di Gioacchino Toni
Piero Cipriano, La salute mentale è politica. Quello che non vediamo della psichiatria e che ci riguarda tutti, Fuori Scena, Milano 2025, pp. 192, cartaceo € 17,00, digitale € 11,99
Riprendendo Franco Basaglia, quando afferma che dire no al manicomio significa dire no alla miseria del mondo, nel suo nuovo libro, La salute mentale è politica (2025), Piero Cipriano scandisce perentoriamente i suoi no anche alle moderne varianti smart del manicomio; no ai reparti chiusi (SPDC), no alle bibbie diagnostiche (DSM) e agli psicofarmaci prescritti in quantità industriale (Big Pharma) destinati, presto, a inglobare le molecole psichedeliche depotenziate finalizzandole al mero reintegro produttivo di chi manifesta sofferenza mentale.
Tutti questi no, che possono essere riassunti con un no alla psichiatria per come si è data nel corso della sua, tutto sommato, breve e mutevole storia, per ribadire la necessità di fare i conti con la miseria del mondo, con la complessità delle cause sociali delle sofferenze.
Oltre a far notare come la storia della psichiatria sia sostanzialmente storia di psichiatri, di diagnosi, di terapie e di repressione dei sofferenti e non di questi ultimi, Cipriano sostiene che, lungo tutta la sua storia, questa si è rivelata uno strumento utile al capitale per nascondere le sue responsabilità. Piuttosto che confrontarsi con la cause sociali delle sofferenze, la psichiatria si rifugia nelle risposte semplici e semplicistiche che ieri prevedevano l’internamento manicomiale, oggi l’etichettamento diagnostico e la prescrizione farmacologica. Insomma, oltre che scienza, la salute mentale, sostiene l’autore, è assolutamente anche politica.
Il manicomio concentrazionario nato in Francia sul finire del Settecento per segregare e separare quanti vengono considerati folli dai carcerati e dal resto della società, in Italia muore in seguito alle battaglie condotte da Basaglia e un manipolo di suoi collaboratori, nell’ambito di una più generale messa in discussione delle istituzioni, non solo totali, che attraversa il paese, che portarono alla Legge 180 del 1978, poi assorbita all’interno della Legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.
Nel suo tentativo di restituire al mondo coloro che ne sono stati esclusi, Basaglia è certamente mosso da un intento terapeutico, scientifico, ma al tempo stesso politico: è infatti in lui chiaro che occorre cambiare radicalmente la società che li ha rinchiusi affinché possa riaccoglierli pienamente. È per questo che, quella basagliana, può dirsi a tutti gli effetti anche una rivoluzione politica.
Per quanto deludente agli occhi del gruppo basagliano – una riforma più radicale avrebbe però necessitato di una società più avanzata rispetto a quella dell’epoca –, quella legge rappresenta un’innegabile atto politico, una svolta radicale in senso libertario nel modo di affrontare la sofferenza mentale e chi ne è colpito. Nonostante la chiusura sancita per legge, il manicomio, nella sua logica profonda, si è però rivelato duro a morire e lo spazio lasciato dalla chiusura di quel dispositivo di annientamento dell’essere umano, interessato più a segregare i devianti affetti da una qualche forma di disagio mentale che non a curarli e restituirli alla società, viene presto occupato da nuove forme di controllo e coercizione.
Alla conquista della scena da parte dei dannati della terra negli anni Sessanta e Settanta, risponde un decennio apertosi all’insegna del rappel à l’ordre; è il decennio in cui, tra le altre cose, prende vita la “neotelevisione”, potentissima spacciatrice di disimpegno, edonismo, egoismo e qualunquismo, capace di riscrivere sogni e desideri a suon di risate e applausi a comando ponendo le basi per quel processo di spettacolarizzazione e mercificazione dell’immaginario che, nel giro di qualche decennio, dal tubo catodico si espanderà all’universo digitale della rete.
