di Francisco Soriano

Che Franz Kafka non fosse un anarchico nel senso stretto del termine è cosa certa: di sicuro era un «antiautoritario libertario», riconoscibile in quell’ideale di uguaglianza e giustizia sempre riscontrabile nella totalità delle sue inimitabili opere letterarie. Considero i suoi testi come una disamina originale e assertiva utile all’indagine sul potere e sulla coercizione, quest’ultimo atto di violenza straordinaria propria delle istituzioni governative umane.

Michael Löwy dedica il secondo capitolo del suo Kafka ribelle alle epistemologie del potere, a cominciare dall’analisi di quella “primordiale” tirannia sostanziatasi nella relazione con il padre e che possiamo definire come una forma di «autocrazia paterna». Nel mondo ebraico la figura dell’intellettuale disseminatore geniale di dubbi e incertezze, quelle che aprono le porte al labirintico universo della ricerca continua, non è cosa rara: per Adorno l’opera letteraria di Kafka è «in gran parte la reazione a un potere senza limiti. [Quel potere di patriarchi invasati]»1. In risposta a un potere esorbitante, dispotico all’inverosimile, la risposta è l’ironia, è la scoperta del suo misfatto che viene finalmente smascherato negli aspetti brutali e dunque coercitivi. Di patriarchi Kafka ne individua parecchi, nella Condanna, nella Metamorfosi, e in altri racconti in cui si può riconoscere nelle dinamiche di potere descritte proprio la figura del padre. Hermann Kafka è senza dubbio un tipo insopportabile di padre dispotico. L’affresco familiare dei Kafka, infatti, rispecchia i rapporti del sistema di oppressione e si ritrova chiaramente espresso nella famosa Lettera al padre.

Il sarcasmo oltraggioso è uno degli strumenti del potere, quello che diffonde coercizione e con il quale il padre emana la sua autorità sul figlio. Rappresenta uno degli aspetti più raffinati nell’analisi critica che Kafka compie contro il padre e il terribile e continuo “processo” subito. Nella lettera egli così delinea questo aspetto in un atto di accusa senza precedenti, descrivendo l’atteggiamento del padre come un processo «che incombe tra te e noi e nel quale tu pretendi sempre di essere il giudice». Quest’ultima rappresentazione delle dinamiche paterne è anche una delle tante metafore di un bambino che vuole a tutti i costi definire il suo status: «uno schiavo sottoposto a leggi concepite solo per me», nei confronti di un mondo «infinitamente lontano dal mio in cui vivevi tu»2. La questione di un potere dislocato, cioè lontano e non condiviso con chi lo subisce, è un altro interessante elemento che Kafka introduce in questa sua missiva, diretta proprio nei confronti di chi esercita coercizione. Allo stesso modo questo potere appare in tutta la sua ubiquità, cioè presente in ogni luogo e tempo: «mi capita di immaginare la carta della terra completamente aperta e di vederti disteso trasversalmente su tutta la superficie»3.

Il rapporto con il terribile Hermann è pressoché compromesso e viene metaforicamente definito come una battaglia, condizione in cui solo l’orgoglio impediva al giovane Franz di abbandonare il campo. Nei Diari, poi, lo scrittore ci informa degli insulti rivolti ai suoi amici dal padre, non del tutto pago di propinarne massicciamente alla sua famiglia: in particolare a Max Brod, trattato da «matto», e a Isaac Löwy, definito «un cane che porta le pulci a casa»4. Michael Löwy individua il contesto storico dove avviene il conflitto della famiglia Kafka e segnala aspetti autoritari e coercitivi ben riconducibili al clima creato dal sistema politico austro-ungarico. Anche questa è una metafora senza mezzi termini del “kaiser”, diretta a ogni singolo pater familias e a ogni consapevole autorità che si estrinseca già all’interno dei singoli spazi domestici. In questo panorama autoritario di coercizione sistemica Kafka enuclea, uno a uno, tutti gli occupanti dei loro «piccoli troni»: capi di gabinetto, prefetti, dirigenti e funzionari, burocrati raffinati che, con la «carta», intrecciano quelle catene che imbrigliano nella dimensione di un insensato potere milioni di uomini e donne. Kafka apparteneva alla schiera di giovani ebrei che in quel contesto, alla fine dell’Ottocento, rivendicavano poesia e arte, libertà e «asimmetria» al potere. Come afferma ancora Löwy, il giovane Franz avrebbe voluto farla finita con borghesi, commercianti, banchieri, industriali e liberali democratici: egli affermava la necessità di coltivare le arti e fruire nella propria vita di «inutilità», rivendicando quest’ultima dimensione al pragmatismo grigio del quotidiano e dell’insensato autoritario.

