di Jack Orlando

Una cosa che faceva particolarmente ridere, ma anche un po’ schifo, ai cinesi che vedevano per la prima volta i soldati della spedizione portoghese del 1513, erano le barbe.
Gli sbandati, gli ubriaconi e i briganti portavano la barba, ma nessuno l’aveva così folta né così riccia, più simile al manto di una bestia che di un uomo trasandato. Il modo in cui mangiavano invece gli faceva orrore, vagli a dar torto.
Di certo non si aspettavano di averci a che fare, con loro e altri europei, per quattro secoli a venire. E che nel tempo barbe e visi spigolosi avrebbero suscitato sempre meno ilarità; annunciando morte, sfruttamento e rapina.

Ora le vecchine lungo il marciapiede ridono delle barbe del gruppetto di laowai, stranieri, gesticolano indicandosi le guance e vociano assolutamente incuranti dell’abisso linguistico che le separa dai loro interlocutori, né dei loro sguardi interrogativi.
Nessuno ormai può ignorare la Cina, eppure fuori dai circuiti canonici di Pechino, Hong Kong, Shangai è ancora abbastanza difficile vedere facce da occidente. La qual cosa è assai spesso motivo di risate e generale euforia.

Durante il Secolo delle umiliazioni c’era poco da sghignazzare in faccia a un occidentale. Il vanto di una cultura millenaria e raffinata, di una consolidata attitudine allo scambio e all’interazione con l’altro non avevano presa sulle facce barbute.
L’efficienza, specialmente militare, era l’unica cosa che comprendevano e l’interesse era rivolto verso le ricchezze che potevano riportare alle proprie coorti.
Gli stivali delle truppe d’Europa hanno globalizzato il mercato mondiale al prezzo di un olocausto seriale. Vite in cambio di oro, sangue per tessuti, lacrime per spezie e orfani per terreni.
E la Cina ha conosciuto a fondo e per lungo tempo cosa significasse avere a che fare con gli europei.
Il Secolo delle umiliazioni è terminato, per la precisione nel 1949, con la vittoria della rivoluzione comunista del presidente Mao e un costo spaventoso in termini di vite umane, un tributo pesante pagato al dio dell’autodeterminazione, cui se ne aggiungeranno parecchi altri alle Parche della modernizzazione. Ma oggi le vecchiette possono ridere delle facce dei laowai e proverebbero ben poca impressione davanti alle piccole città da cui sono arrivati.

Chongqiing è infatti una megalopoli grande pressappoco quanto l’Austria, con oltre trenta milioni d’abitanti. Diversi paesi europei hanno una popolazione totale più ridotta di questa.
Un macroscopico labirinto di cemento, vetro e acciaio, inondato dai neon e dal vociare dei megafoni. Le piazze possono inaspettatamente essere il tetto di un palazzo e una strada asfaltata corre trenta piani sopra un’altra, sottopassaggi diventano centri commerciali che a loro volta sfociano in stazioni metro e lungofiumi.
Delirio architettonico pluridimensionale.

La città si codifica in livelli differenti e perennemente intrecciati, mostra i suoi grattacieli e li fa svettare in pirotecnici giochi di luci e droni, ogni sera tra le 20:00 e le 23:00 circa, come le altre città; a beneficio degli occhi un popolo che a quanto pare ha sviluppato una fissazione per tutto ciò che è luminoso.
E allo stesso tempo nasconde nel loro ventre alveari di vita produttiva, gettati alla rinfusa tra lusso e abbandono, dove lo stesso edificio ospita alberghi, condomini, cliniche, discoteche e dio sa cos’altro, tanto da poterci vivere senza mai conoscere completamente la destinazione d’uso del proprio palazzo.

Non è semplicemente lo sviluppo economico a intagliare le forme e, fortunatamente, non tutte le metropoli del paese sono così tortuose.
Le antiche fortificazioni fluviali dei diversi centri di Chongqing si inerpicavano lungo la collina a gradoni attraverso case a palafitta, diaojiaolou, producendosi in vicoli, scale e terrazzamenti dove le finestre delle case affacciavano per lo più verso l’interno nei tentacolari budelli della costruzione. Un ventre di undici piani. Botteghe e mense sopperivano alla carenza di spazi domestici vivibili, i bagni erano – e spesso ancora sono – pubblici. Una forma di vita collettiva e alvearica che conservava il germe di quella che è oggi l’esperienza di massa.

Hongyadong è un esemplare di questa forma, anche se è difficile definirlo originale visto che i suoi edifici hanno appena un ventennio. Diventato obsoleto e fatiscente, dopo essere stato per secoli fortezza, mercato e condominio; con i suoi abitanti trasferiti in nuovi edifici popolari, il complesso è stato abbattuto e poi ricostruito ampliando la pianta originaria.
L’attraversamento di Hongyadong non ha nulla dell’esperienza storica, almeno per lo standard europeo settato sulla conservazione museale, che rimane allibito da un dedalo di scale e viuzze che ora traboccano di merci, di corpi in cerca di consumo e di schiere di ragazzine in finti abiti tradizionali che si mettono in posa per farsi un photobook nella vecchia rocca ora invasa dalle luci.

L’occhio è soggetto alla pressione di una contraddizione poliforme che inonda lo spazio visivo. La cura maniacale dello spazio pubblico, di cui pure sembra esserci un discreto orgoglio, è frustrata dalla decisa incuria degli spazi privati.
La pianificazione, cardine che determina lo sviluppo economico del paese è assi difficile da vedere, tanto più che la città non ha mai lo stesso volto, nemmeno in relazione allo scorrere della giornata.

