di Franco Pezzini
Giorgio Bona, Volevo soltanto salvare le mie parole, pp. 201, € 16, Arkadia, Cagliari 2025.
È sempre difficile dar conto in chiave di romanzo della vita interiore di uno scrittore, tanto più di un poeta: ciò che egli vede, ciò che per rifrazione vede il narratore stesso, deve restituire non solo fatti ma echi, toni, persino silenzi. L’operazione è possibile immergendosi nell’opera, magari traducendola nella lingua originale a scoprirne i ritmi e le pause: ma la sfida è resa più ardua dall’evocazione di contesti di vita estremi, lontani da quelli in cui fortunatamente viviamo e tali da mettere alla prova l’equilibrio stesso della scrittura – con il rischio di produrre un testo ostico al lettore.
Tutte queste considerazioni sono state chiare a Giorgio Bona nella scrittura di Volevo soltanto salvare le mie parole, un testo intenso e partecipe sulla caduta sociale del grande poeta russo Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1891-1938). Bona attinge alle sue liriche, che in parte ritraduce e incastona, e alle memorie della vedova Nadežda Jakovlevna Khazina (1899-1980) che con piena partecipazione alla passione di lui ne tratterrà mnemonicamente i versi, lasciando uno struggente memoriale e tante lacrime. E nel dar conto di un testo scritto quasi in stato d’ipnosi e comunque in punta di piedi, con grande delicatezza e umana empatia, l’autore fornisce un’indispensabile bibliografia.
“Ecco il secolo belva”. Nelle pagine di questa storia, che è anche la storia di un corpo malato e sottonutrito che si sta spezzando, e delle umiliazioni che tuttavia finisce col reggere, incontriamo in modo diretto o meno i grandi nomi della letteratura russa del tempo, in parte amici di Osip, parecchi destinati a finir male – Anna Achmatova, Nikolaj Stepanovič Gumilëv, Sergej Esenin, Marina Cvetaeva, Velimir Chlebnikov, Vladimir Majakovskij, Vjačeslav Ivanov… – e in parte nemici o imbarazzati conoscenti come Aleksey Tolstoy cui Osip rifila uno schiaffone, o l’ambiguo Boris Pasternak che cerca di destreggiarsi tra piccoli aiuti e posizioni incensurabili con le autorità. “Quella degli scrittori è una razza dalla pelle puzzolente e dalla cucina sudicia. […] Perché la letteratura adempie a un’unica funzione: aiuta i capi a preservare la disciplina tra i soldati e i giudici a massacrare i condannati”.
E poi una selva di ombre, burocrati o sbirri che in qualunque momento possono fermare per strada o fare irruzione in casa, maltrattare, minacciare e – ciò che massimamente turba chi scriva – confiscare libri e opere, e addirittura il necessario per scrivere. Indicativa la rivendicazione del titolo: Volevo soltanto salvare le mie parole. Ombre, burocrati o sbirri, connotati fino a un certo punto nel farsi massa fungibile: una sorta di pluralità brulicante e volgare a costituire il corpo del qui invisibile ma sempre evocato “montanaro del Cremlino, / l’assassino e il mangiatore di uomini”, Stalin. E poi questa è una storia di stanze: quelle di casa asfittiche, minuscole, dove trascinarsi fragili o fare l’amore o riuscire impensabilmente a scrivere, e quelle di uffici e istituzioni davanti alle quali fare anticamera o nelle quali confrontarsi coi burocrati. Ma le stanze più segrete, in fondo, sono quelle della mente dove la poesia sboccia (in Osip) o viene custodita (in Nadežda): e lì gli sbirri non possono fare irruzione. “Avrai soltanto il mio cadavere, la mia poesia sarà più forte di te”.
Di Mandel’štam sono note soprattutto due foto: la prima giovanile (1914, ventitré anni), riportata qui anche in copertina, mentre la seconda è la foto segnaletica del 1938, all’epoca del suo secondo arresto, dove dimostra molti anni in più dei quarantasette effettivi. Ingrossato, sciupato, con gli abiti trascurati concessigli: si fatica a riconoscere l’elegante ventitreenne dell’altra. Ma questo invecchiamento di fame e vessazioni in stanze fredde e vuote dove, se proprio va bene, qualche vicina magari bussa alla porta a donare un uovo – e resta il sospetto che sia un’informatrice, in un intero panorama di spioni – è il tessuto di cui è fatto questo romanzo doloroso. Tra le cui pieghe, nondimeno, assieme a una grande storia d’amore di coppia, nel terreno ingrato di quella Mosca riesce a germinare intatta la poesia.
No, non appartengo al presente,
non mi conviene così tanto onore.