MA COME SI PUò UCCIDERE UN BAMBINO?

di Danilo Arona

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Non c’è dubbio, certi discorsi corrono il serio rischio di essere patetici, specie quando iniziano con “una volta”, “ai miei tempi”, e via dicendo. La realtà è che tutti invecchiamo e, che dopo un congruo numero di anni, il mondo è sempre più diverso da quel che vorremmo che sia. Io, ad esempio — una volta, appunto — entravo tanti anni fa in un cinema buio, magari per gustarmi un bell’horror di quelli sconosciuti e “adulti”, e ci scoprivo con immenso piacere poca gente. Poca, proprio: iniziati gourmets per un alimento raro destinato a limitate ma capaci bocche. L’horror, allora (ahi!), era ciò che dovrebbe essere ancora oggi: zona proibita, armadio ricolmo di pulsioni sessuali da non aprirsi e, se sulla locandina campeggiava la strisciolina “vietato ai minori di 14 anni” (meglio ancora ai 18…), il fatto era interpretabile come indizio di buona qualità del prodotto.

Nostalgico, eh? Sicuro, per la Madonna, sto per compiere 55 anni, come potrei non esserlo? Però, a somiglianza di un carbonaro in una riunione clandestina, riuscii a vedermi in un covo degli anni Settanta Ma come si può uccidere un bambino? dello spagnolo Serrador, e ancora adesso scopro che quasi nessuno l’ha visto, ignorando da dove King ha copiato I figli del granturco, anche se poi ambedue, King e Serrador, hanno attinto da Il villaggio dei dannati. Oggi invece, nel 2005, tutti vedono Van Helsing ovunque, e la situazione — anche se le sale cinematografiche incassano sempre di meno — potrebbe apparire migliore di trent’anni, magari più democratica.
Democrazia? Se è questa, non mi piace. Prendete l’altra sera, quando mi sono per sbaglio infilato in una sala di Bassavilla (Alessandria, ma ormai lo chiamo così…) per vedere The Grudge, il remake americanizzato di un remake giapponese di una serie televisiva sempre Giap (i filmetti televisivi sono ottimi, la versione cinematografica giap uscita in DVD è buona, la versione uscita al cinema con Buffy è sufficiente, ma ce ne fossero…) firmata dal signor Takashi Shimizu, dimostrazione in carne e ossa che i veri autori fanno sempre lo stesso film. La sala era piena e il colpo d’occhio impressionante: non si vedeva un adulto. Solo un mare di ragazzini —e ragazzine con l’ombelico di fuori e piercing sulla cellulite -, un numero impressionante di cellulari tutti in funzione, rutti, cocacola, popcorn, scorregge, e un urlare fastidioso da doposcuola che non lasciava speranze per il seguito. Infatti, da lì a poco, iniziava l’opera e nessuno ha più visto o sentito qualcosa: la mandria di scemi mi ha assolutamente impedito — ero l’unico adulto, forse intenzionato a giustificare il prezzo del biglietto — di “entrare” con la mente nel film, intuendo quel poco che c’era da intuire dall’aver visto gli altri Ju-On. Per carità: nulla di drammatico (insomma, The Grudge non era un capolavoro), ma allo scugnizzo che avevo di fianco gli ho fatto mangiare il cellulare. Sui rompicoglioni al cinema non ho mai smesso di applicare la sana lezione del grande Mao: ammazzane uno subito e gli altri, per qualche minuto, taceranno. Peccato che dopo un po’ riprendono e allora ammazzarli tutti diventa francamente impossibile, e pure faticoso.
(Interludio puramente casuale: sull’ultimo numero di “FilmTV” ho appena scorso la lettera del barese Christian Spinelli che dipinge bene l’identica situazione, pagina 47, titolo “Il problema del pubblico”: perla del suo intervento, “l’acme dell’idiozia è stata raggiunta quando ad ogni pronuncia del nome del detective — Nakagawa — emergevano fiumi costanti di risate”, idem a Bassavilla, caro Christian…)
