“No, grazie, per me niente. Non mangio mai fuori pasto.”
“Ma via, Signor Valenzano, solo per oggi! La festa aziendale c’è una volta all’anno! Faccia uno strappo alla regola!” insiste l’usciere.
“No, davvero. Non posso. Dopo sto male.”
L’usciere mi sorride, fingendosi comprensivo, ma si vede benissimo che non capisce. Del resto, chi ha mai capito? Neanche mia madre c’è riuscita. Anzi, soprattutto lei. Non faceva che ingozzarmi di cibo, a tutte le ore. Aveva la mania delle merende. “I bambini hanno bisogno di mangiare spesso, non hanno mica lo stomaco grande come gli adulti!”
Poco e spesso, mamma. Non tanto e spesso. Almeno, non mezzo chilo di pane con tre etti di affettato a intervalli di due ore. Dall’alto dei tuoi novanta chili – di cui almeno trenta concentrati nei rotoli di grasso in cui si perdevano il tuo stomaco, la tua pancia e il tuo inguine – tu certo potevi reggere merende di questa portata. E in effetti te le concedevi con serenità ogni volta che per me scoccava l’ora della merenda. “Guarda, mangio anch’io con te! Dai, è più bello mangiare in compagnia”, dicevi.
Io però ero un bambino gracile e inappetente e sono sempre stato sottopeso. Lo sono ancora. Neanche nella statura ho preso da te. Piuttosto da papà. Anche lui è piccolo, segaligno, nonostante abbia molta più energia di me.
Almeno io ho sempre pensato che ne avesse molta, se non altro per soddisfare una donna come te. E quando scoprii come si accoppiavano gli adulti, la prima cosa che mi chiesi fu come l’affarino di papà riuscisse a penetrare oltre la cintura di castità che gli strati di grasso formavano sul tuo bassoventre. Quanto all’affarino, non glielo avevo mai visto, ma, ignorando allora la credenza popolare sui nani, lo immaginavo proporzionato alle sue dimensioni. Così, per tutta l’adolescenza ho pensato che papà fosse capace di acrobazie eccezionali. E che fosse dotato di energie altrettanto fuori dal comune.
Io invece mi sono sempre stancato per un nonnulla.
Anche adesso risento subito degli sforzi fisici e se non mi imponessi di andare ogni sera in palestra sono certo che non riuscirei a sostenere la fatica delle mie giornate.
Checché ne dicesse Matilde, la mia ex moglie.
Sì, perché lei era convinta che se mi fossi lasciato andare un po’ di più ai piaceri della vita non avrei avuto bisogno di ammazzarmi in palestra per irrobustirmi e dare un po’ di tono alla muscolatura.
Matilde! Lei certo non aveva bisogno di rinvigorirsi. Era quello che si dice una ragazza florida. Era talmente florida che, per quanto non fosse bella, aveva sempre uno stuolo di corteggiatori intorno. Tutto ciò che è vitale esercita infatti una grande attrazione sugli esseri umani, soprattutto sui maschi.
Lei invece, chissà perché, era stata attratta da me.
Matilde diceva che le facevo tenerezza, che le sembravo una formichina soldato, ostinatamente impegnata nella difesa del nido. Che ogni tanto sporgevo la testa fuori dalla mia fessura per poi ritrarla in modo repentino, ma che rimanevo lì, subito dietro la soglia, senza mai smontare la guardia. Secondo lei avevo uno spiccato senso militare, proprio come si addice a una formica soldato. E mi prendeva in giro perché, con il ferro da stiro, facevo la piega ai jeans: “Ma dai! Stiri anche i jeans? Lo so che il tuo sogno sarebbe stato indossare l’uniforme, ma a tutto c’è un limite!”
Che sciocca! Figurarsi se avrei voluto mettermi l’uniforme!
Ho fatto i salti di gioia quando mi hanno riformato per scarsità toracica! E quanto alla formica nel nido, non poteva trovare un paragone meno calzante!
Non sono certo uno che se ne sta chiuso in casa! Ogni tanto esco con i colleghi di ufficio e in palestra ho fatto amicizia con un ragazzo separato come me. Senza contare che un paio di volte all’anno mi sento ancora con Gianluca e Paolo, i miei compagni di liceo.
Piuttosto, Matilde non aveva tutti i torti a dire che lei era come una bimba dispettosa e un po’ sadica. Che quando, all’inizio, si era divertita a provocarmi, ci aveva provato lo stesso gusto che da piccola sentiva nell’infilare gli aghi di pino nei formicai per catturare qualche preda che poi trasportava lontano e lasciava cadere dall’alto su un terreno sconosciuto, per vedere come se la sarebbe cavata.
Le piaceva disorientarmi, diceva. E ci riusciva, devo ammettere. Perché Matilde era una somma di contraddizioni.
Pur essendo stata educata da una famiglia di cattolici bigotti e pur frequentando regolarmente la chiesa e la gente dell’oratorio, non aveva alcun freno inibitorio. Peccava con assoluta serenità. Era capace di uscire da uno dei cori religiosi a cui partecipava il mercoledì sera, ancora con la chitarra in spalla, di salire in macchina e di mettermi una mano tra le gambe, lì, davanti al sagrato della chiesa, mentre la gente la salutava.
Per non parlare dei peccati di gola. Una volta, per Pasqua, aveva fatto fuori in dieci minuti l’uovo di cioccolato da un chilo che avevano regalato al fratellino. Ed era già una donna sposata. Era già la Signora Valenzano, allora.
