di Nico Maccentelli

Autori vari, Il loro grido è la mia voce, poesie da Gaza, Fazi Editore 2025, pp.141, € 12,00

“La poesia come atto di resistenza” è la prima frase che leggiamo nel risguardo a sinistra, che rappresenta il primo approccio, ciò di cui si parla in ogni libro con copertina cartonata. Perché è evidente a tutti che a Gaza non si fa poesia per amor dell’arte, ma come espressione estrema, appunto un grido che viene lnciato dall’inferno verso il resto del mondo che sino ad oggi poco ha fatto per intervenire come si conviene verso i nuovi nazisti, suprematisti da “popolo eletto”, come i nazionalsocialisti si consideravano come “razza ariana”. Ricordo che sono in atto un’inchiesta crimini di guerra e mandati d’arresto per Netanyahu e Gallant da parte della Corte Penale Internazionale e un’ordinanza per genocidio alla Corte Internazionale di Giustizia nei confronti di Israele e sollevata dal Sudafica, che di questi temi direi che ahimè se ne intende…

Un Occidente complice che falsifica i fatti attraverso dei media che sono strumento di propaganda per la guerra e l’oppressione, e che è parte in causa nel genocidio perché collabora con Israele1 i suoi enti di ricerca, il suo apparato militare, che fornisce armi e sistemi militari. Un resto del mondo che non opera alcuna sanzione. Solo la società civile con il BDS e i movimenti solidali alla causa palestinese e contro il genocidio in atto leva la propria voce. Troppo poco. Troppo poco a settant’anni dall’altro grande genocidio. E questo la dice lunga sul fattoche siamo entrati a piè pari a partire dall’Occidente atlantista in un’era di barbarie e di guerra dalle quali diviene sempre più difficle uscirne man mano che si va avanti. Per questo il silenzio e l’indifferenza sono complici, sono ottimi alleati dei signori della guerra.

Il loro grido è la mia voce significa proprio questo, non è un semplice atto solidaristico, ma la consapevolezza di un legame che unisce tutti i popoli e le classi sociali subalterne in un destino che progressivamente può colpire tutti, perché iniziata una logica, il resto va da sé. E il Tg di prima serata copre.
La prefazione è di Ilan Pappé, intellettuale socialista e storico ebreo israeliano di formazione comunista, che oltre a denunciare il grave silenzio dell’Occidente dalla Nakba fino al genocidio odierno a Gaza e alla pulizia etnica sanguinaria in Cisgiordania2, e ad auspicare che quest’opera contribuisca a squarciare il velo dell’ignavia degli occidentali, sottolinea che:

«Le poesie raccolte nel presente volume aprono uno scorcio su questa parte di sofferenza e resilienza umane di fronte al genocisio. Sono a volte dirette, altre volte metaforiche, estremamente concise o leggermente tortuose, ma è impossibile non cogliere il grido di protesta per la vita e la rassegnazione alla morte, inscritte in una cartografia disastrosa che Israele ha tracciato sul terreno.»3

La poesia, sostiene Pappè, per il popolo palestinese, sin dalla dominazione britannica e ancora poi dai tempi della Nakba è fiorita “… sostituendosi talvolta alle voci censurate e silenziate di attivisti e politici”…4

«In Palestina si è continuato a produrre poesia nei peggiori momenti storici, anche per celebrare le piccole vittorie di un movimento di liberazione o la resileinza del popolo.
Scrivere poesia durante un genocidio dimostra ancora una volta il ruolo cruciale che la poesia svolge nella resistenza e nella resileinza palestinesi.5

Il tema della resistenza è la dominante che aleggia implicita o enunciata apertamente nella sua forza esistenziale nella poetica palestinese. Nel trattare questo tema, la vulgata atlantista rimarca il proprio suprematismo di “civiltà” esattamente come l’etnofascismo sionista del “popolo eletto”, riducendo la popolazione palestinese ad agnelli sacrificali, quando non vengono messi come spazzatura sotto il tappeto. La resistenza non esiste: esiste il “terrorismo” di Hamas, che giustifica tutto e chiude ogni argomento. Pertanto, come per i nazifascisti, i partigiani erano “banditen”, la resistenza palestinese è ridotta a insensato terrorismo politico. E dopo aver digerito e riconosciuto resistenze come quella algerina, o stigmatizzate come comuniste quella del popolo cubano, vietnamita, cinese e così via, figlie dell’era dei due blocchi, quella palestinese semplicemente non esiste.

Ma come ho scritto poc’anzi, la resistenza c’è eccome e ha l’insopprimibile carattere esistenziale, dove vita e morte sono agli apici di una non esistenza, ossia di una condizione totalmente priva di diritti, del diritto principale: quello di vivere. È la sopravvivenza precaria e sempre sull’orlo della distruzione della soppressione dei “subumani”, come vengono descritti gli arabi dai colonizzatori sionisti.

