di Margherita Coletta

Trent’anni fa, nel dicembre 1995, venivano siglati nella cittadina statunitense di Dayton gli accordi che sancivano ufficialmente la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina. Era il marzo del 1992 quando la penisola balcanica fu protagonista di uno dei conflitti più cruenti in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Nel disegno degli strateghi serbi e croati, che rivendicavano un predominio in quei territori, l’allontanamento forzato della popolazione civile prevedeva un viaggio di sola andata. Uno degli obiettivi intrinseci del conflitto era di non permettere il ritorno dei rifugiati di guerra nel proprio Paese, nelle proprie case. Con il termine “forced displacement” si indica la rimozione forzata dal suolo di origine di coloro che hanno un’identità o delle opinioni differenti da altri gruppi, attuata in modo tale da non consentire in futuro il rientro di questi ultimi nel proprio Paese. Dei circa 1,2 milioni di rifugiati all’estero, tra il 1996 e il 2006, soltanto 442.137 hanno fatto ritorno.
«La mia vita è stata un po’ uno sliding doors…». Belma è originaria di Mostar. L’accento bosniaco si confonde con le parole e i modi di dire romaneschi. Si capisce subito che Roma è la sua città da molto tempo, la sua casa. «come Roma, Mostar ormai è piena di gente, di turisti…’na pipinara!». A diciannove anni si è trasferita a Sarajevo, la capitale multietnica della Bosnia, per avviare i suoi studi nel campo dell’odontoiatria. Era il 1991. Nel marzo dell’anno successivo, la Bosnia-Erzegovina avrebbe dichiarato la sua indipendenza dalla Federazione jugoslava, segnando il suo destino.
Da quella primavera sono passati trentatré anni. Belma era adolescente, per lei il futuro aveva coordinate remote: un luogo astratto, utile nel presente per poter sognare. Faticava a capire cosa stesse succedendo intorno a lei. Nel tentativo di tenere salda la Jugoslavia e i suoi poteri nella Federazione, la Serbia attaccò prima la Slovenia, poi la Croazia, in seguito alle loro dichiarazioni di indipendenza. Il turno toccò poi alla Bosnia-Erzegovina, all’indomani del suo plebiscito. La Bosnia era un obiettivo non di poco conto: coacervo di etnie sparse irregolarmente per il territorio e che convivevano da secoli, divenne un luogo in cui manifestare via via le proprie pretese. Qui, nella più “jugoslava” di tutte le repubbliche (così denominata per la composizione etnica eterogenea), i territori rivendicati dalle parti serbe e croate erano molteplici. «Prima di un esame, noi studenti dovevamo compilare un piccolo foglio in cui bisognava indicare nome, facoltà ed esame da sostenere. Un giorno, io ero con una mia amica e abbiamo notato una nuova sezione da compilare: nazionalità». Era il 1992. «Non ho mai dovuto indicare la mia nazionalità prima di allora: bastava mettere jugoslava. Ora non andava più bene. Io ero bosniaca e la mia amica era serba». Questo, tra di loro, non era rilevante. Di lì a poco sarebbe scoppiata la guerra.
La Bosnia-Erzegovina è ricordata per essere stata il teatro di uno dei conflitti più cruenti e sanguinosi nell’Europa contemporanea. Il conflitto balcanico ha provocato la morte di più di centomila persone (civili inclusi), la fuga di oltre il cinquanta per cento della popolazione e una disastrosa condizione economica post-bellica, segnalata dal reddito pro capite che dai 2.723 dollari del 1991 toccò i 300 dollari nel 1995 e dalle ingenti distruzioni dei servizi pubblici e dell’edilizia residenziale. Dal 1992 al 1995, circa 2,2 milioni di bosniaci sono fuggiti dai propri territori, di cui un milione all’interno della stessa Bosnia e più di 1,2 milioni in diversi Paesi. Belma era una di loro.