L’alba trova una giungla di cemento che è una sinfonia di grigi. Vecchi grattacieli condominiali della classe operaia, fatiscenti pachidermi decorati dai motori dei condizionatori e improbabili gabbie alle finestre.
Di case e palazzine basse quasi non è rimasto traccia in questo intricato omaggio all’industria pesante. Chongqing vanta una vita millenaria: centro nevralgico del commercio fluviale per gran parte della storia cinese, finisce ad essere la capitale della Repubblica di Cina del generalissimo Chiang Kay-shek durante la guerra antigiapponese e arriva agli anni ’50 del doporivoluzione vedendosi destinata al ruolo di fulcro dell’industria pesante della nazione e motore trainante dell’economia delle regioni centro-meridionali; ha poco più di un milione di abitanti, sopravvissuti ai bombardamenti giapponesi, alla fame e alla guerra civile; in meno di dieci anni la popolazione è più che triplicata, nutrita da immigrati delle campagne divenuti operai.

Quando diventa prefettura autonoma, nel 1997, assorbe le masse sfollate dai villaggi estinti dalla costruzione della Diga delle Tre Gole. Esplode demograficamente, superando la terza decina di milioni, e urbanisticamente: i palazzoni operai si vedono superare dallo slancio megalomane della speculazione del XXI secolo, acciaio e vetro, forme variabili a soddisfare il gusto degli architetti. Anch’essi però vestono grigio, riflettendo i toni dei tre fiumi e del cielo, che pare accordarsi da sé alla scala cromatica.
È dalle 20:00 in poi che la città cambia volto, sfida il tramonto accendendo quasi ogni singolo edificio con giochi di luci che deformano lo skyline fino a renderlo irriconoscibile, un’epifania di estetica alla Blade Runner per l’occhio europeo.
Spettacolo insolito, forse l’immagine più evidente dell’evoluzione cittadina, che ha mutato pelle ancora una volta e, dismessa la tuta dell’operaio di fonderia, veste quella dell’ingegnere Hi-Tech: è a questo che si è votata ora Chongqin, uno degli epicentri dello Sviluppo delle Nuove Forze Produttive di Qualità; definizione sinomarxiana per il processo di ricerca del primato mondiale in fatto di sviluppo tecnologico e intelligenza artificiale.

Gli abitanti hanno smesso di respirare l’aria ammorbata dalle ciminiere, sono uno dei centri propulsivi del ceto medio continentale e hanno convertito, con un gigantesco contributo pubblico, le vecchie fabbriche dismesse in coworking, pub alla moda e centri culturali.
Le statue di Mao sorvegliano lo scorrere incessante di una vita che, da quest’altro lato del mondo avevamo imparato ad associare all’eccezionalità newyorkese.
Non è scontato vedere in giro falci e martello e altri emblemi del partito, nonostante la tradizione radicalmente maoista della città. Ciò che compare di più sono gli striscioni rossi di propaganda che sottolineano la campagna statale di ringiovanimento delle aree rurali.

È fuori dalle metropoli invece che è presente il partito, ramificato in sedi e attività parastatali che innervano il tessuto delle campagne. Per governare gli squilibri dello sviluppo economico, dopo aver attinto a piene mani dall’inurbamento – anche forzato – dei contadini; ora si è imposta una linea politica fatta di limitazioni alla libertà di movimento degli abitanti, che non possono più trasferirsi facilmente in città, per prevenire fenomeni di spopolamento, e di investimenti in tecnologie produttive e infrastrutture di servizio alla popolazione.
Fatto il ceto medio, ora si rifanno le campagne.

Interessante che tutto ciò venga messo sotto l’etichetta di Ringiovanimento. Per la prima volta questo paese vede ora una leggera flessione demografica e l’aumento dei suoi anziani, tendenziale effetto dello sviluppo economico che produce benessere e aspirazioni extrafamiliari.
Per avere un’intuizione di cos’è lo spirito di questo paese c’è da considerare lo sguardo di un novantenne: un uomo nato in un paese martoriato dal colonialismo, sotto il tallone di ferro dell’occupazione nipponica. Diventato bambino nel mezzo della guerra civile e fattosi uomo nella costruzione della nazione socialista. Un uomo che ha visto le carestie spezzare intere province e la disciplina collettiva muovere masse e innalzare città. I cui capelli sono ingrigiti tra nubi di smog mentre il suo paese diveniva la fabbrica del mondo, e oggi arriva al capolinea con i figli in carriera e i nipoti ben nutriti in una metropoli sfavillante, frammento di una potenza nazionale che impone al mondo di osservarla finalmente con occhi diversi.
La parabola che l’Occidente ha coperto in quasi tre secoli, lui l’ha attraversata dritta nel solo arco di una vita.

Tre ore di led accecanti e proiezioni pantagrueliche come sfondo dello svago notturno si concludono attorno alle 23:00, quando la città si congeda alla vista lasciando accese manciate di insegne e sporadiche finestre nei grattacieli, ora sinistramente neri come le torri di Mordor, a sorreggere un cielo che ha da tempo scordato l’esistenza delle stelle.
Ma in basso, sotto i lampioni delle strade, prosegue incessante la vita collettiva: carretti che grigliano spiedini e locali che servono noodles in brodo lavorano a pieno regime, bar karaoke sono ben lontani dal cacciare l’ultimo cliente ubriaco, minimarket e laboratori notturni non spengono mai la luce.

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