Nel 1980, proprio nell’anno della morte di Basaglia e della marcia antisindacale dei quarantamila a Torino, esce il DSM-III, ennesimo aggiornamento del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders dell’American Psychiatric Association, la “bibbia diagnostica” degli psichiatri, che, accantonate diverse teorie e interpretazioni dei disturbi psichici, si proietta nella pura descrizione di sintomi.
L’uscita del DSM-III, sottolinea Cipriano, rappresenta davvero un momento di svolta importante nell’ambito della gestione del disagio mentale e di coloro che la società considera devianti, cioè quanti, come hanno perfettamente colto Franco Basaglia e Franca Ongaro (La maggioranza deviante, 1971), risultando improduttivi. In ossequio alla logica capitalista, anche costoro sono tenuti a partecipare, in un modo o nell’altro, al ciclo produttivo, da qui la necessità di considerarli a tutti i costi malti, affinché il sistema della produzione possa organizzare le sue cliniche e i suoi imprenditori della cura e della follia.
Ai tradizionali luoghi fisici di reclusione si sono così sostituiti – o, meglio, affiancati, in quanto mai completamente scomparsi – nuovi metodi di gestione dei devianti basati su etichette diagnostiche e prescrizione di psicofarmaci in quantità industriale, è davvero il caso di dire. A partire dagli anni Ottanta prende dunque piede l’era di quello che l’autore definisce il “manicomio chimico”: perse le tradizionali caratteristiche concentrazionali edilizie, è come se il manicomio si fosse trasferito direttamente nella testa degli individui, nei loro pensieri e in quelle vie neurotrasmettitoriali che li regolano.
La via diagnostico-psicofarmacologica, inoltre, amplia incredibilmente il suo bacino di intervento proponendo/imponendo, in una società indotta alla performance e alla vetrinizzazione, il giusto farmaco per ogni stato emotivo sopra o sotto le righe. Lo spostare allo spazio mentale (privato-individuale) ciò che appartiene allo spazio socio-politico (pubblico e collettivo) permette all’ordine politico-economico di semplificare le cose.
Tale sistema, basato sulla diagnostica, sulla catalogazione e sull’etichettatura identitaria applicata a chiunque risulti affetto da un disturbo o da una malattia, estende a dismisura i confini di questa nuova forma di manicomio. Non importano le cause del disagio e nemmeno gli effetti della cura sul lungo periodo; ad ogni etichetta proposta dalla “bibbia diagnostica” – giunta nel frattempo alla versione DSM-5-TR del 2022 – corrisponde un farmaco, una tecnica psicoterapeutica, un luogo di rieducazione, identificazione, pena, espulsione utile a rendere profittevoli i devianti.
Se nella prima metà del Novecento la psichiatria propone un trattamento differenziato per chi è affetto da disagio mentale in base alla possibilità o meno di un suo recupero al ciclo produttivo – oppressione e segregazione per gli irrecuperabili e psicanalisi per gli altri – le cose cambiano nella seconda metà del secolo con l’arrivo dei farmaci che, per certi versi, semplificano le cose venendo prescritti praticamente a tutti, per quanto nelle classi più agiate a questi si affianchino le tante pratiche psicoterapiche che si possono permettere.
La moderna psichiatria è politica in quanto tende a nascondere i problemi sociali dietro a quelli individuali e privati perché, scrive Cipriano,
psicologia, psichiatria, psicanalisi sono divenute tecniche ideologiche. Strumenti di Stato o, meglio, tecniche al servizio del capitale, atte a suggerire, “a livello di massa”, un “modo di interpretare la realtà” in termini rigorosamente non politici. I problemi politici vengono sapientemente camuffati dalla tecnica psicopolitica come problemi scientifici, ovvero di inconscio. Ecco, dunque, che la psichiatria fa politica. […] Il depresso che va dallo psichiatra pensa di andare da un medico, invece consulta un politico (p. 47).
