di Luca Baiada

Francesco Troccoli, Dugo e le stelle, L’asino d’oro edizioni, Roma 2025, pp. 252, euro 15.

Cos’è per un bambino rom, la corsa, quando a inseguirlo sono i fascisti che hanno bruciato il suo campo? E cos’era, per un bambino rom, piccola staffetta partigiana, correre per combattere i nazisti, in Jugoslavia nella Seconda guerra mondiale? Un romanzo spezzato per tempi e luoghi, fra il Montenegro, una cittadina del Nord Italia e Roma ci sorprende con passaggi incalzanti e cambi di scena.

Treni, stazioni, pericoli, fughe continue, rifugi precari. Luoghi non-luoghi che scorrono visti dal basso, sfuggenti, imprevedibili. Ci sono bambini, anzi ragazzini, in un’età aurorale fra ultima infanzia e prima adolescenza, fitta di incontri, conflitti inspiegabili, incerti corteggiamenti, fame di avventure. Piccoli e grandi protagonisti italiani e insieme cinesi, curdi, rom. Sono carichi di energia ma – è davvero un ma, oppure è un e quindi, cioè è la vita stessa? – anche dei pesi ingombranti lasciati da altri prima di loro. È una comunità palpitante, uno stormo di segnati dagli strappi dell’esistenza, dalle fatiche familiari, dalle nuove domande. Si portano addosso la ricerca di attenzione e il gusto dei nascondigli. Hanno una voglia matta di tane calde e appartate, quelle che piacciono ai cuccioli d’uomo e di donna.

Questi ragazzini vogliono anche loro correre, spendersi. Magari per aiutare uno appena più piccolo, che deve salvarsi la pelle ma nel frattempo deve anche mangiare, giocare, studiare. Proviamo a vedere Roma coi suoi occhi? Per un piccolo rom la capitale non è monumenti o bar da aperitivi:

Roma è un oceano di luce in cui nuotano pesciolini veloci, grandi piovre barcollanti e calamari dalle dubbie intenzioni. Gli squali e i pescecani, in questo momento, stanno mangiando da qualche altra parte. Nell’aria c’è un misto di profumo di tiglio e gas di scarico, e nel cielo azzurro stazionano nubi che sembrano zucchero filato. C’è molta spazzatura, i muri sono tutti disegnati e l’erba cresce in mezzo ai marciapiedi. Fra mendicanti stesi in terra, ragazzi in bicicletta con grandi borse sulle spalle e venditori ambulanti, avverte la piccola euforia di entrare a far parte di un mondo nuovo.

C’è forse qualcuno che nell’infanzia non ha avuto un luogo speciale – rimessa, soffitta, armadio, lavatoio, auto guasta – dove rintanarsi? Povero, chi non avesse mai apprezzato queste ombrose delizie. E allora godiamoci la tana coi piccoli amici: nel campo nomadi abbandonato c’è una roulotte nascosta, i ragazzini la conoscono e la scelgono per base: la chiamano «la bolla». È questa una cifra profonda di Dugo e le stelle, romanzo di bolle spazio-temporali che si formano, volano e scoppiano, seguite da improvvisi rovesci. Un romanzo a sprazzi, un libro di temporali e schiarite.

Compare il circo. Un’altra bolla, perché la sua gente sa fare la Resistenza travestendosi, mimetizzandosi, salendo sugli alberi. Il campo dei nomadi partigiani, poi, «la sosta», è ancora una bolla: «Un posto collegato con tutti i luoghi della vita, propria e altrui, un posto da cui si può andare da qualsiasi altra parte con la sola forza della volontà e dell’immaginazione».

Ed è una bolla, privata e notturna, la terra di mezzo fra sonno e veglia; è quel tempo senza tempo che sconvolge, che espone al pericolo ma può salvare: il piccolo rom è sonnambulo e ha gli incubi. Invece di respingerlo, i ragazzini si riconoscono nelle sue ferite:

«Che ne pensi?» fa Zihad con aria grave.

«Non so».

«Sai, mi sa che hai ragione».

«Su cosa?».

«In fondo la sua situazione è veramente simile alla mia. Anch’io ho visto cose brutte e per un po’ ho fatto dei sogni orrendi, che non ricordo. E ti giuro che non me li voglio ricordare. Mi fanno paura anche adesso».

«Quando eri in quel campo, in Bosnia? Quando il tuo vero papà…?».

I traumi sono di tutti. Ma proprio di tutti, perché una donna delle pulizie, pelle nera e niente permesso di soggiorno, non sta lì a farsi domande sulle carte bollate quando si tratta di salvare un uomo. Non lo sa, Nosine, che sta difendendo un antico combattente, ma riconosce al volo, lei coi cenci in mano, china sul pavimento in fondo a un corridoio, il grido di una vittima e il ringhio di un fascista: «L’assassino si lancia fuori e la investe scagliandola in terra: “Maledetta puttana di una negra, togliti di mezzo!”».

Però. La memoria non ha bisogno di venire da un altro continente, può essere vicinissima, confusa nel chiasso. Alla stazione la vecchia zingara ha il suo libro di storia invisibile, scritto in un fardello pesante: «“Porrajmos” sentenzia la donna, in tono piatto, lo sguardo lanciato nel vuoto. “Porrajmos”. Negli occhi stanchi di Esma si vede qualcosa, è qualcosa che viene da lontano».

C’è ancora da correre, quando la vita non fa sconti, e bisogna farlo sino all’estremo: «Sta correndo. Ancora una volta, corre come il vento». Chi è, a correre così? il piccolo rom oggi o il partigiano bambino in Jugoslavia? A chi legge Dugo e le stelle, scoprirlo. Forse corre la nostra voglia di conoscere, di sapere che la storia non fluisce invano:

Anche le terre hanno un cuore, proprio come gli uomini che le abitano. E non lo puoi imprigionare. Quante volte glielo aveva raccontato suo padre, che contadino non era e che le dispute che i gagi facevano sulla terra non le aveva mai capite. Alla sua gente, allora come oggi, non è mai servito mettere paletti e prendere possesso di un pezzo di suolo.

Sarebbe troppo facile un paragone fra questa terra comune e la letteratura. C’è di mezzo un prezzo da pagare. La corsa nella vita impone scelte, come quella dell’ufficiale italiano, prima fascista e stragista, poi combattente con gli jugoslavi. E da un vecchio zingaro viene una dura lezione. Ricorda la lettera scritta da quell’ufficiale, da quel nemico italiano che è diventato un alleato, e riflette: «Riaprire gli armadi, tirare fuori vecchi scheletri nascosti, non fa mai piacere a nessuno». Lui stesso, lo zingaro, per lungo tempo quella lettera non riesce né a spedirla né a distruggerla. Si vede che quando c’è da correre, è bello guardarsi accanto e scoprire che non si è soli.

 

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