Tutto questo, i bosniaci, quelli abituati alla convivenza interetnica, che non conoscevano un altro tipo di Bosnia, non lo credevano possibile. Il momento in cui i venti di guerra si trasformarono in colpi di mortaio fu il 5 aprile, quando a Sarajevo si riunì una folla di circa duemila persone per manifestare pacificamente contro l’escalation di violenza. Un franco tiratore colpì una studentessa di medicina, Suada Dilberović, considerata simbolicamente la prima vittima del conflitto bosniaco, e altri quattro civili vennero uccisi dai cecchini serbi, appostati ai piani alti dell’Holiday Inn. Belma e Suada erano amiche. Nell’aprile del ’92, Belma decise di lasciare Sarajevo e raggiungere la sua famiglia a Mostar con l’unico treno che viaggiava durante i giorni di una breve tregua. «Ero andata alla stazione con una valigia in mano e con questi occhiali da sole…ero giovane, non mi rendevo conto». Un viaggio di tre ore ne durò sette e, alla fine, lei riuscì ad arrivare nella sua vecchia casa.
Il giorno dopo, i binari di quella stazione vennero fatti saltare in aria. Belma si rifugiò poi per tre mesi a Spalato, prima di prendere la decisione di andare via, da sola. La madre aveva un contatto a Roma. Da quel giorno, lei vive lì.
Per Slavica, non se ne parlava di uscire dalla Bosnia, mai fuori dalla sua Sarajevo. Lei e suo figlio hanno vissuto la guerra quasi nella sua interezza all’interno della capitale assediata: «L’assedio si può raccontare, ma chi non lo ha vissuto non può capirlo fino in fondo». Sarajevo, la città più grande della Bosnia, contava una popolazione prebellica di circa 350.000 abitanti. Durante gli anni della guerra, i morti toccarono quasi i dodicimila (di cui un sesto bambini), mentre oltre cinquantamila rimasero feriti. Le persone che vissero nella capitale bosniaca durante l’assedio furono 280.000, sopravvivendo alle granate, al fuoco dei cecchini, alla fame e all’assenza di acqua, luce e gas. Sarajevo ha conosciuto l’assedio più lungo nella storia bellica della fine del XX secolo: quattro anni sotto le bombe, in una città spettrale, dove si sopravviveva giorno per giorno. Slavica è originaria di Doboj, una cittadina situata nel nord della Bosnia, attualmente sotto la giurisdizione della Repubblica Srpska. Nel 1992 aveva 25 anni, suo figlio quattro.
Quando cominciò l’assedio di Sarajevo, Slavica sfidò ogni giorno le bombe e i colpi dei cecchini serbi appostati sulle alture per andare al mercato a comprare o barattare del cibo da portare a casa. Il “mercato” era in realtà un tunnel: spot clandestino creatosi negli anni dell’assedio sotto l’aeroporto della capitale bosniaca. Il tunnel ebbe un ruolo vitale nel rifornire la città e i civili che vi abitavano, nonostante al suo interno vi circolassero anche reti di contrabbando e meccanismi clandestini per rifornire e finanziare le parti opposte del conflitto. Slavica pensava che, se fosse morta, almeno sarebbe rimasta nel suo paese, con la sua gente. Tuttavia, nell’aprile del 1995 fu costretta ad uscire, per motivi legati alla salute del figlio. All’inizio di quell’anno, lei aveva ricominciato a lavorare in una pizzeria italiana dove era stata assunta tre anni prima. Ricorda di come, lì, il telefono squillasse in continuazione: la gente aveva iniziato a lasciare quel numero ai propri cari all’estero, per poter ricevere delle chiamate. Nella Sarajevo assediata e, in generale, nella Bosnia-Erzegovina in conflitto, le comunicazioni interne non funzionavano, ma era possibile ricevere chiamate dall’estero. Lasciò il numero della pizzeria alla sorella, rifugiatasi in Italia agli inizi della guerra e, un giorno, prese la decisione di raggiungerla. «Io e mio figlio lasciammo la città attraverso lo stesso tunnel dove andavo a comprare ogni giorno il cibo e che si estendeva fino a Butmir. Da lì, viaggiammo verso Roma con dei convogli umanitari». Lei che non si sarebbe mai spostata da Sarajevo, oggi vive a Roma da trent’anni. Eppure, Slavica ha avuto da subito una sorta di imprinting con la città: «I romani sono un po’ caciaroni, proprio come i sarajevesi…c’è uno spirito di comunanza. Poi, ho visto il tram numero quattordici: era dello stesso colore di quello che prendevo sempre a Sarajevo. Mi sono sentita a casa».