In un tale contesto lo psichiatra si preoccupa di nascondere i sintomi per provare a riadattare coloro che soffrono a quella stessa realtà che li fa soffrire, ecco perché «la psichiatria, la psicanalisi, le psicoterapie e gli psicofarmaci sono oggi indifferentemente buoni per sani e malati, pur essendo fruiti in maniera del tutto diversa dalle due categorie. Cosmesi buona per tutti» (p. 47).
Il modello di cura mentale fondato sul binomio diagnosi-farmaco continua ad avere successo perché è quanto di più semplice e deresponsabilizzante si possa pretendere. Questo tipo di psichiatria è vincente, scrive Cipriano, anche perché, a differenza dell’antipsichiatria, della psichiatria critica e della psichiatria-non-solo-farmacologica, può contare sul sostegno economico, culturale e di immaginario del capitalismo.
La svolta farmacologica della psichiatria degli anni Ottanta ha le sue radici nei Cinquanta, quando vengono poste le basi per poter disporre, nel giro di un decennio, di alcuni farmaci in grado di agire su importanti dimensioni psicopatologiche. Parallelamente a questa storia della psichiatria farmacologica, si è sviluppata anche la storia della psichedelia occidentale lungo un percorso che può essere così schematizzato: una fase pionieristica, che ha preso il via sin dai primi anni Quaranta, a cui la stessa psichiatria dell’epoca ha, per qualche tempo, guardato con interesse; un periodo contraddistinto dalla messa al bando negli anni Settanta delle molecole psichedeliche, segnato da pratiche clandestine; un recente rinascimento, che può dirsi iniziato attorno al cambio di millennio forte anche di una serie di studi scientifici portati avanti soprattutto in alcune università inglesi e statunitensi.
Mentre la farmacologia ufficiale si è concentrata su sostanze volte a restringere, crepuscolarizzare la coscienza o, nel caso degli antidepressivi, a concedere un’euforia priva di felicità, la psichedelia ha guardato in direzione opposta, all’apertura della coscienza. Il sostanziale fallimento della farmacologia ufficiale ha contribuito a riportare alla luce del sole l’universo psichedelico anche se, sottolinea Cipriano, il suo rinascimento si sta indirizzando a trattare esclusivamente quanti possono essere ricondotti in società all’interno del ciclo produttivo, lasciando agli irrecuperabili gli antipsicotici depot (LAI).
La psichiatria capitalista, di fronte agli insuccessi farmacologici, ha fiutato il business che potrebbe derivare da quelle «molecole ingestibili» che aveva rifiutato e demonizzato in passato. Il rinascimento psichedelico, sostiene l’autore, sembra dunque avviarsi verso una direzione conservatrice, decidendo di non rompere con la psichiatria tradizionale.
Come esempio di uso capitalistico delle sostanze psichedeliche finalizzato al potenziamento neurale si veda il ricorso che sempre più frequentemente vi fanno quanti vivono alla costante ricerca di trovate in grado di sbaragliare il mercato. «Microdosing per tutti i creativi, i talenti, i geni: non molecole dell’espansione coscienziale, della dissoluzione dell’ego, ma una sorta di cocaina senza effetti avversi che inflazioni l’ego e performi i colpi di genio dei super performativi» (p. 125). Il capitalismo si rivela ancora una volta abile nel ricondurre tutto alla propria logica, comprese «le terapie o sostanze o droghe psichedeliche tornate prepotentemente alla ribalta» (p. 125).
Come il manicomio, anche la psichiatria, non volendo morire, si trasforma ancora una volta e dopo aver messo l’universo psichedelico fuori legge, ecco che non disdegna di recuperarlo piegandolo, però, al mantenimento dello status quo. Ecco allora i grandi produttori di farmaci prodigarsi nel sintetizzare forme di psilocibina o DMT attenuate, non visionarie, affinché curino i cervelli senza che cambi l’esperienza delle persone.