Il fatto singolare è che pure loro, i bambini scemi, non vedono e non sentono nulla. Quando escono dal cinema, non è rado captare frammenti di discorsi in cui uno chiede all’altro di che parlava il film. Okay, vanno al cinema perché non sanno in quale altri posti andare. Peccato che al cinema ci sia un optional da vedere, il film. Già, ma il punto non è solo questo e io non sono ancora uno spettatore tanto bacchettone perché vecchio. Al limite un po’ violento, ma ai miei tempi (ah, rieccolo!) si diceva “la violenza rivoluzionaria contro la violenza reazionaria”, e un po’ di mestiere dentro mi è rimasto. E allora qual è il punto? E’ che questa pletora sgradevole di adolescenti cui non frega nulla del cinema è il risultato pratico di una planetaria operazione di marketing che Hollywood — ma anche altre cinematografie allineate — hanno compiuto ai danni di quel vero horror adulto, di fronte al quale i bambini dovrebbero ricevere traumi tali da condizionarne l’intera esistenza (a me è successo così): si chiama, perlomeno io la chiamo così, la bambinizzazione dell’horror, ovvero il rimodellamento dei grandi archetipi della paura pensato e concretizzato a misura di adolescente, un grande Luna Park, aperto a tutti, dove i ragazzini possono vedere — senza divieti imposti dal sistema — le versioni ludiche e baracconesche dei grandi autori che hanno fatto il genere (Friedkin, Romero, Hooper, fra gli altri) nonché quelle, rifatte e rese innocue, di alcuni (pochi) disturbanti film della new wave asiatica. Così cosa capita sul piano pratico? Che ai miei nipoti, sei e dieci anni, non interessano più i cartoons, ma la scricchiolante Kayako e il pallido Toshio. E frotte di adolescenti frequentano l’horror come frequentare il McDonald’s, rompendo le palle a chi chiede che la sala cinematografica goda del rispetto silenzioso dovuto all’arte.
Il mio amico Giacomo Cacciatore, verace conoscitore dei meccanismi del genere (leggetevi, se non l’avete ancora fatto, il suo libro su Fulci “Il terrorista dei generi”, scritto con Paolo Albiero, edizioni Unmondoaparte), sostiene che la bambinizzazione in atto ha creato un pubblico in grado di confondere realismo (di luoghi, di situazioni, di psicologie: la base forte della scrittura di King, per dirne una) con intimismi da mammoletta, sfornandogli spesso e volentieri film horror “urlati”, sopra le righe, senza la minima attenzione per i contrasti e le sfumature (che sono poi quelle cose che danno credibilità al delirio). Il risultato di qualche anno dell’operazione planetaria è che adesso questi “spettatori”, considerati dal sistema produttivo “fondamentali” (perché pare che senza gli adolescenti non si rientri più dalle spese) urlano — non di paura – in sala, appunto, senza la minima attenzione per i contrasti e le sfumature, persino quelle del vivere civile. “Si sta prendendo a calci in culo tutta una generazione di autori cinematografici e letterari”, mi scrive Giacomo, “Levin, Blatty, Romero, Carpenter, Hooper, gente che ha dato all’horror lo status di genere adulto, facendone anche documento, pensiero, testimonianza di un’epoca”. Verissimo, Giac, è non è un caso che tre di questi lavorino off Hollywood, fuori dal sistema.
Ovviamente, sul piano dell’ordine pubblico, sono il primo a segnalare che questa specie di pamphlet sta peccando di approssimazione. I ragazzi non sono tutti come quelli in cui ci siamo imbattuti, Christian a Bari e io a Bassavilla. In tanti che mi leggono su “Horrormania” mi hanno scritto, pure loro, che certi cinematografi sono impraticabili quando si proiettano quegli horror che necessitano del silenzio in sala per essere apprezzati: e hanno sedici, diciotto o vent’anni, uno addirittura di tredici che ha giurato che, dopo avere assistito al lancio del gatto morto contro lo schermo durante la proiezione de L’esorcista-La genesi, vedrà solo più film in DVD a casa propria. Insomma, magari vale la stessa spiegazione che si può usare per il teppismo domenicale negli stadi: ci sono troppi dementi a piede libero e sempre meno gatti…
Soluzioni? Boh, sul piano teorico possiamo scriverne belle pagine, magari ipotizzando da qui a breve un filone dicotomizzato in due varianti, quella con i meccanismi alla Bruckheimer per gli infanti e quella seria per noi vecchi navigatori prossimi all’estinzione. Sul piano pratico Narciso Ibanez Serrador ha un consiglio da darci a cominciare dal titolo di quel suo film maledetto e introvabile, di cui magari vi parlerò un giorno o l’altro…