Ma chi era Hermann Kafka e che cosa desiderava per il figlio? Per quale motivo si verificava il terribile conflitto? Egli era un ricco commerciante e un borghese: in realtà per i tempi rappresentava l’uomo nuovo. Egli aveva costruito il suo benessere con il pragmatismo e il senso dell’utile, in modo diametralmente opposto a quanto il figlio concepiva. I due erano così ontologicamente diversi da poter immaginare che fra loro non ci sarebbe mai stata nessuna possibilità di condivisione di un solo valore nella propria esistenza. Come spesso capita in contesti familiari simili, pare chiaro quale considerazione Hermann nutrisse per l’hobby della scrittura del figlio Franz. La figura del padre fu soverchiante, schiacciante, enorme nei confronti di quel figlio assorto in mere «velleità» senza futuro e senza una reale progressione economica. Mai avrebbe potuto sperare che Franz continuasse le sue attività lavorative e, per questo motivo, lo considerò un erede indegno, incapace, inabile a guadagnarsi da vivere e apprezzare per il proprio successo sociale la strada già tracciata dal genitore. Hermann fu effettivamente una persona orribile: soprattutto per le punizioni corporali inflitte a Franz, accompagnate da pesanti violenze verbali. Già da bambino egli veniva lasciato al freddo sul ballatoio della casa, secondo una sistematica strategia di punizioni esemplari. Lo stesso Kafka racconta quei momenti e segnala il danno interiore che si protrarrà per lui anche in età adulta, irreversibilmente.

Tuttavia con questa consapevolezza e quasi in modo contraddittorio, Franz sente un senso di colpa verso il padre, affermando: «Il mio senso di colpa nasce proprio da te». Ma è soprattutto l’incomunicabilità a prevalere, una distanza che si riscontra fra le righe della lettera in modo abbastanza esplicito. La Lettera al padre non è la missiva di un adolescente in piena crisi emotiva ed esistenziale perché Kafka, nel momento della scrittura, aveva già 36 anni ed era un uomo in piena maturità. Forse è questo l’atto che rappresentò una rottura senza margini di recuperabilità affettiva, sia perché la figura del padre rimase statuaria anche a distanza di anni, sia perché la «sua legge», quasi come quella divina, rimase quasi come sospesa dall’alto a veicolare in Franz il senso di un essere sempre inattuale, in colpa, fuori luogo, nella costante dimensione della paura: «Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente».

Per Kafka era evidente, in un filo rosso che tutto lega a sé, la relazione fra l’autorità paterna, l’autorità del patriarca e la tirannia come «sistema politico». Ancora nella Lettera al padre l’allusione è chiara: «Tu prendi ai miei occhi il carattere enigmatico che hanno i tiranni il cui diritto non si basa sulla riflessione, ma sulla loro persona»5. A questo proposito Löwy ricorda quando Franz rimproverava al padre il trattamento che egli riservava ai suoi dipendenti. Kafka, come sosteneva Elias Canetti, era sempre dalla parte dei più umili, gli ultimi e i diseredati verso i quali nutriva una simpatia riscontrabile anche nei suoi diari, soprattutto nel racconto della condizione degli operai nella fabbrica di amianto della sua famiglia: lavorando in uno stato di «sporcizia insopportabile», «abituati al frastuono incessante delle trasmissioni e quello isolato delle macchine» e sottoposti al più risibile dei poteri senza mai essere trattati come esseri umani, «nessuno li saluta», «nessuno si scusa quando li urta». Löwy cita testualmente le parole di Kafka, impiegato presso un’assicurazione, quando in un rapporto sugli incidenti di lavoro nell’edilizia civile nel quale lamentava l’assenza di organizzazione dei lavoratori, osservava quanto certi comportamenti e incidenti dovevano essere riservati al sindacato piuttosto che alle Assicurazioni del Regno di Boemia. Kafka in particolare denuncia nella lettera il comportamento riprovevole del padre nei confronti dei suoi operai, citando una delle sue tante violenze a loro discapito: «Con lo spintone scaraventavi giù dallo scrittoio merci che non volevi fossero scambiate con altre […], e il commesso doveva raccattarle»6.