La cura senza toccare gli stati di coscienza. Senza illuminazione, intuizione, insight. La coscienza è politica, e gli umani devono essere pacificati, adattati, ammansiti, narcotizzati, non svegliati dal sonno politico in cui, da qualche decennio, sono stati ulteriormente fatti sprofondare (p. 127).
Insomma, in un contesto caratterizzato dall’individualismo, dall’efficientismo, dal produttivismo, dal consumismo, dalla competitività e dallo sfruttamento dell’essere umano sull’essere umano e sull’ambiente in cui vive, i guardiani dello status quo si stanno prodigando, con successo, affinché anche l’universo psichedelico si pieghi alla logica capitalista divenendo il prossimo manicomio, stavolta psichedelico.
Alla luce di tutto ciò, occorre ammettere, una volta per tutte, scrive Cipriano, che alla psichiatria, sia quella ufficiale che quella alternativa, mancano idee nuove.
Se vogliamo andare finalmente oltre questa separazione cartesiana tra mente e corpo, è chiaro che abbiamo bisogno di un’altra psichiatria e perfino, forse, di una medicina diversa. Di passare da una psichiatria ormai pressoché esclusivamente biologica a una salute mentale che sia biologica, psicologica, sociale, economica, politica, antropologica e – perché no – spirituale (p. 147).
Nel sostenere con estrema lungimiranza che la «terapia è lotta alla miseria», scrive Cirpriano, Basaglia tralascia quel bisogno di trascendenza presente in ogni essere umano a cui invece guarda Ronald Laing. Per raggiungere un modello di cura che sia prevenzione e restituzione di salute mentale occorre allora abbandonare la psichiatria come si è abbandonato il manicomio perché
la psichiatria è, oggi, il nuovo manicomio. Con i suoi dogmi (il cervello rotto), le sue centinaia di diagnosi (che diventano prognosi autoavverantesi) i suoi farmaci (unica terapia possibile), la sua incapacità (o la sua non volontà) di sintonizzarsi sui determinanti sociali economici e politici, per non dire su quel bisogno di trascendenza che ci appare sotto forma di sintomi che definiamo psicotici (pp. 157-158).
Occorrerebbe eliminare gli SPDC, che si sono rivelati piccoli manicomi, rivoluzionare i CSM facendone delle case della salute mentale ai margini della città e inseriti nella natura, «fare salute mentale nei luoghi in cui si vive, negli ambienti con cui si ha confidenza: a casa, nelle scuole, sui posti di lavoro» (p. 158), luoghi che si sono fatti nuclei di solitudini anziché comunità.
Dovremmo cercare di ricreare la piazza, l’agorà dove ritrovarsi, riconoscersi, incontrarsi, confrontarsi, decidere, fare vera democrazia dal basso. Quella comunità che, con un atto di magia nera, ci è stata sottratta, sostituita con un luogo non fisico, non geografico, virtuale: le piazze dei social network, con amici e follower illusori, ci hanno resi monadi, hikikomori che si illudono di essere nel mondo (p. 159)
La salute mentale, sostiene dunque Cipriano, oltre che scienza è anche politica, una politica che dovrebbe essere anarchia, intendendo quest’ultima come «cooperazione, relazione e insieme rispetto, ascolto dell’altro», come ricerca della propria libertà alla luce della libertà altrui. «Così intesa l’anarchia ha molto a che fare con la coscienza» (p. 179).
Da parte sua il potere (stato e capitale) continua a prodigarsi affinché restino ben chiuse le porte della percezione, i mondi della trascendenza a cui sarebbe possibile avere accesso. «Un cervello acceso e una coscienza espansa – che può ogni tanto e consapevolmente trascendere la realtà ordinaria –, però, sono difficilmente ingabbiabili negli schemi, nei dogmi, nelle convenzioni e nei tabù del realismo capitalista» (p. 180). Ecco perché la salute mentale è (anche) politica.