa severità. Infatti la trama è molto simile: abbiamo un testimone involontario di un atto di violenza. Nel realistico film italiano il protagonista, civilmente, denunciava l’accaduto alle autorità. Qua, invece, prende una pistola e mette la cosa a posto. Se in Testimone a rischio il povero Bentivoglio doveva scappare minacciato dalla mafia, qui il buon Ford, risponde colpo su colpo e, sostanzialmente, spacca il culo a tutta una cellula deviata dell’I.R.A. Peraltro si noti la finezza in fase di scrittura: un cellula impazzita dell’I.R.A., non l’I.R.A. stessa, che negli Stati Uniti ha molteplici sostenitori e finanziatori. Comunque, altro che un pavido povero cristo che chiede aiuto allo stato: abbiamo un eroe umano ma spietato, la cui moglie lo affianca con altrettanta volitiva determinazione. Ecco la sostanziale differenza tra il cinema europeo e quello americano: noi ci attacchiamo alla gonna di mammà, loro prendono la pistola. Cosa vorrà dire questa mia incomprensibile chiusa? Boh, e chi lo sa? Per rimpolpare questa esile recensione aggiungo, a margine, alcune considerazioni sulla fortuna editoriale de Lo sguardo mutilo, edito per i tipi dell’Adelfi con una straordinaria tiratura di 16 costosissime copie – a spese dell’autore – andate a ruba tra gli amici. Ringrazio coloro che se lo sono bevuto e, per celerità di lettura, voglio menzionare Pier Paolo, Raffa, l’Alessandra, la zia Luisa ed Enrico e Claudio del Lumière. Lamento però la scarsa attenzione di altri, ma non faccio nomi: chi pretendo d’essere? Saramago? Un’altra notazione: speravo in qualche bella lite e invece ho notato un sospetto appiattimento sulle mie posizioni: “Sono sostanzialmente d’accordo, la pensiamo allo stesso modo, etc.”. E invece no! La pensiamo diversamente: senza pugna non mi diverto, per cui invito gli amanti del Wenders più moralista e banale, i detrattori del Bernardo più kitsch, i fan del Jarmusch più scoglionante o gli avversari di Altrimenti ci arrabbiamo a farsi sotto. (Diretta TV; 13/4/97)

ov4-4.JPG76-Kika di Pedro Almodóvar, Spagna/Francia 1993

Già in Tacchi a spillo, nelle classiche situazioni che il regista catalano ama mettere in scena, affiorava un po’ di stanchezza. Ma è con questo Kika che avviene il fattaccio: un capitombolo che forse avrà il pregio di rimettere sulla retta via il buon vecchio Pedro. Al solito abbiamo una commedia grottesca che si tinge di giallo, ma che in più, stavolta, vuole anche essere un apologo sull’immoralità televisiva. Ma il risultato è confuso e scoordinato: ragionando come un macellaio potremmo esaminare i vari tagli della bestia e, non c’è che dire, alcuni tagli sono gustosi. Come non godere del consueto repertorio iconografico pop e post-moderno con cui gioca la scenografia? Alcune battute sono brucianti (Kika cerca un uomo che abbia “un buon cuore e un buon uccello”) e le gag spassose non mancano. Tra lirismo kitsch, virate surreali e scene da trivio il film va avanti. Ma va avanti stancamente, senza ritmo e organicità. E non mancano anche i pezzi che fanno proprio storcere il naso per inconsistenza: alcune gag sono lente, ripetitive e di una volgarità talmente istituzionale da non essere neanche graffianti. Cosa vuol dire la scena dello stupro? O.K. l’idea sanamente scorretta, ma c’è bisogno di tirarla per le lunghe così tanto? Boh, sarà anche che l’attrice principale non mi convince per niente, ma chi non capisce subito che la violentata finirà con l’aiutare il violentatore affinché abbia il suo bravo ennesimo orgasmo e la finisca lì? La regia si perde in tanti estetismi (cromatismi, grafismi, giochi di specchi sulle superfici lucide e particolari fotografici) ma non riesce a curare la buona riuscita del racconto. E in più l’apologo sulla tivù sembra falso, moralista e scontato, tanto più che la regia e la trama giocano a mescolare spezzoni di verità e di spazzatura, in un’ambiguità che confonde ulteriormente il già generico messaggio. Verso la fine del film, Kika mi legge nel pensiero e si chiede “quando finirà questo incubo?”. Comunque, troppo tardi. (Vhs; 14/4/97)

(CONTINUA — 4)