Rimarrò
Perché i sentieri qui nella mia patria
Scorrono con una sofferenza simile alla mia
E malgado il sangue versato
Mi restituiscono la sensazione della vita
Rimarrò
Perché i bambini
Qui comprendono la risposta come me
Se chiedi al bambino
Racconta, cosa sognerai stanotte?
Lui guarda a lungo il cielo
E ascolta per un’eternitàil fragore dei proiettili
Risponde con tristezza
Perché pensare questa cosa
E potrei non vivere fino a stasera?

Perché qui non vivo a lungo
E in qualsiasi momento
Il fischio dei proiettili
Si porta via ciò che desidero e ciò che voglio
Qui potrei vivere, qui potrei morire
E con tutto questo…
Rimarrò qui
Amando la vita
Rimarrò io
Per scrivere di me e di chi soffre
Lettere di verità
Perchè scrivere in guerra è una morte rapida
In essa c’è vittoria e c’è suicidio
E c’è salvezza

Scriverò
Dalle tenebre delle caverne
Forse potrò risuscitare il fiore del mattino
Perché la poesia
È come il filo delle spade
Come il tuono del cielo
Perché tutti i proiettili
Che hanno sparato
Per soffocare le parole
Per uccidere la nostaglia, per uccidere l’antico e il nuovo
Per il nostro annientamento
aumentano la resistenza
rafforzano la volontà

(Estratto da Un attimo prima della morte di Dareen Tatour, 1982)

Come si vede, questi versi tratti da una poesia di una poetessa e fotografa nata a Raineh, città araba in Israele, potrebbe essere stata scritta anche oggi, a Gaza. E per le sue poesie Dareen Tatour è stata condannata e i libri confiscati dopo una disquisizione processuale su cosa sia poesia oppure no. Questo tanto per commentare le panzane che i vari propagandisti dell’hasbara6 nei nostri media sostengono senza pudore nel definire Israele uno stato democratico e laico. E questo per dare un senso compiuto, e non da oggi, al termine “genocidio”, che riguarda anche la cultura, l’arte e la letteratura di un polo genocidato, messe alla berlina e criminalizzate.

Un’ultima considerazione: ritengo opportunistico che dopo quasi due anni di sterminio, per pure ragioni di un conveniente marketing elettorale, i dem e le entità in loro quota, associazionismo e sindacalismo cgillino, abbiano “sussurrato ai cavalli”, e non ai diretti interessati, levando un labile ditino di sorry7. Dopo che in tutti questi mesi le manifestazionini pro-pal sono state attaccate e criminalizzate dalla stampa di regime e dalle forze di polizia. Che forse diffondere le ragioni della Resistenza palestinese, oltre la coltre di umanitarismo peloso e interessato, e oltre la cappa di indifferenza consumistica, stia diventando un crimine anche qua?

 

 

 


  1. a tal proposito c’è l’eloquente rapporto [https://www.ohchr.org/sites/default/files/documents/hrbodies/hrcouncil/sessions-regular/session59/advance-version/a-hrc-59-23-aev.pdf} all’ONU di Francesca Albanese, relatrice speciale per i diritti umani nei territori palestinesi, e per chi ha fretta o non ha tempo per la traduzione dall’inglese, si legga questo [https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/07/03/rapporto-di-francesca-albanese-allonu-ecco-le-aziende-che-fanno-profitti-contribuendo-alleconomia-del-genocidio/8048574/} articolo su Il Fatto Quotidiano. Ovviamente i media nostrani non ne parlano.  

  2. “L’aspetto più inquietante di ciò che accade dal 7 ottobre 2023 è il silenzio e l’indifferenza dell’Europa” pag X de Il loro grido è la mia voce  

  3. Ibidem, pag X  

  4. Ibidem, pag IX  

  5. Ibidem, pag. X  

  6.  “Hasbara” (הַסְבָּרָה) è una parola ebraica che si riferisce agli sforzi di pubbliche relazioni e diplomazia pubblica volti a diffondere una visione positiva di Israele e delle sue azioni a livello internazionale. Il termine può essere tradotto come “spiegare” o “chiarire”. In realtà è un’opera immane di falsificazione ottenuta con una sistematica formazione di hasbaristi e di infiltrazione nei media e nei partiti politici, associazioni varie. Il cavallo di battaglia è la manfrina dell’antisemitismo, quando nessun sodale con il popolo palestinese, popolo semita (!!!), lo è, anzi si sa bene ormai come gran parte dell’intellettualità ebraica è anti-sionista, vedi lo stesso Pappé, Norman Finkelstein, il nostro Moni Ovadia e tanti altri come le centinania di manifestanti ebrei a Capitol Hill, nel 2023, tra i primi a comprendere i crimini sionisti.  

  7. Ancora oggi proseguono i distinguo che spezzano una lancia a favore delle “ragioni” di Israele vaneggiando su Hamas, senza proporre il minimo sindacale: sanzioni, boicottaggio, embargo, così facili e automatici invece per la Russia…