Io ero arrossito per lei quando, alla fine del pranzo pasquale, avevano mandato il bimbo a cercare l’uovo e questo era tornato a mani vuote, piagnucolando che non aveva trovato nulla. Matilde era scoppiata a ridere e senza battere ciglio aveva confessato davanti a tutti che lo aveva mangiato lei.
“Non ho saputo resistere, Tommy. Dai, non te la prendere, domani te lo ricompro più grande.” E il buffo è che tutti si erano messi a ridere e neanche il bambino aveva fatto storie. Perché Matilde sapeva come prendersi le cose: senza tanti complimenti e senza che nessuno si sentisse in diritto di lamentarsi.
Quanto a questo io avevo cercato di opporle resistenza, ma era stato inutile. Dopo solo due giorni di convivenza Matilde si depilava le gambe con i miei rasoi blu, anche se le avevo spiegato che per lei c’erano quelli rosa. Li avevo comprati apposta i silk-epil e li avevo messi dentro all’armadietto del bagno, sul lato sinistro, vicino ai pacchetti di assorbenti, ai dischetti di ovatta per il trucco e ai prodotti per l’igiene intima femminile. Sul lato destro invece avevo sistemato la mia roba. Ma niente da fare. Matilde aveva subito mischiato ogni cosa. E quanto ai rasoi, le piacevano quelli blu, così come le piaceva il mio profumo, sebbene il muschio bianco abbia “una fragranza decisamente maschile”, come aveva detto la commessa. E appena usciva dalla doccia, grondante di acqua, Matilde si infilava il mio accappatoio, perché “Quando siamo innamorati è naturale condividere le cose. Quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio”. Con il risultato che l’accappatoio non faceva mai in tempo ad asciugare del tutto e sapeva costantemente di lezzo.
Puzzava anche durante gli ultimi mesi di convivenza, perché Matilde ha continuato fino all’ultimo a infilarsi il mio accappatoio, così come ha continuato a usare i miei rasoi blu e a innaffiarsi il collo e le spalle del mio profumo al muschio bianco. Anche se non era più innamorata di me. Anche se, a rigor di logica, quello che era suo non era più mio e quello che era mio non era più suo.
In effetti quello che era suo non era più mio da un bel pezzo. Erano almeno un paio di anni che si era fatta venire gli scrupoli.
Diceva che si era pentita di aver fatto l’amore prima del matrimonio, che si sentiva in colpa per il passato e non voleva ricascarci.
“Ma ora siamo sposati Matilde! Siamo sposati da quattro anni! Che c’entra quello che abbiamo fatto prima?”
Per lei c’entrava. C’entrava eccome. “Ora devo purificarmi. E comunque l’amore da oggi in poi lo faremo solo per fare figli. Come dice Don Lorenzo, il sesso deve essere finalizzato alla procreazione” aveva spiegato. Non avrebbe mai ammesso che non le andava più.
Riusciva a perdonarsi tutto, ma non la mancanza di slanci.
Al di là di quello che le avevano insegnato al catechismo, l’unico comandamento che Matilde riconoscesse nel profondo era “soddisfa l’istinto”. E non sopportava che il suo istinto ora si fosse assopito.
Era diventata pallida, smunta, con due occhiaie nere sotto agli occhi. La mattina faceva fatica ad alzarsi e non aveva più voglia di mangiare: si limitava a spilluzzicare qualche foglia di insalata. In pratica si nutriva solo di frutta e verdura, lei, che era sempre stata una carnivora e aveva dato il colpo di grazia al mio fegato a furia di intingoli e soffritti.
Ma poi si è iscritta al corso di Spagnolo. In breve tempo è rifiorita. Le occhiaie nere sono sparite e la sua carnagione è tornata luminosa come prima. Ha ricominciato a ridere di gusto per ogni sciocchezza.
Ho subito immaginato che la sua rinascita avesse a che fare con Alberto. Infatti ormai lui l’accompagnava a casa ogni volta che c’era lezione di spagnolo.
“Com’è che sei già tornata, Matilde?”, le avevo chiesto la prima volta.
“Ho fatto presto perché sono venuta in macchina. Mi ha portato Alberto, sai, quello che fa il corso insieme a me”, aveva detto distratta, tenendo gli occhi sul fondo della borsa, intenta a cercarvi qualcosa.
Con il tempo ha cominciato a ritardare. Rimaneva in macchina a chiacchierare con Alberto, sotto casa. Finché una sera, mentre stavo nascosto dietro alla tenda del soggiorno e spiavo l’interno della macchina di Alberto, nel trapezio che la luce del lampione rendeva visibile, ho visto la mano di Matilde tra le gambe di lui.
Allora abbiamo deciso di separarci e un paio di settimane dopo io mi sono preso un bilocale in periferia, vicino al lavoro.
La casa è piccola ma nuova, con le piastrelle di ceramica che si puliscono in fretta e gli infissi di alluminio che non lasciano penetrare gli spifferi.
Il bagno è minuscolo ma ho trovato un armadietto molto funzionale, diviso in scomparti: gli asciugamani a sinistra, le scorte di carta igienica al centro e i prodotti per la barba a destra, vicino al lavabo.
La cucina è a vista, con numerosi pensili, in cui tengo due pacchetti di ogni prodotto, per non restare mai senza. In frigo non c’è altro che frutta e verdura, perché sono diventato vegetariano o, per essere precisi, macrobiotico.
Ormai lo sanno tutti, anche al lavoro.
L’usciere che ha, allora, da fissarmi? Non mangio tramezzini di pollo impiastricciati di salsa cocktail. E, soprattutto, non mangio mai fuori pasto.
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