di Gioacchino Toni
Serge Latouche, Il disastro urbano e la crisi dell’arte contemporanea, traduzione di Cristina Cecchi, elèuthera, Milano 2025, pp. 104, ed. cartacea € 14,00, ed. digitale € 6,99
Se la città produttivista, con tutti i suoi disastri ambientali e sociali, vanta ormai una lunga storia, è con il processo di globalizzazione scatenatosi alla fine del vecchio millennio che, sostiene Serge Latouche, si assiste all’esplosione dell’urbano. Pur distruggendo con l’industrializzazione ottocentesca una parte importante delle città storiche (come hanno raccontato Émile Zola e Charles Dickens), la modernità ha comunque mantenuto o strutturato un qualche equilibrio urbano, sociale e valoriale grazie anche alla lotta di classe che, con le sue rivendicazioni e le sue lotte, ha saputo imporre il mantenimento di un minimo di vivibilità e socialità.
È con la mercificazione e la finanziarizzazione – con la deregolamentazione della società salariale e dello Stato sociale, con la disintermediazione finanziaria e con la disarticolazione delle barriere economiche e mercantili – imposte dalla globalizzazione inaugurata dal duo Regan-Thatcher che si assiste alla omnimercificazione del mondo. Tutto diviene commerciabile in una società che sembra fare della crescita il suo scopo primario. Alla luce di tali premesse, il recupero dei centri storici che ha caratterizzato gli ultimi decenni si è spesso risolto in gentrificazione e museificazione inaugurando un’espulsione nelle periferie dei ceti popolari, espulsione ultimamente portata avanti anche attraverso il meccanismo degli affitti brevi.
Il disastro urbano, scrive Latouche, «non è tanto il risultato del fallimento degli architetti o degli urbanisti, quanto il risultato di una crisi di civiltà», dunque, per ricomporre il tessuto sociale locale e urbano, continua lo studioso, occorre uscire «da questa società di crescita che atomizza la società e perde di vista il bene comune»; la realizzazione di una società di decrescita, che abbandoni una volta per tutte «il culto insensato dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita» appare a Latouche come l’unica possibilità di ricomposizione.
Non si tratta, però, mette in guardia lo studioso, di «fare un’inversione caricaturale che consista nell’esaltare la decrescita per la decrescita». Anche alla luce del fatto che oltre due miliardi di persone, non ammesse nelle città, si trovino a vivere in bidonvilles e in favelas autocostruite, occorre saper contrapporre alla società di crescita un’utopia radicale, sistematica e ambiziosa che preveda di: «rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare». Insomma, secondo lo studioso, serve un altro modo di abitare la città. Per quanto l’utopia della decrescita implichi una visione globale, per attuarla, però, puntualizza Latouche, non si può che partire dai territori.
Rifacendosi al pensiero di autori contemporanei come Cornelius Castoriadis e Jean Baudrillard e riprendendo le idee e le sperimentazioni dell’utopista ottocentesco William Morris, Latouche giunge a ritenere che il disastro urbano e l’insignificanza dell’arte contemporanea abbiano le medesime origini. La società di crescita «con la sua pervasiva artificializzazione della vita lacera il territorio, divora lo spazio, rode il senso dei luoghi, disintegra il tessuto sociale» compromettendo «ogni capacità di meravigliarsi, a favore di quella replica infinita dello stesso che è il segno distintivo dell’arte contemporanea».
Occorre prendere atto, sostiene Latouche, che la generazione dei grandi maestri dell’architettura come Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe e Walter Gropius, e persino quelli di loro più attenti alla questione ecologica, come Frank Lloyd Wright, Alvar Alto e Hassan Fathy, così come la generazione successiva che vanta personalità del calibro di Renzo Piano, Paolo Portoghesi, Frank Dehry, Ricardo Bofill e specialisti dell’abitare ecologico come Philippe Madec, Christian de Portzamper e Jacques Ferrier, non sono riusciti ad andare oltre alla realizzazione di singole unità, non hanno insomma saputo/potuto “fare città” ed evitare la decomposizione del tessuto urbano, la cementificazione del territorio e, in generale, l’aumento della bruttezza.
Il trionfo del mercato e della globalizzazione, sostiene Latouche, «dissolve l’arte nell’ossimoro dell’industria culturale», in tale contesto la finanziarizzazione dell’arte ha finito per imporre su scala globale una sorta di pensiero unico. Baudrillard aveva saputo anticipare sin dai primi anni Settanta del secolo scorso quel processo di annientamento dell’arte operato del mercato sviluppato dall’industria cultuale che avrebbe condotto, come sostiene Castoriadis, alla condanna dell’opera d’arte a divenire prodotto destinato, al pari di tutti gli altri prodotti contemporanei, alla smania della novità e alla rapida obslolescenza.
Per quanto anche prima dell’avvio di quella che è stata definita l’era della globalizzazione si avesse a che fare con un’economia di crescita, la società di allora, puntualizza Latouche, non era ancora stata del tutto fagocitata dall’economia. «La cultura non era ancora completamente industrializzata e mercificata» e ancora si avevano artisti operanti in maniera genuinamente critica nei confronti della società. Nel frattempo persino la critica artistica radicale alimentata in Francia dai Situazionisti è stata ampiamente recuperata dal nuovo spirito del capitalismo che si è dimostrato particolarmente abile nell’utilizzare «le resistenze messe in atto per mantenere in vita il mito dell’arte e della cultura, mentre ne distrugge la realtà».
Convinto che al fallimento della politica urbana e all’insignificanza dell’arte contemporanea abbia contribuito la crisi della cultura, Latouche ritiene che insieme alla ricostruzione del tessuto locale e urbano, il progetto della decrescita possa fornire gli strumenti e l’immaginario per ricostruire anche il senso del bello, per «re-incantare il mondo».
Per quanto la soluzione della decrescita proposta da Latouche sollevi perplessità e critiche anche nell’ambito della critica anticapitalista, lo studioso ha indubbiamente il merito di denunciare efficacemente la follia produttivista a partire dalle sue fondamenta. L’analisi di Latouche andrebbe comunque aggiornata alla luce dell’incidenza che la rivoluzione digitale e l’introduzione dell’intelligenza artificiale stanno comportando a livello sociale e culturale, con tutto ciò che ne consegue a livello del fare società, di costruzione identiaria e di immaginario. Un mutamento che riscrive l’idea stessa di crescita indirizzandola verso forme inedite. Se, anche alla luce di ciò, è difficile immaginare come possa essere avviato e praticato un tale programma di decrescita coinvolgendo attivamente una popolazione che ha sedimentato atomizzazione e individualismo, di certo resta viva l’urgenza sociale, ambientale e culturale di fermare la deriva produttivista, prima che sia davvero troppo tardi