Particolarmente interessante nella vita di Franz Kafka fu la storia di Otto Gross. Anche Gross fu vittima dell’autorità paterna e a causa delle violenze subite nel 1913 venne internato in un ospedale psichiatrico, proprio per volere del padre. La sua liberazione avvenne grazie all’intervento dei suoi amici, che promossero una potente campagna di stampa. Gross aveva avuto il coraggio di richiamarsi a Nietzsche, Freud e Stirner, su tutti, per denunciare la volontà di potenza, il potere patriarcale e il principio di autorità della famiglia e nel sociale7. Kafka lo aveva conosciuto durante un viaggio in treno nel 1917. Otto e Franz si rividero a Praga e il primo propose la pubblicazione di una rivista dal nome «Fogli di lotta contro la volontà di potenza»: in una lettera a Brod, Kafka manifestò vivo interesse per il progetto. Infatti l’idea di Gross era assolutamente simmetrica a quella di Kafka laddove riconduceva alla sua analisi sul potere, la tirannia paterna e la resistenza (anarchica) a qualsiasi autorità istituzionale8.

Kafka sapeva perfettamente da quale parte stare. Nel romanzo Amerika ben si evince la sua critica al capitale laddove il dio denaro è davvero un altare da adorare. Un aspetto originale è la sua radicale critica al potere esercitato nella società americana dagli apparati tecnici moderni. Nel romanzo Löwy segnala le descrizioni inquietanti del lavoro meccanizzato, dove in un mondo spietato e in una civiltà tecnica tutto sembra essere disumanizzato e immerso nel caos: appare in questa baraonda frenetica la presenza di un «elemento ignoto» che si insinua per chissà quali fini. Come afferma Wilhelm Emrich, questo libro rappresenta «una critica fra le più lucide che la letteratura moderna abbia conosciuto della società industriale. L’occulto meccanismo psicologico di questa società, i suoi effetti diabolici sono messi in luce senza concessioni»9. Conosciuta sembra essere la fonte di ispirazione di questo romanzo, il libro dell’ebreo socialista Arthur Holitscher, Amerika heute und morgen. In questo testo la società americana viene descritta come un inferno, alienata, mercificata: Holitscher avanza una critica serrata al taylorismo come origine del male. Tuttavia è Kafka che meglio descrive dinamiche, ingranaggi e origine del potere capitalista americano, del suo autoritarismo, laddove mette in risalto l’onnipresenza del dominio nei rapporti sociali. Sul taylorismo, in una lettera diretta a Gustav Janouch, così Kafka si esprimeva con echi biblici: «Con un delitto come questo si arriva ad asservire gli altri per mezzo della malvagità. È naturale. La parte più sfuggente e quindi meno esplorabile dell’intera creazione, il tempo, viene imprigionata in una reta di impuri interessi economici. In questo mondo non solo la creazione, ma soprattutto l’uomo, che ne è l’elemento costitutivo, viene macchiato e umiliato. Una vita all’insegna del taylorismo è una maledizione tremenda da cui, al posto della ricchezza e del guadagno desiderati, possono derivare solo fame e miseria»10.

C’è di sicuro qualcosa di profetico in queste pagine, come nella Colonia penale, nella Tana, nel Castello e in altri racconti. Kafka è labirintico ma non incomprensibile, ci lascia un testamento e una profezia, ma soprattutto una profondità di temi e contenuti non ancora dovutamente percorsi.

 


  1. Michael Löwy, Kafka sognatore ribelle, Elèuthera, Milano 2022, p. 69.  

  2. Ivi, p. 70.  

  3. Ibid.  

  4. Ivi, p. 71.  

  5. Ivi, p. 72.  

  6. Ivi, p. 79.  

  7. Ivi, p. 74.  

  8. Ibid.  

  9. Ivi, p. 80.  

  10. Ivi, p. 82.  

Tagged with →