Fatima lavora da diversi anni al Centro di Servizio per il Volontariato di Roma. Si definisce una «profuga per caso». È originaria di Kakanj, un villaggio della Bosnia centrale e negli anni Novanta si era trasferita a Sarajevo per studiare. Nel 1992 stava progettando di venire in Italia durante l’estate, con l’intento di imparare la lingua e di lavorare come ragazza alla pari in una famiglia. Nel mese di febbraio aveva già tutto pronto: l’agenzia interculturale l’aveva messa in contatto con la sua host-family e la partenza era programmata per luglio. Con lo scoppio del conflitto fu presto costretta a cambiare i suoi piani ed anticipare la sua partenza, ma non più nei panni di una turista. «Se non fossi stata “la profuga”, se la mia fosse stata una permanenza di piacere sarebbe stato tutto diverso, perché avrei avuto la possibilità di ritornare in Bosnia. Quando sei da solo, però, devi pensare a te stesso». Le circostanze che portano un rifugiato di guerra a non far rientro nel proprio Paese sono diverse e, molto spesso, legate all’età e al mutato contesto nel Paese di origine. La paura di Fatima, come di molti altri rifugiati, era di non ritrovare in Bosnia le possibilità per costruirsi la vita che voleva. Il suo è stato uno spostamento che non ha mai veramente digerito, perché costretta a compierlo. Sostiene di sentirsi come i bambini adottati, che ad un certo punto della loro vita sentono il bisogno di riscoprire il proprio luogo di origine e di ristabilire un contatto. Oggi, è presidentessa dell’associazione Bosnia nel cuore, nata nel 1992 come iniziativa spontanea dei bosniaci residenti a Roma prima della guerra. Dopo la laurea, Fatima intraprese un Master in Diritti Umani e Cooperazione Internazionale, dal programma molto chiaro: «Educazione alla Pace».
In Germania esiste un termine utilizzato per indicare il senso di colpa collettivo vissuto dalla popolazione tedesca dopo le atrocità commesse durante il regime nazista: Vergangenheitsbewältigung, traducibile come «superamento del passato». Il concetto è riferibile, in generale, a molte delle popolazioni i cui leader hanno ideato e alimentato progetti nefasti, provocando danni alla popolazione civile. Vela è originaria di Tuzla. Le radici della sua famiglia, di religione ortodossa, sono serbe. Nel 1992, viveva anche lei nella città universitaria di Sarajevo. Allo scoppio del conflitto, decise di lasciare il Paese. Vela dice di aver fatto proprio in quegli anni di quel senso di colpa collettivo: «A volte non riesci a spiegare alle persone che sei contro la guerra, poi a quei tempi…è un sentimento che non si può descrivere, ma che per fortuna adesso è sparito. Durante la guerra però era impossibile: ero lì a mangiare in mensa con altri bosniaci e poi sentivamo al telegiornale che un’altra bomba serba aveva colpito il mercato di Sarajevo…non era facile. Il mio cognome era comunque un marchio».
Da trentadue anni vive a Roma, tornando di tanto in tanto a Tuzla, nella casa di campagna della famiglia. In seguito agli accordi di pace, stipulati a Dayton, in Ohio, nel 1995, la zona in cui abitava Vela e la sua famiglia passò sotto il controllo serbo. Le famiglie di etnia serba popolarono l’area, occupando legalmente le case abbandonate dagli sfollati durante la guerra. La casa di Vela è stata liberata dagli occupanti serbi solo nei primi anni del 2000. «Quando hanno firmato la pace a Dayton abbiamo capito che un Paese così devastato e profondamente cambiato non era più vivibile. Hanno diviso un territorio senza criterio. Devo ancora capire la divisione corretta. So a chi appartengono le città principali, ma di alcuni posti non ne ho idea. Loro hanno creato una divisione che non mi appartiene». Vela, così come Belma, Slavica e Fatima, è stata vittima di un conflitto che la voleva fuori dal proprio Paese. «L’unica certezza che avevo è che non volevo far parte di tutto quel che stava succedendo nel mio Paese. Eravamo concentrati a cercare noi stessi, a capire cosa volevamo fare nella vita. Eravamo ventenni. Io avevo un obbligo: cosa ne faccio della mia vita?».






